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20 April 2024
0 9 minuti 3 anni

di Michele Nicoletti*

L’ipotesi di un’elezione di Mario Draghi a presidente della Repubblica sta suscitando non solo l’inevitabile attenzione delle forze politiche, ma anche degli osservatori più attenti e degli studiosi delle nostre istituzioni. Marco Damilano su L’Espresso del 6 giugno ha sottolineato come, se l’elezione andasse in porto, si attuerebbe «una riforma di fatto», sarebbe «l’inizio di una trasformazione della Repubblica verso il semi-presidenzialismo».

Ha ragione. Anzi, sarei più radicale. Già da qualche anno il funzionamento della nostra Repubblica assomiglia a quello di una Repubblica semi-presidenziale ad elezione indiretta. L’espressione è volutamente provocatoria. Non pretende di descrivere la natura di un assetto costituzionale, ma si limita a rilevare analogie di funzionamento. Sul piano strettamente costituzionale le differenze della situazione italiana rispetto a un modello propriamente semi-presidenzialista sono state chiaramente messe in luce in occasione della nascita del governo Draghi da Nicola Lupo su federalismi.it del 24 marzo scorso. Ma il dato politico di un ruolo sempre più decisivo del Quirinale nella politica italiana, del tutto conforme al dettato costituzionale, ma certo più marcato che in altre stagioni del passato, è innegabile e, in vista della scadenza del mandato di Sergio Mattarella, non si può ignorare. Fare il o la Presidente della Repubblica oggi significa dover esercitare, o dover essere pronti a esercitare, il che è lo stesso, funzioni rilevantissime sul fronte interno ed esterno. Non un ruolo di mera rappresentanza.

Le ragioni di questa trasformazione sono note per quanto riguarda il fronte della politica interna.

L’instabilità ormai strutturale del quadro politico e dei costumi politici ha prodotto un frenetico avvicendarsi di governi diversi, di partiti sempre nuovi, di personale politico perennemente insoddisfatto e irrequieto in un turbinio di leggi elettorali complicate e di riforme costituzionali fallite. Non c’è da stupirsi se, in mezzo a questo continuo sussultare, la presidenza della Repubblica abbia rappresentato un punto di riferimento stabile per le forze politiche, le istituzioni, i cittadini, non solo sul piano morale, come fonte di parole di saggezza, di continui messaggi di riconciliazione e responsabilità, ma sul concreto piano politico-istituzionale, attraverso iniziative capaci di creare governabilità contro la furia distruttrice.

 

Michele Nicoletti

Per lo meno dalla fine degli anni Settanta, nel dibattito pubblico, si fronteggiano due ipotesi per dare stabilità al governo nel nostro Paese: da un lato, l’ipotesi presidenzialista o semi-presidenzialista, dall’altra, l’ipotesi di una razionalizzazione della forma di governo parlamentare attraverso un rafforzamento dei poteri del premier. La seconda strada ha sempre goduto di maggiori consensi, ma ogni tentativo di fare qualche riforma in quella direzione (attraverso riforme costituzionali o leggi elettorali), a parte il cosiddetto Mattarellum, è stato sistematicamente boicottato. Per ognuno dei tentativi di riforma si potrà dire che era fatto male, ma l’esito è evidente. Fallita quella strada, il sistema ha rafforzato l’altra ipotesi: affidare alla presidenza della Repubblica il compito di garantire la stabilità. Senza riformarne una virgola, ma usando tutte le prerogative della Costituzione per consentirgli di svolgere questa funzione. E, per nostra fortuna, il Quirinale ha saputo egregiamente svolgere questo ruolo di stabilizzazione del governo anche in momenti di drammatica crisi, finanziaria o pandemica.

Ma c’è un secondo fronte, oltre a quello interno, che spiega questa trasformazione. Ed è quello internazionale. L’Italia è uno dei pochi Paesi che concepisce la politica come un’arte drammatica che si svolge interamente sulla scena del teatro del Paese. Ed è davvero singolare perché la Repubblica italiana, dalla sua nascita, deve la difesa dei suoi confini, la sostenibilità della sua economia, la tutela dei diritti delle persone, della democrazia e dello Stato di diritto (insomma i tre pilastri di ogni unità politica) a un complesso sistema di relazioni internazionali (Nato e Istituzioni europee), a cui, liberamente, il popolo italiano ha deciso di aderire.

È chiaro che in un sistema integrato, ogni membro deve fare la sua parte in modo coerente con gli obiettivi e le strategie del sistema stesso per evitare di mettere a repentaglio non solo la propria stabilità ma quella dei suoi partner. In un sistema integrato, il rischio di un fallimento finanziario è un rischio complessivo. L’apertura dei nostri sistemi di informazione e di difesa a Paesi in concorrenza (o in tensione) con i nostri alleati è un elemento di insicurezza collettiva. Offese ai diritti fondamentali e allo Stato di diritto in una parte del sistema possono alimentare spirali illiberali e antidemocratiche nel suo insieme.

Negli ultimi anni abbiamo assistito in Italia al manifestarsi di tutti questi rischi e, costantemente, la presidenza della Repubblica ha rappresentato non solo l’elemento di stabilità interna, ma di affidabilità sull’esterno, mantenendo la barra dritta sulla collocazione europeista e atlantica del Paese, nonostante i giri di valzer geopolitici di alcune forze politiche o l’inaffidabilità economico-finanziaria di alcuni assetti di governo. Per restare agli ultimi anni, la crisi del governo Conte 1 e Conte 2 e la nascita del governo Draghi testimoniano ampiamente l’importanza del contesto internazionale. Con ciò il Quirinale non ha affatto assunto la funzione di «indirizzo politico» che spetta al governo (sulla base, visto l’articolo 49, del voto dei cittadini), ma ha svolto con vigore la funzione di «indirizzo costituzionale» della politica italiana, ossia di mantenere la politica italiana entro il quadro delle sue grandi decisioni, ossia la cornice costituzionale e i Trattati internazionali.

Il governo Draghi è la perfetta espressione di questa linea. «Un governo di alto profilo che non debba identificarsi con nessuna formula politica», come ha detto Mattarella, sta a dire esattamente un governo che non ha un indirizzo politico ma che fa proprio l’indirizzo costituzionale del Paese, della sua legge fondamentale, delle sue grandi scelte strategiche. Draghi incarna questo compito e nei brevi mesi della sua azione ha saputo riportare con autorevolezza e determinazione il governo all’interno del sistema di relazioni internazionali di cui siamo parte. Lo abbiamo visto condurre con successo la delicata trattativa con l’Europa, mettendo fine alle perplessità altrui con un «garantisco io» che nessun altro avrebbe potuto permettersi. Lo abbiamo visto al centro della ripresa positiva di dialogo e collaborazione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Tutto ciò fa di lui la persona che può svolgere al meglio le funzioni di presidente della Repubblica in questa stagione in cui la congiuntura internazionale si profila delicatissima: da un lato, l’emergere di una nuova “guerra fredda” o comunque di una situazione di tensione tra Est e Ovest, dall’altro, la condizione di forte indebitamento del Paese richiedono il massimo delle garanzie al massimo dei livelli.

Il suo governo, al di fuori e al di sopra di ogni «formula politica», non potrebbe d’altra parte durare in questa forma. Finita, come si spera, la pandemia, il governo deve poter tornare ad esprimere, in un quadro di fedeltà alle grandi scelte, un chiaro indirizzo politico determinato dal voto dei cittadini. Ciò non significa affatto che la legislatura debba concludersi immediatamente dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Al contrario, è necessario usare il resto della legislatura per rimettere in asse il Paese, superare (si spera) definitivamente l’emergenza sanitaria, sostenere la ripresa economica e fare le riforme. Ivi comprese alcune cose che potrebbero essere fatte anche sul piano istituzionale e della legge elettorale.

Con Draghi al Quirinale la legislatura potrebbe continuare su questa linea e la dialettica politica avrebbe tempo di esprimersi in vista dell’elezioni del 2023. La disponibilità della Lega a sostenere la candidatura di Draghi alla presidenza della Repubblica non va lasciata cadere. Le alternative sono tutte più difficili o incerte. E l’Italia, come non mai, avrebbe bisogno di avere, almeno in una posizione chiave, un elemento di stabilità e di indiscusso prestigio internazionale.

Michele Nicoletti è professore di Filosofia politica all’Università di Trento

Sorgente: A cosa serve Mario Draghi al Quirinale – L’Espresso

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