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Ci sono sempre più lavoratori poveri e indebitati a causa dei bassi salari, della precarietà, del part-time involontario, dei contratti truffa, della dinamica salariale spinta verso il basso dalle privatizzazioni e del rincaro di tariffe e beni essenziali.

Di Federico Giusti per La Città Futura.

I lavoratori poveri sono sempre di più

Come si misura la povertà lavorativa? Una domanda di non facile risposta, per quanto l’esperienza comune insegni a giudicare poveri quanti non percepiscono un salario adeguato a supportare le esigenze personali e familiari.

Di solito il “lavoratore a bassa retribuzione” (low-pay) ha una retribuzione annua inferiore al 60% della retribuzione mediana, il povero su base familiare invece ha un reddito inferiore al 60% di quello mediano.

È povero chi lavora meno di sette mesi all’anno; è povero chi non va oltre un contratto part-time; sta diventando povero anche chi ha un full-time ma con contratti nazionali di riferimento che prevedono una bassa paga oraria.

La povertà delle famiglie non riguarda più solo i nuclei monoreddito o con figli a carico. Sovente a non arrivare in fondo al mese è il lavoratore che fino a 10 anni fa poteva definirsi privilegiato, con un posto fisso e contratto full-time.

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Ogni considerazione sulla povertà riporta la mente alla figura sociale del lavoratore o pensionato indebitato, costretto a continui prestiti per far fronte a esigenze familiari e a spese insostenibili con la sua semplice fonte di reddito.

Il debito non è solo un rapporto economico; resta anche una tecnica di controllo e di governo delle soggettività individuali e collettive. Chi contrae debiti è generalmente, per ovvi motivi, un soggetto ricattato e ricattabile, vive una situazione di inferiorità e un senso di colpa che poi è stato insinuato per anni nella nostra mente, una sorta di espiazione del debito pubblico, esploso fragorosamente nel corso degli ultimi anni per salvare il sistema finanziario privato, che diviene il giusto pretesto per abbattere le spese sociali e quelle pensionistiche.

Nei 40 anni di politiche neoliberiste, il lavoratore indebitato è divenuta figura di massa, indebitato rispetto alle banche per onorare prestiti atti all’acquisto della prima casa, a ripagarsi le spese universitarie o sanitarie (specie laddove istruzione e sanità pubblica non funzionano), a coprire le spese per un’assicurazione privata o semplicemente arrivare a fine mese.

Il progressivo impoverimento della classe lavoratrice è causato dalla perdita di potere di acquisto che riguarda ormai salari pubblici e privati, dal rincaro generalizzato delle tariffe e dei generi di prima necessità, dal part time involontario e dai contratti da fame determinati dalla politica dei bassi salari.

E se oggi gli stipendi sono leggeri, anzi leggerissimi, lo saranno anche le pensioni di domani tra vuoti contributivi e un sistema di calcolo dell’importo previdenziale alquanto svantaggioso per i bassi e medi salari, in primis i precari e le precarie.

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Il lavoratore indebitato vive una situazione paradossale: subisce la crescita dei carichi di lavoro ma percepisce salari del tutto insufficienti, vive sulla sua pelle la colpevolizzazione tipica della miseria vissuta con senso di vergogna, percepisce una sostanziale inadeguatezza, un fallimento esistenziale.

La povertà non è solo economica ma etica e morale, tanto che ciascuno di noi nasce già con un fardello di debiti da pagare (ma specularmente c’è chi – pochi – nasce con un cospicuo credito!).

Potremmo sintetizzare l’intero ragionamento nel luogo comune secondo il quale si vive per lavorare e pagare i debiti. E il fardello del debito pubblico per anni è stato scaricato sulle nostre spalle per sviluppare un senso di colpa diffuso che alla fine impedisce di avanzare rivendicazioni forti in termini di salari, pensioni e servizi.

È di pochi giorni fa la relazione di un gruppo di lavoro istituito con un decreto ministeriale del 2021 sulla povertà del lavoro, ne consigliamo vivamente la lettura per fotografare lo stato delle cose presenti.

Il lavoro è diventato povero e così avere un posto fisso non ci salva dall’indebitamento, stretti fra salari stagnanti e l’esplosione del tempo parziale involontario.

Vi entrano in gioco alcuni fattori tipici della debolezza strutturale dell’economia italiana, tra lavoro autonomo che, pur beneficiando di regimi fiscali agevolati rispetto al lavoro dipendente, presenta ancora sacche consistenti di evasione e la miriade di “lavoretti” a basso valore aggiunto.

Esce frammentato e indebolito il lavoro, al pari del servizi erogati al cittadino. I lavori vengono spezzettati e fatti erogare in brevi fasce orarie. Esigenze produttive spingono a ridurre il costo del lavoro e a ricorrere ai part time di poche ore per abbattere i tempi morti.

Avviene soprattutto nel settore dei servizi e negli appalti: nelle cooperative sociali operanti nel terziario, soprattutto pubblico, i posti di lavoro sono per lo più part time per poche ore settimanali e con salari da fame.

Questo dilagare di lavori sottopagati nelle cooperative sociali è soprattutto il risultato della norma (art. 12 bis legge 68/1999 e successive modifiche) secondo cui l’obbligo del datore di lavoro di riservare una quota di posti di lavoro ai disabili può essere assolto appaltando il servizio a una cooperativa sociale.

Piaccia o non piaccia il reddito di cittadinanza, in assenza di altri provvedimenti per garantire la piena occupazione – come per esempio la riduzione dell’orario di lavoro e l’attivazione di posti pubblici in settori di grande utilità ma tralasciati dal mercato – e di un giusto salario, è stata una misura indispensabile per il sostegno al reddito di famiglie che non arrivano in fondo al mese e necessitano di misure atte a sostenerne il potere di acquisto.

Il moderno welfare, da universale che era, si è trasformato in una sorta di sostegno al reddito vuoi sotto forma di reddito di cittadinanza, vuoi di bonus per accedere ad alcuni servizi materiali.

Siamo tuttavia in presenza di misure parziali e insoddisfacenti. Tra i sindacati cosiddetti rappresentativi si è fatta strada l’idea che gli sgravi fiscali sulla quota dei salari pagati dalle imprese come premio di produttività, siano misure fondamentali per restituire dignità e potere d’acquisto. La realtà è invece ben diversa.

Le aziende pagano meno tasse e contributi al welfare, determinando così la contrazione dei servizi e dei diritti che fanno parte del salario sociale. Nella sostanza si ha una riduzione del tenore di vita in cambio di un aumento della produttività se si vuole almeno percepire la quota salariale legata alla produttività.

Si alimenta insomma non solo la precarietà nelle sue molteplici accezioni e un vantaggio per le imprese, ma, in termini complessivi, una rimessa per lavoratori e lavoratrici.

Per queste ragioni serve rimettere in discussione l’intera impalcatura sulla quale si sorreggono i salari e le pensioni da fame partendo dalla necessità e l’urgenza di introdurre un salario minimo, di accrescere i salari ben oltre gli indici Ipca che hanno decretato solo perdita del potere d’acquisto, di non scambiare le elargizioni alle imprese come conquiste per le classi meno abbienti, di prevedere salari di uguale importo e identiche regole sia per la forza lavoro a gestione diretta che per quella a gestione indiretta.

Il vero problema non è tanto rappresentato dagli obiettivi sopra evidenziati quanto piuttosto dagli strumenti atti a raggiungerli. Inchieste e studi dimostrano quanto le disuguaglianze siano cresciute insieme alla miseria della forza lavoro e alla dinamica salariale spinta verso il basso dalle privatizzazioni e liberalizzazioni.

Secondo noi serve un radicale cambiamento di prospettiva che non potrà essere quello di adeguarsi alle politiche fiscali, previdenziali e occupazionali della Ue o dei paesi a capitalismo avanzato.

Bisogna osare e pensare in maniera radicalmente diversa da come si è fatto nel recente passato, aggredire le cause economiche e sociali della miseria e per farlo bisogna uscire dal moderatismo salariale ed economico che ha instillato nella classe lavoratrice il senso di colpa tipico dell’uomo indebitato.

Perché, a scanso di equivoci, colpe noi non ne abbiamo.

 

 

Sorgente: Che ripresa è se i lavoratori poveri sono sempre di più? • Kulturjam

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