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L’11 settembre è una storia doppiamente drammatica. Per le migliaia di vite perse per mano di fanatici. E per un popolo che, ingannato da politici e media, ha trascorso i 20 anni successivi trasformandosi in chi che diceva di voler combattere

Di solito si parla degli attentati dell’11 settembre usando la parola «tragedia». Ci si riferisce alle migliaia di vite innocenti perse quel giorno. A ragione, ovviamente. Ma viene dimenticata l’opportunità che ci si è lasciati sfuggire via poco dopo, accrescendo ulteriormente la tragedia.

Gli eventi di vent’anni fa avrebbero potuto essere un’occasione per gli statunitensi di rendersi conto del tipo di impatto che le politiche estere perseguite in loro nome hanno avuto su milioni di persone comuni in tutto il mondo e cambiare rotta prima che venisse versato altro sangue. Come è noto, non è andata proprio così.

Per decenni, agli statunitensi è stata rifilata la narrazione del loro paese come il supereroe del mondo: un bravo ragazzo perbene che difende senza sosta la verità e la giustizia, schiacciando lungo la strada i cattivi del mondo. Nei decenni precedenti agli statunitensi erano accadute molte cose brutte, ma stranieri che volevano far loro del male attaccando sul suolo nazionale? Non accadeva dalla Seconda guerra mondiale, evento da cui in primo luogo è nata quella storia.

Quindi l’idea che ci fossero persone là fuori che potevano fare del male a civili statunitensi innocenti, e su quella scala, è stata uno shock. La rabbia e la tristezza del paese, sostenute dalle riprese ininterrotte degli attacchi trasmesse da un media che ha avuto una manna di ascolti, hanno finito per essere incanalate in una fantasia di vendetta geopolitica che si è sovrapposta nettamente agli obiettivi storici della destra in politica estera.

I giornali di tutto il paese riportavano di statunitensi che nella vita di tutti i giorni parlavano come serial killer:

– Se trovano il paese che lo ha fatto, dovrebbero annientarlo.
– Dobbiamo trovarli, ucciderli, impacchettarli come maiali e seppellirli. In questo modo, non andranno mai in paradiso.
– Se potessi mettere le mani su Bin Laden, lo spellerei vivo e gli verserei addosso del sale. Niente sarebbe abbastanza crudele.
– Radere al suolo il paese che li ospita. L’intero paese.

Ciò che aveva maggiormente indignato le persone era stato il fatto che avevano dato la caccia a «civili sulla scrivania e passeggeri delle linee aeree sulla strada del lavoro e di casa», nelle parole dell’editorialista del LA Times Steve Lopez: persone innocenti che erano «fortunate ad avere cinque secondi per prendere il telefono e salutare i propri cari prima che la morte arrivasse senza un perché».

Anche l’attacco a Pearl Harbor impallidì al confronto, un veterano del Vietnam ha affermato che «entrambi erano attacchi a sorpresa, ma almeno uno era un obiettivo militare». Questo nuovo nemico «non è abbastanza sviluppato moralmente per comprendere la differenza tra civili e combattenti», scrisse Mark Helprin sul Wall Street Journal. «Io dico, bombardateli a morte», si è infuriato il senatore democratico della Georgia Zell Miller. «Se ci sono danni collaterali, così sia. Per loro i nostri civili erano sacrificabili».

Quale mostro, decisero molti statunitensi, poteva accettare la scelta di Osama bin Laden di non «fare differenza tra quelli vestiti con uniformi militari e civili»? Avevano ragione. Non abbiamo bisogno di un ponderoso pezzo di riflessione per capire perché è atroce punire persone innocenti per i crimini dei loro leader. Lo comprendiamo dal profondo delle viscere. Nel suo disgusto, il popolo statunitense è giunto alla stessa conclusione, senza rendersene conto, come le decine di difensori dei diritti umani, giuristi e filosofi morali che avevano codificato le leggi di guerra e che hanno passato decenni a cercare di rendere i leader responsabili delle loro scelte.

Per decenni, i leader del popolo statunitense avevano operato sulla scena mondiale secondo questo stesso calcolo marcio. Nella sua battaglia contro Bin Laden, l’esercito americano, appena tre anni prima, aveva indegnamente incendiato la fabbrica farmaceutica responsabile del 90% dei principali prodotti farmaceutici del Sudan, causando chissà quante migliaia di morti evitabili. Quando la cosa venne scoperta, il governo si limitò a mentire dicendo che si trattava di una «fabbrica di armi chimiche mascherata» e ha oscurato ogni tentativo di dire la verità.

Se solo fosse stato un incidente isolato. Che si trattasse di uccidere tremila persone durante l’invasione di Panama, ucciderne decine nel bombardamento di un ospedale psichiatrico a Grenada, massacrare molte altre migliaia di iracheni con attacchi diretti a civili e infrastrutture critiche nella Guerra del Golfo, o porre fine alla vita di centinaia di migliaia in Vietnam, i funzionari di Washington erano stati il Chuck Berry dell’Elvis Bin Laden, pioniere delle mosse per le quali sarebbe poi diventato famoso mentre Bin Laden era ancora un adolescente che indossava pantaloni a zampa di elefante e trascorreva le vacanze in Svezia.

Potrebbero esserci stati dei veri psicopatici che volevano solo massacrare gli arabi e trattare «l’American Civil Liberties Union e simili come i nemici della civiltà cristiana», come ha detto un avvocato hawaiano. Ma la maggior parte degli statunitensi, tenuti all’oscuro dei crimini commessi nel loro nome, provavano semplicemente un senso di dolore e paura che poteva essere facilmente sfruttato dai loro leader per giustificare l’uso di tattiche in stile Bin Laden nel corso di altre missioni all’estero. Anche oggi, lo statunitense medio cosa ha più probabilità di «sapere» della guerra del Vietnam: che le forze statunitensi hanno sganciato il doppio delle bombe sul sud-est asiatico rispetto all’intera la Seconda guerra mondiale? O che gli Stati uniti hanno perso in Vietnam perché i politici non ci hanno permesso di combattere?

Il tentativo di vendicare 3.000 morti civili a New York e Washington ha finora provocato la morte di almeno 400 mila civili, in una serie di guerre apparentemente senza fine, tutte in paesi i cui governi non erano del tutto coinvolti in un attacco che è stato, infatti, effettuato e favorito dai sauditi. In questo contesto, gli Stati uniti hanno mandato a morire poco più di 7.000 dei propri soldati. Il che significa che, alla fine, Al Qaeda non potrà mai essere all’altezza degli stessi politici statunitensi nell’impresa di uccidere altri statunitensi.

Ad oggi, l’11 settembre è un giorno solenne di ricordo e dolore tutt’ora in corso che, per alcuni, fa ancora ribollire il sangue. Nella loro rabbia e sull’onda emotiva degli attacchi subiti, gli statunitensi si sono sentiti giustificati nel chiedere comprensione al mondo per gli eccessi criminali che hanno compiuto. Eppure proprio questi sentimenti, da parte di coloro che erano terrorizzati dal potere degli Usa negli anni prima (e dopo) l’11 settembre, avevano ispirato quegli stessi attacchi.

Sulla scia degli attacchi, non è stato risparmiato alcuno sforzo per zittire chiunque abbia cercato di far comprendere il contesto all’interno cui tutto ciò era accaduto. Quei discorsi furono liquidati come divagazioni sleali da parte di relativisti morali che odiano l’America. Come può la gente anche solo iniziare a contemplare le articolazioni della politica estera degli Stati uniti quando i notiziari televisivi hanno dedicato solo poche ore all’anno alla guerra più lunga della storia americana, o, nel caso del 2020, cinque minuti appena?

L’11 settembre contiene due tragedie. Una riguarda le migliaia di vite perse per mano di fanatici che gli statunitensi avevano ragione a chiamare mostri. La seconda tragedia riguarda un popolo che, ingannato dalla sua leadership politica e dai media, ha trascorso i successivi due decenni a diventare proprio ciò che odiava. Grazie a Dio si sta svegliando.

*Branko Marcetic è collaboratore di JacobinMag. Ha scritto Yesterday’s Man: The Case Against Joe Biden. Vive a Chicago, nell’Illinois. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

Sorgente: Due tragedie – Jacobin Italia

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