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Lottare, per Marx come per Gramsci, non è una pratica per vincere qualcosa, ma dare alla propria esistenza un senso che vada oltre l’attualità, una meta futura, forse ideale, ma con un percorso reale da intraprendere. La scomparsa della lotta è un vuoto culturale nella vita della nostra società.

Di Francesco Erspamer *

La scomparsa della lotta

Nel 1880 il giornalista John Swinton fece un viaggio di alcune settimane in Francia e Inghilterra e ne pubblicò il resoconto sul “Sun” di New York (allora i quotidiani non spacciavano solo gossip e “breaking news” a immediata obsolescenza).

Uno dei personaggi incontrati e intervistati fu Karl Marx. Benché tutt’altro che comunista, Swinton ne fu folgorato: “uno degli uomini più straordinari del tempo“, “un uomo dalla mente possente“, colto, informato, rigoroso, dai progetti ambiziosi ma con obiettivi pratici, senza fretta e senza riposo.

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Alla fine dell’intervista gli chiese quale fosse la fondamentale legge dell’esistenza. Dopo averci riflettuto, Marx rispose: “La lotta“. Eppure sappiamo che non era una persona mondana, sappiamo quale enorme importanza avessero per lui la famiglia, gli amici, i libri e la conoscenza, dalla poesia ai classici, dall’economia alla matematica.

Era seriamente malato, aveva vissuto sempre in povertà malgrado la sua notorietà ed enorme influenza politica e intellettuale; sapeva di non averne per molto e infatti morì tre anni dopo: non si aspettava di veder realizzata la società per costruire la quale aveva pensato, lavorato, scritto con incredibile intensità.

“Lotta” per lui significava impegno, solidarietà, coscienza della propria insignificanza come individuo e della propria importanza come parte di una collettività, di una Storia.

Lottare, per Marx come poi per Gramsci, non significava vincere: non era insomma uno strumento per raggiungere il successo personale e immediato, come dopo decenni di liberismo crede la maggior parte degli italiani, immemori non solo degli ideali socialisti ma anche di quelli religiosi.

Lottare significava dare alla propria esistenza un senso che andasse oltre l’attualità, spesso deludente; significava darsi una meta, non importa se lontana e probabilmente irraggiungibile, perché il vero scopo era intraprendere il cammino.

Quando il conformismo, la superficialità, l’arroganza dei ricchi e dei potenti si fanno opprimenti, quando anche la speranza viene meno, quando giustamente la nostra ragione diventa pessimista, per non precipitare nella depressione, nella rassegnazione o nell’indifferenza ci è stata data da un dio benigno la possibilità di lottare.

Gramsci lo chiamava ottimismo della volontà, ottimismo dell’azione, e gli diede forza e serenità benché anche lui malato, chiuso in un carcere fascista, consapevole che non ne sarebbe uscito vivo, testimone dei trionfi dei suoi avversari.

Sorgente: La scomparsa della lotta nella vita politica • Kulturjam

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