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di Vincenzo Morvillo

Si è spenta ieri, a novant’anni, Monica Vitti.

E no, non ho voglia di scrivere il solito coccodrillo in ricordo di una grande interprete del nostro cinema.

Non ho voglia di sprecare inutili parole.

Voglio invece omaggiarne l’impegno e il ricordo con la rabbia ponderata di chi, la sua arte, l’ha amata e la ama ancora e nonostante tutto.

Un umile tributo a quei film dell’alienazione, che girò sotto la regia molecolare di un maestro come Michelangelo Antonioni.

E dunque…

Articoli. Fiumi di retorica e ipocrita cordoglio. A partire dal twitt del Uolter nazionale.

Per proseguire, poi, con la sua intelligenza, la sua classe, la sua sagacia, la sua straordinaria ironia, la sua riservatezza, il suo intimo e trattenuto soffrire.

Quel dolore nascosto, che era fattore determinante delle sue indiscutibili doti d’artista.

Nessuno, però, ha il coraggio di dire o scrivere una cosa semplice. A mio modesto avviso, lampante.

Le sue straordinarie capacità di interprete;

di più, le sue adamantine qualità di attrice versatile – che è cosa ben diversa dall’interpretazione elementare di un ruolo – di attrice/pittrice/machina attoriale tale, per parafrasare Carmelo Bene, da divenire essa stessa il testo del film;

capace di inversioni di registro ad U e di sfumature di colore rubate alle tavolozze di Caravaggio, Van Gogh e Monet tutti insieme, anche nel contesto linguistico di una sola pellicola;

ebbene, quel valore culturale aggiunto, di chi, pur diplomata all’Accademia di Arte Drammatica, non aveva messo da parte, con alterigia, lo studio, la ricerca, la curiosità – che sono parte fondante del lavoro artigianale dell’attore – ponendoli in second’ordine rispetto alle effimere leggi dello star system;

quel valore, dicevo, nessuno lo richiedeva più.

Monica Vitti aveva smesso di fare film dalla fine degli anni ’80.

Destino comune a tanti altri grandi interpreti del nostro cinema.

Dalla Melato (cinque film e un po’ di Tv); a Volontè, trattato da appestato dallo stesso partito comunista che non gli aveva mai perdonato la fuga di Scalzone.

Persino Mastroianni, negli anni ’90, prima di morire, girò solo due pellicole di registi italiani e prodotte nel nostro Paese. Il resto, fuori.

Con grandissimi autori stranieri, com’è ovvio. Ma solo in pochissime co-produzioni italiane.

Attrici ed attori, guarda caso, di ideali comunisti.

Sopraffatti, accantonati, dimenticati, forse anche stanchi e nauseati da un paese che mutava codice genetico.

E in cui, il cambio di marcia produttivo iper-liberista, il compimento della ristrutturazione del Capitale in tutti i settori dell’umana esistenza, scuoteva il mondo della cultura e dell’arte fin dalle sue fondamenta.

Un paese già a sovranità limitata, politicamente, dagli anni del dopoguerra, cedeva l’ultima trincea resistenziale, annegando sotto le onde d’urto dei trattati del commercio internazionale.

Invaso e colonizzato, fin dentro l’immaginario, dalla merce a stelle e strisce.

La propagandata fine della Storia, in Italia, ha affondato il colpo nella carne viva del nostro patrimonio intellettuale.

Relegando la nostra Arte, il nostro Teatro, la nostra Letteratura, il nostro Cinema a futile intrattenimento.

Peggio, ad una casella del Pil. La meno importante.

Da esportatori di conoscenza a importatori di prodotti.

Con pellicole e autori premiati al Festival delle vanità losangeline, perché inautentiche rimasticature di maniera del più massificante postmodernismo americano.

Un american style che fa guardare l’Italia da un cineobiettivo star and stripes.

Siamo diventati l’occhio degli Usa. Un concetto atlantista.

In poco più di trent’anni, la manipolazione e la manomissione del pensiero critico si è compiuta sotto i colpi di maglio di un imbarbarimento estetico ed intellettuale.

Che reca i segni del dominio iper produttivista e aziendalista.

Le stimmate di un profitto che toglie il respiro e riduce la creatività ad utile d’impresa. Ad incasso, costi, ricavi.

Il fetido odore del denaro e della finanza soverchiano e tramortiscono il pensiero alato.

Sono la volgarità dello star system, l’arte gastronomica, il disimpegno borghese, l’estetismo da poetica arcadica a trionfare.

Film come L’Avventura, La Notte, l’Eclisse, Deserto Rosso non hanno più senso.

Perché è stata modificata l’essenza stessa del pensiero nell’emisfero occidentale.

Ma nel nostro Paese – per dirla con Pasolini – la trasformazione omologante e piccolo-borghese, di matrice televisiva, è avvenuta con una violenza tale da estirpare le radici stesse dalla terra fertile della nostra creatività.

Riflettere, fermarsi, guardare il mondo con le lenti della critica è divenuto, all’improvviso, un rischioso passatempo per sognatori.

Quando non per sovversivi e terroristi.

Un passatempo che dis/toglie il peso ingombrante del presente onnicomprensivo ed eterno.

Che distrae dal ritmo incessante della fabbrica/mondo.

Che elimina il rumore di fondo di un’esistenza divenuta lavoro alla catena di montaggio.

Ad incombere, il peso di un essere dileguatosi nell’ontologia dello spettacolo.

Uno spettacolo che non vuole e non può più interpretare la realtà. Ma solo mostrarne l’immagine patinata sotto il velo di Maya della merce/feticcio.

E allora, a cosa servivano più grandi autori, grandi attori, grandi scrittori e poeti?

A cosa servivano più i Volonté, le Vitti, le Melato, i Mastroianni?

A cosa servono, oggi, autori, attori, artisti indipendenti, autentici, che hanno voglia di guardare al mondo e alla realtà con uno sguardo alternativo, che non sia quello del Mercato?

Quando addirittura il Corriere della Sera e l’Ansa, ieri, nell’annunciare la morte della Vitti, l’hanno confusa con Mariangela Melato, sbagliando foto e film!

Sintesi di un giornalismo vergognoso – soprattutto quello della fu Terza Pagina – ridotto a casamatta dell’approssimazione e dell’analfabetismo.

Coagulo di ignoranza e riserva clientelare per Capre senza Storia.

Forse, quello smarrirsi della memoria, per Monica, ha simboleggiato l’allegoria di una volontà di dimenticanza, di fronte all’incedere di un tempo che sentiva non appartenerle più. Chissà…

Sappiamo, però, che di quegli artisti, di quegli intellettuali, di quei grandi attori, registi, scrittori e poeti che hanno contribuito a costruire la Storia del nostro paese, ci si ricorda solo al momento della loro morte.

Per riempire di melliflua e vuota retorica la pagina bianca di un quotidiano.

E allora no. Noi non vogliamo adeguarci.

Non vogliamo consentirvi di usare il nome di Monica per imbrattare la vostra ignobile carta.

Fate Silenzio!

Con la Vitti se ne va il Cinema. E uno degli ultimi pezzi di un’Idea.

L’idea che il reale si può anche modificare. Con un’immagine, una parola, uno sguardo, un gesto.

«C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice», diceva la Giuliana di Deserto Rosso.

Addio Monica. Addio compagna. Il futuro remoto sarà il nostro futuro.

La cambieremo quella realtà. E allora lo saprai!

 

Sorgente: Silenzio. è morto il cinema! – Contropiano

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