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Il parlamento ha votato in aprile la mozione sulla cittadinanza. Il governo invece tace sul destino dello studente egiziano. Rimandata a martedì l’udienza sulla custodia cautelare

di Carlo Verdelli

E poi, per ultimo, ci sarebbe il caso Zaki e il problemino della credibilità parlamentare. Zaki chi? Ma sì, quel ragazzo egiziano che era venuto in Italia a studiare e che al ritorno in patria per una vacanza è stato inghiottito dal peggior carcere del suo Paese.

Colpa presunta: troppo interesse per i diritti civili. Ma un’accusa vera a suo carico ancora non c’è. Senza processo, né celebrato né alle viste, questo signor Zaki se ne sta a marcire, e l’effetto sul corpo e sulla mente è letterale, in una cella senza letto al Cairo dal 7 febbraio 2020. Più di 15 mesi, durante i quali sono state raccolte centinaia di migliaia di firme per la sua liberazione e si è creata una tale pressione sociale, a cominciare dall’infaticabile impegno dell’Università di Bologna che l’aveva accolto, da spingere il nostro Parlamento a votare all’unanimità una mozione importante, con due impegni: apertura di un negoziato con l’Egitto sul rispetto della convenzione Onu contro la tortura e, soprattutto, concessione a questo straniero torturato la cittadinanza italiana, una leva diplomatica in più per fare cessare uno sfregio al diritto internazionale e anche al dovere minimo di umanità.

Succedeva il 14 aprile, alla presenza in Senato di Liliana Segre, scesa apposta a Roma da Milano, che disse parole indimenticabili e che invece, parrebbe, sono state prestamente rimosse. Le parole, rese ancora più definitive dall’essere state pronunciate da una vittima della Shoah, erano queste: «Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra, nel timore che qualcuno entri e faccia aumentare la tua sofferenza. Potrei essere la nonna di Zaki e sono venuta qui perché gli arrivi anche il mio sostegno».

È passato un mese e mezzo, e niente s’è mosso. Anzi, probabilmente infastidite dall’ingerenza, le autorità egiziane hanno fatto saltare anche la farsa dei 45 giorni, il termine da loro stabilito per decidere se prolungare o meno la detenzione preventiva. L’ultima udienza era stata il 6 aprile (prolungamento senza motivazioni, come in tutte le precedenti); la prossima avrebbe dovuto tenersi intorno al 20 maggio ma è slittata al primo giugno, senza spiegazioni, davanti a un tribunale che sembra uscito da Il processo di Kafka. D’altronde il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ci aveva avvertito: «Tutte le iniziative sono meritorie ma più aumenta la portata mediatica e più l’Egitto reagisce irrigidendosi». Seguendo questo principio, e la conseguente strategia del silenzio, difficilmente si sarebbe arrivati all’inizio del processo ai quattro agenti della Sicurezza egiziana accusati del sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Ci sono voluti 64 mesi di lotta, di indagini, di clamore dolorosamente pubblico, perché i familiari di Giulio ottenessero il primo atto dovuto a fronte del calvario del figlio: 25 maggio 2021, Tribunale di Roma, con una morte consumata il 3 febbraio 2016. Più di cinque anni tra l’assassinio e la comparsa dei più che probabili assassini davanti alla Giustizia.

Non c’è così tanto tempo per Patrick Zaki (in realtà ce n’è poco viste le sue condizioni di salute). Oppure, volendo, c’è tutto il tempo che si vuole. Basta che si smetta di fingere un interesse di facciata e si scelga di depennare dalla lista degli impegni il ragazzo che sogna ancora di tornare nella «sua»Bologna per dare gli esami e abbandonarlo commossi al suo destino, per tante cattivissime ragioni. Per esempio, non pregiudicare i buoni affari tra Roma e Il Cairo, compresa la nutritissima cooperazione militare che ha visto proprio in questi giorni un’esercitazione congiunta tra la fregata Al Galala, che gli abbiamo di fresco venduta, e la nostra Margottini, «che ha incluso lanci di trappole esplosive e l’intercettazione di una nave sospetta», come informa con soddisfazione il ministero della Difesa egiziano.

In realtà, se passa più o meno esplicitamente la linea del «Zaki chi?», una questione non da poco resta comunque aperta e riguarda il rapporto tra Parlamento e Esecutivo. Fino a che punto il secondo può ignorare una richiesta plebiscitaria del primo? Qualche giorno dopo la votazione pro Zaki, il premier Draghi, richiesto di un commento, rispose: «È un’iniziativa parlamentare. Il governo non è coinvolto, al momento». La domanda è come può non coinvolgersi, visto che a chiedergli di farlo è la maggioranza stessa che lo esprime e lo sostiene. Vero che siamo in tempi di emergenza prolungata e quindi di scelte dove la rapidità d’azione ha spesso la meglio sulla condivisione. Ma resta il punto di principio: o deputati e senatori dell’alleanza di governo hanno aderito a una richiesta molto impegnativa sul piano della diplomazia nazionale soltanto perché sembrava brutto esimersi (con tante scuse al fervore messo in campo da Liliana Segre) e non si spingeranno oltre la parata di coscienza, oppure il governo stesso una qualche risposta la dovrebbe dare, trovando il momento, ci mancherebbe.

Giusto per dare un orizzonte temporale, Patrick Zaki compirà 30 anni il prossimo 16 giugno. La cosa peggiore che possa ancora capitargli è scoprire di essersi illuso che la sua seconda casa, l’Italia, stesse battendosi per lui e invece era tutta una finta. Sentirsi abbandonato è una condanna senza rimedio.

Sorgente: Quel silenzio su Patrick Zaki che compirà 30 anni in cella

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