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8 settembre 1943: l’armistizio fece dell’Italia un Paese allo sbando, avviato a un lungo periodo di stenti, bombardamenti, rappresaglie e guerra civile.

Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1959) raccontò l’8 settembre del 1943 dal punto di vista di un soldato: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi“.

Poche righe che rappresentano esattamente i momenti drammatici in cui il nostro Paese, stremato dalla guerra, fu consegnato in mani straniere, americane al Sud, tedesche al Nord.

Il generale Giuseppe Castellano firma l'armistizio a Cassibile (Siracusa) per conto di Badoglio.
Il generale Giuseppe Castellano firma l’armistizio a Cassibile (Siracusa) per conto di Badoglio. Il giorno dopo la sua proclamazione (8 settembre 1943) il re abbandona Roma e si rifugia a Brindisi.

Il Paese allo sbando. Mussolini era stato deposto da poco, dalla seduta del Gran consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943. Quel giorno il re Vittorio Emanuele III aveva nominato capo del Governo il maresciallo Pietro Badoglio, ex capo di Stato maggiore: fu lui ad autorizzare la resa.

Il 3 settembre 1943 fu siglato segretamente l’armistizio di Cassibile tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il suo pari grado americano Eisenhower – che nel 1953 sarebbe diventato il 34° presidente degli Stati Uniti.

«L’armistizio fu reso pubblico 5 giorni dopo», racconta su Focus Storia 63 la storica Elena Aga Rossi, autrice di Una nazione allo sbando (Il Mulino): «la situazione militare era disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio, il governo italiano aveva perso tempo prezioso nel tentativo di evitare una resa senza condizioni. Ma non ci riuscì.»

La guerra è finita? Alle 19:45 dell’8 settembre Badoglio lesse ai microfoni dell’Eiar (antesignana della Rai) il suo proclama, che includeva un passaggio ambiguo:

[…] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza […]

A nessuno fu chiaro che cosa si dovesse fare: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? Il proclama era (volutamente) poco esplicito. I primi a pagarne le spese furono i soldati. Ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate, il proclama sottintendeva la speranza – dimostratasi illusoria – che gli americani ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco guidando loro un attacco contro i tedeschi al posto nostro nei punti nevralgici del Paese. Ma questo non avvenne.

Roma città aperta. Come se non bastasse, i vertici politici del Paese abbandonarono le postazioni: all’alba del 9 settembre, con le prime notizie di un’avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato maggiore fuggirono da Roma e si fermarono a Brindisi, che divenne per qualche mese la sede degli Enti istituzionali.

Intanto, nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolse. La reazione tedesca non si fece attendere. «Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo», spiega Elena Aga Rossi: «la notte stessa dell’8 settembre le forze tedesche presero possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane.»

Borsa nera a Roma
Borsa nera a Roma. Nel novembre del ’43 entrò in vigore la tessera per il tabacco, che dava diritto a tre sigarette o a un sigaro al giorno, ma non era detto che i negozi fossero riforniti. E, infatti, gli italiani impararono a confezionarsi da sé le sigarette, riciclando il tabacco recuperato dai mozziconi o utilizzando i surrogati più fantasiosi. © WikiMedia

L’esercito nel caos. I tedeschi emanarono poi le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani, che dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla loro parte poteva conservare le armi; chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato, se era un ufficiale, oppure impiegato nei campi di lavoro sul posto o nell’Europa occupata.

La borsa nera. Per i civili le cose non andarono meglio. L’Italia era già abituata al razionamento alimentare introdotto durante la guerra e il mercato nero era una realtà economicamente corposa anche prima dell’8 settembre.

Dopo l’armistizio però la situazione si inasprì, perché gli occupanti nazisti fecero requisizioni di ogni genere e bloccarono la distribuzione di carburante (tutto di provenienza tedesca) al Sud. Risultato? C’erano tessere annonarie per quasi tutto, dal sapone al cibo all’abbigliamento.

Guerra civile? La popolazione, che si era illusa che la guerra fosse finalmente finita, prese atto che così non era. Il conflitto si trascinò ancora per più di un anno, fino alla primavera del 1945. Con l’aggravante di trasformarsi in una sorta di guerra civile.

Mussolini, il 23 settembre 1943, proclamò infatti la Repubblica di Salò, mentre i partigiani diedero il via alla guerra di liberazione: il Comitato di Liberazione Nazionale fu fondato a Roma il 9 settembre 1943, mentre lo Stato italiano era praticamente dissolto e con esso la credibilità dei suoi vertici istituzionali.

Clicca sulla foto per ingrandire. I fatti più importanti che portarono nel 1945 il Paese alla Liberazione. © Focus Storia
7 settembre 2021 Giuliana Rotondi

Sorgente: 8 settembre: l’armistizio che divise il Paese – Focus.it

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