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In quei disperati giorni di Sarzana, nel luglio 1921, furono poste le premesse per la lunga lotta antifascista che seguì.

di Giorgio Pagano

Nella primavera del 1921 Sarzana era ancora immune dai fascisti. Alle elezioni amministrative di maggio il Psi aveva avuto il 47% dei voti, il PCI il 13%. La Liguria era, per i fascisti, una nota dolente: sia per la forza dei “sovversivi” sia per l’atteggiamento delle autorità, che conducevano direttamente la repressione senza delegarla allo squadrismo. Come accadde alla Spezia il 16 maggio 1921: furono i carabinieri a sparare sul corteo spontaneo dei giovani socialisti e comunisti in festa per il successo elettorale. Anche Genova e Savona sembravano zone di difficile penetrazione. Diversa la situazione in Toscana, la regione in cui il fascismo raggiunse probabilmente il grado più elevato di violenza e di crudeltà. Carrara cadde presto in mano ai fascisti, con l’avvallo delle autorità. L’influenza del fascio toscano si fece sentire forte in quello spezzino. Sarzana era sempre più isolata. Le prime violenze accaddero il 12 giugno, con una vittima.

La situazione cominciò a cambiare anche nel resto della Liguria: il 4 luglio il fascio di Sestri Ponente assaltò la Camera del Lavoro. Carabinieri e guardie regie assediarono i sindacalisti e lasciarono che le camicie nere dessero alle fiamme i locali, per poi continuare le devastazioni in tutta Sestri.

Il 17 luglio le squadre fasciste provenienti da Carrara imperversarono in Lunigiana e in Val di Magra, devastando e uccidendo, per poi giungere a Sarzana: quel giorno i carabinieri arrestarono Renato Ricci e undici squadristi. L’arresto era stato praticamente imposto dalla popolazione della città. Forse furono gli arditi del popolo a consegnare i fascisti alle forze dell’ordine.

All’alba del 21 luglio 1921 Sarzana era in stato d’allarme. Temeva un nuovo assalto in grande stile. La città era un territorio difficile da “pacificare”: le tradizioni repubblicana, anarchica, socialista e comunista vi si fondevano in una popolazione fiera e in una classe operaia tumultuosamente cresciuta, costituita in gran parte da pendolari nelle fabbriche di Spezia e nelle cave di Carrara. Nella campagna i contadini facevano una vita agra, dura, alimentata da rancori e risentimenti verso la società ingiusta che li dominava.

Dopo i fatti del 17 luglio Sarzana aveva reagito. Era stato costituito, sotto l’impulso del Comune, un Comitato di difesa proletaria, formato da anarchici, comunisti, socialisti e repubblicani. Fu una delle tante anomalie della Sarzana del tempo: anche i socialisti riformisti, come il Sindaco Arnaldo Terzi, parteciparono a un’iniziativa unitaria e di difesa paramilitare, avente un segno assolutamente contrastato, nazionalmente, dalla corrente turatiana. Il Comitato aveva preso accordi con le forze dell’ordine e aveva mobilitato come suo braccio armato gli arditi del popolo, un piccolo esercito capeggiato da ex militari, appartenenti alla piccola borghesia e di cultura dannunziana, i cui fanti erano invece proletari, giunti anche da Spezia e da Carrara (il rapporto tra i due arditismi non fu semplice). Il 18 luglio era stato indetto lo sciopero generale, mentre una delegazione guidata dal vicesindaco si era recata a Roma per esporre al governo la situazione. Il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, alla presenza dei delegati, aveva dato per telefono disposizioni al Prefetto di Genova affinché “a qualunque costo i fascisti non entrassero a Sarzana”

Il progetto di Bonomi era quello di creare un fronte senza i comunisti e il fascismo più estremo. Per questo doveva dimostrare di poter governare la violenza fascista. Ma le autorità di Massa, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, non fermarono i fascisti toscani. Lo fecero, alla Stazione di Sarzana, i carabinieri al comando del capitano Guido Jurgens, e poi i contadini e i proletari. I morti furono in tutto sedici. Per due di essi -Maiani e Bisagno- si trattò di un omicidio macabro, frutto della “logica della folla” e della violenza contadina e proletaria, una vera “furia difensiva”. La violenza era allora, del resto, una realtà quotidiana, introiettata nell’animo collettivo.

I “Fatti di Sarzana” dimostrarono che il fascismo non era una forza inarrestabile. Non solo perché senza l’appoggio delle strutture dello Stato lo squadrismo non avrebbe potuto conquistare molto spazio, ma anche perché la strada dell’unità antifascista avrebbe potuto rappresentare una difesa efficace dalla violenza fascista.

Bonomi inviò a Sarzana l’ispettore generale Vincenzo Trani, che nel suo rapporto finale del 4 agosto 1921 scrisse che nei fasci “si pratica la teoria che chiunque non sia con loro forma forza nemica, da doversi combattere e senza badare ai mezzi, che dalla persecuzione giungono alla soppressione violenta”. Fu una previsione storica esatta: il fascismo è squadrismo, la violenza gli è connaturata. Trani aveva ragione anche su un altro punto: lo Stato liberale generalmente si schierava con i fascisti. Lo fece anche rimuovendo Trani, come egli stesso aveva capito sempre nel rapporto del 4 agosto: “Quando il Prefetto di Massa mi annunziò che il Ministero aveva deciso di inviare il Viceprefetto di Genova nella zona turbata, e da me da dodici giorni ridotta al rispetto dell’ordine, per farvi opera di pacificazione, non potei fare a meno di riconoscere nel cambiamento del Ministero un cambiamento di direttive pro-movimento fascista”. La sostituzione di Trani fu la fine di ogni illusione.

Lo stesso Umberto Banchelli, squadrista di Firenze, uno dei capi della spedizione fascista del 21 luglio a Sarzana, riconobbe, nelle sue “Memorie di un fascista” del 1922, che “il fascismo non ha potuto svilupparsi che grazie all’appoggio degli ufficiali, dei carabinieri e dell’esercito”. A caldo aveva commentato: “le squadre, troppo abituate a vincere innanzi a un nemico che quasi sempre fuggiva o debolmente reagiva, non hanno potuto né saputo far fronte”.

Su questo intreccio di problemi si è cimentato il convegno “Resistenza ante litteram. 1921-2021 A cent’anni dai ‘Fatti di Sarzana’”, organizzato da ANPPIA, Archivi della Resistenza, Museo di Fosdinovo e ANPI Sarzana. Molti storici e studiosi hanno ripercorso la vicenda connettendola sia agli sviluppi nel futuro immediato del Paese di allora -l’avvento del fascismo al potere- sia al ragionamento controfattuale, esercitato nel presente, su quello che avrebbe potuto esserci e invece non vi fu.

Il fascismo si sviluppò grazie all’immunità garantita dalle autorità e grazie alla mancata difesa comune delle forze antifasciste. I “Fatti di Sarzana” dimostrano quindi che quello che non vi fu avrebbe potuto esserci: Jurgens sparò contro i fascisti, e lo poté fare non solo perché aveva ricevuto l’ordine da Bonomi ma anche e soprattutto perché aveva alle spalle l’Amministrazione Comunale, il Comitato di difesa proletaria, gli arditi del popolo.

Ma a Sarzana si chiuse anche un ciclo di manifestazioni dell’antifascismo, che non ebbero mai più l’intensità del periodo febbraio-luglio 1921. Colpisce il fatto che, dopo il 21 luglio, le forze sarzanesi furono colte da un lungo silenzio, incapaci di confrontarsi su quanto accaduto. Il Consiglio Comunale non ne discusse mai. Pesò anche l’omicidio Maiani – Bisagno, che divise i sarzanesi e “spezzò -ha detto al convegno lo storico Andrea Ventura- l’unità antifascista”. Non è in alcun modo possibile mettere sullo stesso piano le due violenze: nel 1921 quella del fascismo era indirizzata e progettata, non esisteva invece nessun partito armato della sinistra e nessun coordinamento centralizzato delle scarse forze armate della sinistra. I dati delle vittime e dei feriti di quel periodo sono del resto molto chiari. Così come quelli delle aggressioni. Fu violenza di difesa. E tuttavia anche la violenza di difesa deve essere consapevole del suo male intrinseco, come lo fu nella Resistenza, dove -in generale e salvo eccezioni- il modo di combattere e conquistare il consenso dei partigiani fu opposto a quello dei fascisti, e non fu mai all’insegna della facile crudeltà. Quella “crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggior linfa dell’uomo”, diffusa dalla prima guerra mondiale, di cui scrisse Giaime Pintor nel suo “Doppio Diario. 1936-1943”.

Ma certamente i nodi sono molto complessi, vanno ben oltre Sarzana e risalgono a ben prima del 1921: riguardano la prima guerra mondiale, il fallimento del giolittismo, la crisi dello Stato liberale. La guerra fu la levatrice del sommovimento che decretò la fine dello Stato liberale: crisi economica e sociale, classe dirigente incapace di riforme, aggravamento del distacco tra Stato e società civile. Fu una “rivoluzione della politica”, secondo una definizione dello storico Emilio Gentile, dalla quale emersero due realtà completamente nuove rispetto al mondo politico predominante fino al 1914, opposte tra loro: il movimento rivoluzionario del socialismo, che si sviluppa con caratteri nuovi e inediti con la rivoluzione bolscevica, e il movimento rivoluzionario opposto, che afferma il mito e il primato della Nazione. Un movimento rivoluzionario, quest’ultimo, da tutti sottovalutato.

Nel 1921 non vi era più alcuna seria minaccia della sinistra rivoluzionaria contro lo Stato liberale. Fu l’altra rivoluzione a vincere. La grande domanda è: perché in soli tre anni un movimento inizialmente marginale poté giungere alla “fascistizzazione dello Stato”?

Nel 1919 Mussolini aveva ancora scarso seguito. Poi si rafforzò grazie all’appoggio degli agrari e degli industriali. Ma questo elemento non basta da solo a spiegare l’avanzata del fascismo. La si spiega con la violenza, suo elemento identitario, e con l’impunità di questa violenza. La si spiega con l’incapacità della classe dirigente liberale di fare riforme, e anche mediazioni. La si spiega con l’incapacità dei socialisti a fare la rivoluzione e a fare le riforme: i rivoluzionari non fecero i rivoluzionari, i riformisti non fecero i riformisti. Gli arditi del popolo furono abbandonati a loro stessi, perché i socialisti non volevano competere sul piano militare; ma da parte socialista non fu sviluppata, d’altro canto, nemmeno una politica di alleanze politiche con i popolari. La si spiega con il settarismo del piccolo partito comunista appena costituito: sarà Gramsci nei Quaderni a riflettere sulla sconfitta e ad elaborare la strategia della “guerra di posizione” e della conquista dell’”egemonia” nella democrazia. La si spiega con l’assenza dell’unità antifascista, che mancò sempre, continuamente, anche di fronte ai momenti più decisivi della scalata fascista. Perché tutte le forze antifasciste sottovalutarono il fascismo e il suo carattere totalitario.

E la si spiega con la notevole abilità di Mussolini: fu nel contempo salvatore e seppellitore dello Stato, capo del fascismo “rispettabile” e di quello squadrista. Dopo i “Fatti di Sarzana” Mussolini fece la mossa del patto di pacificazione con i socialisti. Tutto fu accelerato in questa direzione. Ci fu la rivolta dei fasci contro il patto, che comunque Mussolini non rispettò. Per restare in Liguria, a Savona, nei giorni della firma del patto l’ufficiale genovese Amilcare Dupanloup assunse il comando dei fascisti, invase il Comune rosso e devastò tutta la città, Camera del Lavoro in primis. Mussolini seppe ricomporre il suo partito, ormai militarizzato. Convinto o meno che ne fosse, si convertì al “partito milizia”. Bonomi gettò la spugna. La crisi si avviava verso la conclusione, con la vittoria del fascismo. Anche a Sarzana: il Sindaco Terzi si dimise, il 30 luglio 1922 si tenne una grande manifestazione fascista, i fascisti stravinsero le elezioni amministrative del 1923.

Si ritrovò un ordine. La soluzione più facile ma anche la peggiore tra quelle storicamente possibili: il primo Stato totalitario europeo, al quale il nazismo direttamente si ispirò. Ma le identità politiche in conflitto, a Sarzana come in molte altre zone, non scomparvero affatto, nonostante la dittatura. La loro penetrazione di massa era profonda. L’antifascismo visse e combatté sempre, anche nei momenti più duri. La Resistenza fu anche guerra civile in continuità con la radicalità dei conflitti degli anni 1919-1922. Memore della sconfitta, l’antifascismo seppe però costruire una vasta unità popolare, che ci ha dato la democrazia, la Repubblica e la Costituzione, la Carta che ha consentito a quella democrazia di vivere per oltre settant’anni e di reagire a crisi anche profondissime. È la nostra risorsa più vitale, una memoria mai spenta. L’antifascismo, dopo il 1921-1922, maturò e si trasformò. Ma è giusto riconoscere che in quei disperati giorni di Sarzana, prima della sconfitta, furono poste le premesse per la lunga lotta che seguì.

Sorgente: Il primo antifascismo. A cento anni dai “fatti di Sarzana”

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