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Andrea Fabozzi

Il segretario di un partito di maggioranza (Letta) decide di farsi ricevere dal presidente del Consiglio per lamentarsi dell’approvazione in parlamento di due emendamenti. Emendamenti su questioni minori, Letta si lamenta perché l’approvazione è avvenuta senza che il governo avesse dato il suo permesso. È solo un episodio, piccolo eppure utile per valutare fino a che punto si sia spinta la riforma costituzionale «di fatto» (direbbe Giorgetti) che regola ormai le nostre principali istituzioni. Anche nelle migliori coscienze, ci dice questo episodio e il suo essere stato rivendicato dal protagonista, si è fatta strada ormai la convinzione che il parlamento possa solo essere subalterno al governo. Sempre e comunque.

Nel merito di questo piccolo episodio, oltretutto, sarebbe più facile schierarsi con Letta che con la destra e i renziani che, facendo blocco, hanno fatto passere i due emendamenti. Salvo che si trattava di emendamenti sui quali anche i senatori del Pd erano d’accordo, ma hanno poi fatto retromarcia (inutilmente) per lealtà al governo.

Solo così vanno avanti le camere. Malgrado la enorme e composita maggioranza e salvo questa scandalosa eccezione non si approva nemmeno più un ordine del giorno senza che l’ordine arrivi dal governo. Naturalmente non sono sparite le mediazioni politiche, solo che si sono trasferite in altre sedi. Essenzialmente due: le sfide verbali dei leader di partito nelle trasmissioni tv e quella fase vischiosa e opaca che sempre più spesso separa l’approvazione formale di un provvedimento in consiglio dei ministri dalla sua effettiva pubblicazione.

Quando finalmente l’atto di governo è pronto – che si tratti di uno dei frequenti decreti, legati o meno all’emergenza Covid, ma anche di una riforma che dovrebbe essere strutturale come le ultime sulla giustizia – il testo viene consegnato al parlamento nel modo in cui di solito si passa un ordine a un ufficio gerarchicamente subordinato. Perché il lavoro sia svolto bene, quell’ufficio – il parlamento della repubblica nel nostro caso – deve sbrigarsi a mettere i suoi timbri e non deve creare intoppi. È per questo che i ripetuti voti di fiducia sono considerati uno strumento, se non l’espressione massima, di questa efficienza. Altro che forzature nella separazione dei poteri.

Le cose vanno così ed evidentemente non potranno che peggiorare quando, dalla prossima legislatura, il parlamento sarà sforbiciato.

La prima responsabilità di questa umiliante condizione va cercata proprio nelle aule della camera e del senato. Dove siede un personale politico selezionato – molto male – da una pessima legge elettorale. I rappresentanti del popolo eletti con le liste bloccate purtroppo finiscono con l’essere i rappresentanti del capo politico che gli ha garantito l’elezione o che può promettergli la (sempre più difficile) rielezione. Per questo si passa dall’obbedienza cieca («possiamo solo premere il pulsante del voto») al trasformismo sfrenato.

In questa legislatura il Movimento 5 Stelle ha visto andare via quasi un terzo dei suoi parlamentari (e il Pd e Forza Italia il 20%) senza che nessuno si sia sentito in dovere di spiegarsi, o scusarsi, con i suoi elettori.

Stregate dalla soggezione al governo, a tre diversi governi almeno fin qui, queste camere non sono riuscite a darsi (e nemmeno a discutere) una legge elettorale decente. E neanche una misera riforma dei regolamenti, senza la quale non si sa se e come potrà partire la prossima legislatura.

Eppure nessuno potrà restituire il suo ruolo al parlamento – anzi, le proposte che a tratti avanzano vanno in direzione esattamente opposta – se non il parlamento medesimo. Che avrebbe ancora la possibilità di ripartire da se stesso, con una legge elettorale proporzionale, con le preferenze e con norme serie di rimborso pubblico e tetti di spesa alle campagne elettorali. Avremo invece la conferma delle liste bloccate.

Sorgente: A che serve il parlamento? | il manifesto

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