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L’analisi storica delle esperienze locali e delle diverse modalità della lotta di classe aiutano a decostruire le narrazioni che rifiutano la realtà di una composizione di classe sempre variegata e con plurali forme di sfruttamento. Il caso di Livorno

Olimpia Capitano *

Quando parliamo di working class spesso, nel senso comune, ci immaginiamo solo la classe operaia. C’è quindi frequentemente una sorta di appiattimento della classe lavoratrice sulla classe operaia e, anche in rapporto a questo, viene alimentata la narrazione sulla fine della conflittualità e dell’appartenenza di classe. La centralità operaia, tuttavia, va affrontata in prospettiva storica. È un passaggio importante sia in relazione alla crescita di un ruolo economico e sociale della classe operaia nordoccidentale (maschio, operaio, bianco) grossomodo fino agli anni Settanta del Novecento; sia pensando al cambiamento delle strutture economiche e sociali della contemporaneità, che ha destrutturato buona parte delle forme tradizionali assunte dal lavoro legato al modello produttivo fordista e ha contribuito a mutare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Queste trasformazioni possono portare a pensare alla classe attraverso la lente del binomio prima e dopo: prima c’era un’omogenea classe operaia cui si riferiva il movimento dei lavoratori (raramente delle lavoratrici); adesso c’è una costellazione frammentata di lavoratori e lavoratrici precari.

Va poi considerato che questi cambiamenti si sono articolati in contemporanea al crollo del Muro di Berlino, al collasso del modello alternativo del socialismo reale e a una crisi profonda e multiforme che ha trasversalmente coinvolto società, istituzioni, orizzonti politici, ideologici e culturali. Classe operaia e comunismo sono diventati simboli e i simboli sono anche pericolosi. Pericolosi perché facilmente idealizzabili ma pure demonizzabili. E se non riportati alla concretezza della storia, tutto rischia di diventare specchio di quel che vogliamo vedere, posto sul confine tra un prima e un dopo. Storicamente però quest’idea di un prima e un dopo non funziona, né per la conformazione della classe lavoratrice, né per le sue forme di rappresentanza, tradizionalmente assunte dal Partito comunista.

L’affermazione del paradigma neoliberale sembra essere diventata in qualche modo la chiave di una narrazione che piuttosto che argomentare le complessità del passato per comprendere le genealogie del presente e pensare nuovi indirizzi futuri, preferisce muoversi attraverso una semplificazione che annulla la comprensione delle dinamiche storiche complesse e promuove la visione di una storia lineare, mossasi verso un sedicente progresso, che nel capitalismo vedrebbe al contempo la fine e l’apice del corso storico, il suo massimo orizzonte di senso. Lo studio storico può aiutarci a rivendicare altri orizzonti, a riappropriarci della complessità dei processi e a decostruire categorie ormai assunte, permettendoci anche di aprire nuovi spazi di pensabilità politica.

Un laboratorio importante è quello della Global labour history. Qui, metodologicamente, si è dapprima privilegiato un approccio che tende a fuoriuscire dallo spazio dell’unica direzione temporale pensata per stadi di sviluppo ed egemonizzata dalla leadership nordatlantica, introducendo nuove proposte di orientamento della ricerca come la microstoria translocale. L’approccio microstorico si accompagna in questo caso all’idea di translocalità che, piuttosto che limitarsi ad approcci comparativi tra realtà connesse da processi di mobilità, indica criteri di analisi su molteplici livelli: dalle specifiche condizioni locali ai fenomeni economici generali; dalle strutture familiari alle motivazioni soggettive per l’emigrazione e alle tensioni che esse implicano nei luoghi e nelle reti sociali di partenza e arrivo.

In questo modo si è cercato di interrogare l’espressione concreta di fenomeni storici entro realtà locali e la complessa dialettica che si crea, sia nelle connessioni tra siti, sia tra le singolarità di ciascun luogo. Si è quindi provato a mantenere la sensibilità microstorica separandola dall’assunzione di categorie date per vere – come quella della centralità operaia – con il duplice obiettivo della decostruzione dei concetti universalistici e della ricostruzione delle storie.

C’è un caso che ci parla di una realtà di classe assolutamente composita già nei primi anni del Novecento e del suo dinamismo conflittuale ed è il caso di Livorno.

Livorno era formata da un ceto popolare in cui i salariati legati al lavoro industriale e portuale – sovente come giornalieri – erano affiancati da modeste attività artigianali e commerciali (quali calzolai, maniscalchi, tipografi, parrucchieri, carrettieri, barcaioli e vinai), nonché da marginali o complementari attività illecite. I quartieri della città erano territori attraversati da alterità, miserie e solidarietà di classe, territori con altre regole, dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata. Nel 1911 i censimenti mostrano una prevalenza di addetti al commercio, seguiti da occupati nelle amministrazioni e nei servizi collettivi, poi da occupati nell’industria e infine da lavoratori e lavoratrici del settore agricolo e attività parcellizzate connesse o di altri settori. Era comunque presente una cospicua componente di classe operaia e salariata formatasi nel corso del Novecento.

Rispetto a questa sottolineerei intanto l’aspetto della componente femminile di fabbrica, che nelle grandi narrazioni resta nascosta dall’idea dell’operaio maschio e bianco come figura economica, sociale e politica centrale di quel periodo storico. Basti dire invece che a inizio Novecento le donne erano ancora la componente maggioritaria del proletariato di fabbrica 53,7%, contro 31,8% di uomini e 14,7% di fanciulli, dato che di per sé scardina tutta la retorica promossa da sindacati fascisti ed ex combattenti per espellere le donne dal mondo di un lavoro raccontato come lavoro rubato agli uomini, per tornare alle cosiddette «proprie mansioni naturali».

Vale la pena ricordare alcuni episodi che incrinarono il falso clima di pacificazione tra le classi e i generi che il regime tentò di accreditare. Nella primavera del 1925, una lunga vertenza vide 400 operaie, aderenti al sindacato confederale di categoria (Federazione italiana operai tessili), contrapposte alla direzione della Manifattura toscana. Entrate in sciopero reclamando un aumento salariale del 10% – mentre i 70 colleghi maschi, meglio retribuiti, non aderirono – affrontarono a testa alta licenziamenti e convocazioni individuali in questura, pur se, dopo quattro mesi di lotta, ne uscirono sconfitte. Invece, nello stesso anno, ebbe esito positivo lo sciopero per aumenti salariali attuato dall’organizzazione delle impagliatrici di fiaschi, non iscritte ai sindacati fascisti, presso la vetreria Lemmi.

Emerge poi con chiarezza – anche dagli archivi di polizia – il carattere esteso e collettivo di questo fenomeno di resistenza femminile durante l’intero arco del ventennio fascista e le complicità di genere, espresse attraverso canali propri. Dai canti antifascisti gridati dai balconi, magari sventolando i vessilli sovversivi – per cui risultano documentati più d’un arresto – ai passaparola sui luoghi di lavoro, ai frequentissimi scontri tra popolane e fascisti o uomini in divisa nello spazio normativamente femminilizzato del mercato. Queste tensioni si fecero sempre più intense e generalizzate nel corso della guerra, con la mancanza di viveri e l’aggravamento di condizioni di vita e di lavoro, fino a implicare vere e proprie sollevazioni popolari trainate dalle donne, che il questore segnalò al prefetto come «riottose e intemperanti».

Questa articolata realtà operaia si intrecciava con dinamiche sociali ben più ampie. A Livorno la complessità sociale delle realtà popolari si incontrò con la particolare genealogia del porto franco.

Occorre, per capire meglio, risalire alle origini della popolazione di Livorno, formata in buona parte con elementi raccogliticci, evasi, profughi, levantini, ebrei, in numero questi rilevantissimi. Educazione e religione non hanno mai fatto breccia in questo popolo, tanto che oggi il difetto principale delle masse è la mancanza di ogni puro sentimento di civismo e di attaccamento ai sentimenti del dovere, terreno fertilissimo quindi per le idee sovvertitrici.

Con queste parole si espressero alcuni dei maggiori esponenti del fascismo locale durante una delle due inchieste governative che precedettero la conquista fascista della città. Questa narrazione, al di là dei toni moralisti e di condanna fascista e borghese, ci riporta a un diffuso antiautoritarismo sovversivo, che possiamo in qualche modo collegare al periodo tra 1590 e 1595, quando il granduca Ferdinando, al fine di facilitare il popolamento di Livorno, emanò dei bandi che concedevano esenzioni, immunità e privilegi a commercianti, marinai e artigiani di ogni fede e provenienza affinché si trasferissero nel piccolo insediamento lagunare: immunità dai debiti contratti altrove, agevolazioni fiscali, ampie libertà religiose e politiche. La città era aperta a tutti i rifugiati: ebrei, musulmani, greci, cattolici e ugonotti francesi. Nondimeno qui poterono trovare modo di recarsi lavoratori forzati e schiavi fuggitivi, sex workers e piccola criminalità, a cui era assicurata la cessazione di ogni indagine sul loro passato.

In una società in cui la mera esistenza era la norma per una gran parte della classe lavoratrice e nelle quali uomini, donne e bambini si trovavano costretti a procurarsi mezzi alternativi di sussistenza, il sottoproletariato era assai difficilmente distinguibile dal resto della classe lavoratrice e la subalternità alla classe dominante era condizione comune: tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e spesso si trovavano in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese. Qui tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari. Il binomio tra classi lavoratrici e classi pericolose acquisì a Livorno una connotazione e un peso non poco rilevanti e lo sviluppo capitalistico, nel suo combinarsi con le peculiarità della struttura sociale cittadina non fece che rafforzare negli ambienti popolari della città, tra i lavoratori del porto, tra gli stessi primi nuclei di classe operaia industriale, una componente ribellistica che tendeva a profilarsi come una sorta di trama sotterranea affiorante alla superficie periodicamente e in modi diversi.

La composizione eterogenea, femminilizzata, razzializzata della classe lavoratrice e subalterna livornese, implicò risorse e problematiche: problematiche poiché frequentemente ci furono scontri tra cittadini e cittadine livornesi, divisi da appartenenze diverse, spesso inconciliabili concezioni del vivere sociale e frequente estraneità alla logica dell’organizzazione politica; risorse perché l’incontro di identità così diverse definì una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo e una composizione di classe, subalterna sì, ma spiccatamente combattiva ed eterogenea. È da qui che si è sviluppata una storia politica che ha visto sempre dialogare le trasformazioni delle strutture e dei gruppi politici e lo spontaneismo popolare, che più e più volte ha fatto sì che fosse possibile spostare in avanti l’asticella del conflitto.

Senz’altro questo tessuto sociale influenzò lo sviluppo del comunismo locale in modo atipico, quantomeno rispetto alla rappresentazione di un primo comunismo settario che, qui, trova scarsa aderenza. L’esperienza di Livorno si discostò dalla diffusa rappresentazione storiografica di un’assimilazione unidirezionale delle indicazioni della dirigenza nazionale, e dunque di un consenso tacito verso tutte le esortazioni che provenivano dal centro direttivo e richiedevano una separazione totale dalle altre forze politiche. Pur mantenendo la propria impronta politica, il comunismo livornese rifiutò le rigidità settarie e fu sempre connotato da un’esplicita apertura alla collaborazione, istituzionale o sindacale, con le energie sociali che premevano dal basso.

Sappiamo ad esempio che, a scissione avvenuta, i comunisti decisero di rinnovare il proprio impegno nell’amministrazione comunale. La decisione fu autonoma e in tal caso ebbe il consenso della direzione centrale. In particolare, questa logica collaborativa fu centrale anche nel definire la conformazione degli Arditi del popolo, movimento spontaneo e popolare che emerse e si diffuse in diversi contesti italiani, per far fronte comune contro le crescenti aggressioni fasciste, che già prima della marcia su Roma nell’ottobre dello stesso anno, avevano coinvolto sedi e militanti sindacali e legati a camere del lavoro e gruppi politici antifascisti. Almeno in linea teorica, la direzione del PCd’I reagì in modo piuttosto guardingo. Bordiga puntualizzò subito che l’inquadramento militare doveva rimanere assolutamente a base di partito. A Livorno Ilio Barontini, segretario della sezione, si espresse sin da subito nei confronti della dirigenza cercando di persuadere all’adesione e, nonostante il rifiuto centrale, la sezione locale partecipò moltissimo al movimento e riconfermò l’apertura che la contraddistingueva.

Così come la classe è stata ed è molte cose anche il comunismo è stato e può essere molte cose. L’analisi storica delle esperienze locali e delle diverse modalità di articolazione della lotta di classe – così come della sua composizione eterogenea – possono aiutare a decostruire le narrazioni che frappongono un prima e un dopo e rifiutano la realtà storica di una composizione di classe sempre variegata e della persistente compatibilità del capitalismo con plurali forme di sfruttamento. Centrale appare oggi la portata storica delle lotte portate avanti dal Collettivo di fabbrica della Gkn e della loro inclinazione marcatamente intersezionale.

Allo stesso modo, è possibile formulare una nuova riflessione politica, a cominciare dal racconto storico di un comunismo che intreccia una realtà di classe porosa e una serie di pratiche politiche capaci di articolare spazi di collaborazione di ampio respiro, cercando di porre al centro la costruzione di un benessere sociale e collettivo, partendo sempre dall’ascolto e dalla ricezione della domanda sociale, composta da molteplici soggettività. Resta da riconoscere e contrastare la perdita della funzione prioritaria del politico rispetto agli imperativi del neoliberismo, che ha comportato un’accettazione di quest’ultimo come unica prospettiva, articolando una sostanziale indistinzione politica. Sul terreno dell’analisi storica si fanno spazio letture critiche di una conflittualità di classe che sta dentro ma va anche oltre alla centralità operaia e che può proiettarci verso un futuro alternativo, fondato sulle potenzialità di una conflittualità di classe plurale e sul rifiuto del neoliberismo come norma societaria e perimetro del nostro futuro.

*Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. Si occupa di storia politica italiana e storia sociale del lavoro, con particolare attenzione alla storicizzazione del concetto di classe, alla microstoria translocale e alla storia del lavoro domestico

Sorgente: La pluralità del conflitto di classe – Jacobin Italia

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