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Gastone, il papero fortunato - Articolo di Paola Montonati

C’è un nuovo format giornalistico, o se preferite una immensa onnipresente rubrica, che si potrebbe intitolare: “Ricchi che danno consigli ai poveri”. Si direbbe un argomento di gran moda, almeno a giudicare dalla pletora di imprenditori, amministratori delegati, presidenti, possidenti, rentier, che si alzano alla mattina e decidono – a volte spontaneamente, a volte interrogati – di gettare perle di saggezza a ragazzi che rischiano di guadagnare seicento euro al mese per anni, e forse per sempre. E’ come se uno, scendendo dalla Porsche, ti sgridasse col ditino alzato perché hai la bicicletta sporca di fango. La tiritera scema per cui preferisci stare sul divano invece che lavorare allo stesso prezzo (o meno) è ormai diventata una narrazione-macchietta. Sono leggende marcite in fretta, come quella del rider felice, o del precarissimo che “mi piace perché ho tanto tempo libero”. Propaganda padronale.

Però, siccome le parole sono importanti, ci preme rilevare due perle di saggezza (e di linguaggio, che svela moltissimo) di un famoso imprenditore (e bravissimo, a detta di tutti) che – parole dal sen fuggite – parla davvero chiaro. Testo (e musica!) di Guido Barilla, presidente della Barilla in persona, che segue la corrente del pensiero unico imprenditoriale e poi, voilà, “Rivolgo un appello ai ragazzi”. Ecco, è il momento topico del discorso, l’accorato appello, il consiglio paterno, il Verbo: “Abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco. Entrate nel mercato del lavoro, c’è bisogno specialmente di voi”.

Vediamo se un po’ di analisi del testo ci aiuta. Come sono i sussidi? “Facili”, ovvio. Buttata lì, senza parere, si dà per scontato il fatto che ti regalano i soldi, è facile. Un presidente, figlio e nipote di presidenti, non perde nemmeno un nanosecondo per pensare che se arrivi lì, a chiedere un sussidio (facile) per mangiare o avere un tetto sulla testa, significa che c’è una difficoltà. No, “è facile”, bon, discorso chiuso.

Altra chicca: “mettetevi in gioco”, che è un po’ una frase alla Paperon dè Paperoni quando andò a cercare l’oro nel Klondike. Bello, eh, mettersi in gioco. Ai tempi de L’isola del tesoro significava imbarcarsi come mozzo su un brigantino, ottimo, molto romantico. Oppure significa: ehi, ho un milione, come lo investo? Capisco. Ma cosa ci sia da mettere in gioco nell’andare a fare turni assurdi per paghe ballerine, incerte, basse, a volte schifose e quasi sempre senza prospettive, non è dato sapere. Del resto, se le paghe fossero decenti (salario minimo, dove sei?) nessun imprenditore se la prenderebbe con i “facili sussudi”, cosa che invece accade se proponi come salario una cifra inferiore ai “facili sussidi”. Bene. Chi non “si mette in gioco” è dunque pigro, o pusillanime, o proprio una specie di fancazzista che vive alle nostre spalle, anche se manda decine di curricula e riceve in cambio offerte offensive. Questo sì, più che le avventure di Stevenson, è ottocentesco. E’ la vecchia storia della povertà come colpa, la disoccupazione come pigrizia, un sottinteso “guarda me che sono nato milionario, che ci vuole?”. E forse, letteratura per letteratura, si consigliano qui altre prose, quelle degli annunci per “mettersi in gioco”, la cui lettura spiega molto e indigna parecchio. Tipo “apprendista con tre anni di esperienza”, o “stagista con sei lauree”, o “part-time di 58 ore settimanali”, tutti ovviamente pagati tre ghiande e un bicchier d’acqua. Dài, andiamo, fidatevi, come non mettersi in gioco?

Sorgente: Alessandro Robecchi, il sito ufficiale » Fannulloni? Finalmente un’alternativa ai sussidi “facili” c’è: nascere milionari

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