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Il fondatore di Wikileaks è detenuto in Gb da quasi tre anni e rischia l’estradizione negli Usa con l’accusa di spionaggio. Le sue condizioni psicofisiche sono precarie. Ora a salvarlo e a porre fine a una mostruosa ci deve pensare l’opinione pubblica, dice la giornalista Stefania Maurizi in questa intervista per Left che introduce la nostra nuova storia di copertina #FreeAssange

di Leonardo Filippi

Da oltre mille giorni il fondatore di Wikileaks Julian Assange si trova nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra. Da un decennio vive da braccato. Le sue condizioni psicofisiche sono precarie e la sua vita è appesa ad un filo. Lo scorso 10 dicembre l’Alta corte della capitale britannica ha stabilito che il giornalista australiano può essere estradato negli Stati Uniti, dove è accusato di spionaggio, accogliendo il ricorso di Washington contro una precedente sentenza contraria. Ma la decisione non è ancora definitiva.

La colpa di Assange? Aver rivelato al mondo i segreti più inconfessabili dietro alle principali guerre condotte dalle potenze occidentali negli ultimi 20 anni, in Afghanistan e in Iraq, e dietro alle attività diplomatiche a stelle e strisce. Uccisioni di civili mai dichiarate, violenze, abusi. E poi interferenze nella politica di altri Paesi. Il pressing degli Usa nei confronti dei governi di mezzo mondo affinché sostenessero il loro impegno militare ad ogni costo. Rivelazioni compiute attraverso la piattaforma Wikileaks e grazie al contributo di whistleblowers che hanno fatto trapelare documenti riservati, come l’ex analista militare statunitense Chelsea Manning, che per aver contribuito a rendere pubblici quei papers ha trascorso oltre otto anni in carcere. La straordinaria e drammatica vicenda di Assange è ora raccontata in un libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto (Chiarelettere). La giornalista – oggi al Fatto quotidiano, in passato al gruppo l’Espresso – negli ultimi anni ha pubblicato in Italia le rivelazioni di Wikileaks, lavorando fianco a fianco con il collega australiano e il suo team. In quelle pagine ripercorre quella che è una vera e propria spy story, benché del tutto reale. A Left racconta perché difendere Assange significa proteggere le nostre democrazie. Per capirlo, occorre però ricostruire la vicenda del giornalista australiano e della sua piattaforma.

Stefania, quali sono stati, in sintesi, gli scoop più importanti di Wikileaks?
Le rivelazioni più esplosive sono state senza dubbio quelle sulla guerra in Afghanistan, sulla guerra in Iraq, sui detenuti di Guantanamo e poi la diffusione dei cablo della diplomazia statunitense, che hanno svelato il vero volto della politica estera Usa, mostrando scandali e retroscena. I documenti pubblicati da Wikileaks (nel corso del 2010, ndr) hanno aperto una rivoluzione nel giornalismo e nella percezione dell’opinione pubblica globale. Per la prima volta i cittadini hanno potuto osservare i lati più oscuri dei governi, quelli solitamente invisibili perché coperti da segreto. Una riservatezza che non serviva a proteggere la loro sicurezza, bensì a garantire l’impunità alle istituzioni che avevano commesso atti criminali come la devastazione di intere nazioni, vedi il caso dell’Iraq.

A questo proposito, in Gran Bretagna è scoppiata una polemica dopo la decisione della regina di conferire il più alto grado di cavalierato a Tony Blair…
Già, la decisione della corona inglese sta scatenando una reazione popolare fortissima per le enormi responsabilità dell’ex primo ministro nella distruzione dell’Iraq che ha generato milioni di profughi e ha contribuito alla nascita dell’Isis. È proprio grazie ai files rivelati da Wikileaks che abbiamo potuto guardare alle dinamiche reali di questo conflitto. Dalle stragi agli abusi coperti, alle vere cifre delle vittime civili.

Cosa contenevano i papers sulla guerra in Afghanistan e Iraq, in sintesi?
I documenti rivelavano per la prima volta la realtà nei due teatri di guerra, oltre la propaganda. Vi erano registrate le azioni sul campo, con tanto di coordinate spazio-temporali. Le guerre si vincono prima di tutto vincendo la battaglia dell’informazione, che crea consenso. Quando questa arma viene neutralizzata, o comunque fortemente colpita, la macchina della guerra entra in crisi. È per questo che appena pubblicati i primi papers sull’Afghanistan le autorità statunitensi hanno avuto una reazione ferocissima.

Alcune delle successive rivelazioni di Wikileaks, poi, hanno riguardato direttamente anche la politica italiana.
Sì, come nel caso dell’extraordinary rendition (la deportazione illegale di presunti terroristi per essere detenuti, interrogati o torturati altrove, ndr) dell’imam Abu Omar. I papers divulgati documentano le pressioni esercitate dagli Stati Uniti per garantire l’impunità agli agenti della Cia che hanno rapito un essere umano a Milano e lo hanno portato in Egitto dove è stato torturato brutalmente, nonostante i nostri bravissimi magistrati fossero riusciti a scoprire la loro identità e a condannarli con sentenza definitiva. Nessuno degli agenti, alla fine, è finito in prigione. Dopo che per anni gli Usa hanno fatto pressioni dirette sulla politica italiana, da Enrico Letta a Silvio Berlusconi, come dimostrano i cablo della diplomazia statunitense.

Ci sono state differenze tra le reazioni della destra e del centrosinistra al pressing di Washington, secondo quanto emerge dai documenti divulgati?
I documenti permettono di capire che la sudditanza italiana nei confronti degli Stati Uniti è stata trasversale, da Berlusconi fino al Pd, ma agita con modalità diverse. I diplomatici…

L’intervista prosegue su Left del 14-20 gennaio 2022

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Sorgente: Stefania Maurizi: Anche le democrazie hanno il terrore di chi racconta la verità | Left

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