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Covid19. La denuncia di Amnesty: gli «eroi» nel primo lockdown sono stati ridotti al silenzio perché hanno denunciato i rischi di contagio

Andrea Capocci

Nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) il Covid ha trovato una prateria. E chi ha provato a segnalare la strage in corso è stato zittito con le buone o con le cattive. È il drammatico contenuto di un’inchiesta condotta da Amnesty International, che ha raccolto le testimonianze di molti operatori attivi nelle Rsa di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. «Ci avevano detto di non usare le mascherine per non creare panico a utenti e famiglie» racconta ad esempio Silvia, infermiera in una struttura pubblica di Milano «ma eravamo già in pieno Covid, verso fine febbraio o inizio marzo 2020. Ci siamo ribellati e abbiamo fatto denuncia contro la persona che ci ha ammonito di non usare le mascherine. Io sono stata messa in quarantena preventiva per motivi politici».

ANCHE I SUOI COLLEGHI hanno subito rappresaglie: «spesso colleghi sono stati spostati di reparto e allontanati come ritorsione. Anche io ho ricevuto una misura disciplinare per aver partecipato a una manifestazione». Hamala, operatore socio-sanitario presso una Rsa privata, è stato licenziato nel maggio del 2020 dalla cooperativa per cui lavorava. Insieme ad altri 16 colleghi aveva denunciato che la struttura e la cooperativa nascondevano le informazioni sui casi di contagio verificati tra gli ospiti e il personale, e impedivano l’uso delle mascherine. Dalla loro denuncia è partita un’inchiesta giudiziaria, che ne ha riconosciuto le ragioni e ne ha permesso il reintegro.

LE MINACCE sono state particolarmente dure nei confronti degli operatori sindacalizzati. Piero, infermiere e sindacalista in una grande Rsa di Milano, ha subito ben 7 procedimenti disciplinari prima di essere sospeso per un mese. Un giudice gli ha permesso di rientrare al lavoro, ma per uno che si ribella ce ne sono tanti altri costretti a piegare la testa: «a novembre e dicembre 2020 – è la testimonianza di Piero – sono stati avviati altri 120 procedimenti disciplinari contro altri operatori e operatrici che avevano espresso preoccupazione riguardo alle condizioni di salute e di sicurezza nella stessa struttura».

SONO CONDIZIONI contrattuali di totale precarietà a rendere così ricattabili gli operatori socio-sanitari delle residenze. Prima fra tutte il tasso altissimo di esternalizzazione dei servizi. Secondo una ricerca del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) risalente al 2016, il 75% del personale delle strutture sociosanitarie e socioassistenziali censito è composto da lavoratrici e lavoratori in outsourcing con cooperative, somministrati o in regime di libera professione. E un far west dei diritti e dei contratti: mentre un infermiere di un ospedale pubblico guadagna in media 1600 euro al mese, in una residenza privata non si va oltre i 1300 euro. Il risultato sono turni di lavoro massacranti: «a volte lavoravo anche 16 ore al giorno, oppure facevo il turno di notte e poi lavoravo di nuovo il giorno dopo senza riposo, o facevo tre o quattro notti consecutive, che è anche illegale» ha raccontato a Amnesty Giacomo, un infermiere libero professionista in Veneto.

Ne fanno le spese soprattutto le donne: sono i due terzi del personale, si sono ammalate più spesso e devono conciliare il carico familiare col lavoro. «Ho spesso fatto doppi turni per diversi giorni di seguito» dice Jyoti, operatrice socio-sanitaria in Lombardia. «Per esempio, ho lavorato dalle 6.30 alle 13.30 e poi di nuovo dalle 17 alle 20. Non avevo turni fissi, mi chiamavano ogni volta che mancava del personale, anche nei fine settimana, nei giorni festivi e così via». Fuori da ogni regola, tanto i controlli non ci sono. Tra il 2017 e il 2020, il numero di ispezioni da parte degli ispettorati del lavoro è sceso da 180 a 104 mila, un calo del 43%, mentre gli addetti ai controlli sono calati di un quinto.

AMNESTY ora chiede che su questi fatti indaghi una commissione d’inchiesta parlamentare e invoca una legge a protezione di chi, con le proprie segnalazioni, permette di far luce su luoghi poco accessibili a tutti, istituzioni comprese. Anche la magistratura ha dimostrato di avere le armi spuntate, come dimostra la vicenda recente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Martedì i pm che indagato sulle morti da Covid al Pat hanno presentato una richiesta di archiviazione nei confronti dei vertici della struttura interpretata da molti come un’assoluzione da ogni responsabilità. In realtà i giudici hanno messo nero su bianco «carenze oggettive riguardo la distribuzione di dispositivi di protezione adeguati, formazione dei dipendenti, tracciamento del contagio, conseguenti provvedimenti di isolamento e contenimento» e «una certa sottovalutazione del rischio, in un’ottica che pare diretta, per l’appunto all’inizio del contagio, ad occultare più che a risolvere le difficoltà». L’impossibilità di stabilire un nesso diretto tra i decessi e le scelte dei vertici del Pat ha dissuaso i magistrati dal chiedere il rinvio a giudizio.

Sorgente: Rsa, lavoratori in prima linea contro il virus minacciati e licenziati | il manifesto

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