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Palestina/Israele. Intervista al regista palestinese Kamal Aljafari: «La vera discriminazione è il non riconoscerci come collettività, non riconoscerci come palestinesi. I giovani chiedono uno Stato per tutti i suoi cittadini. Sta proprio qua la tragica crisi del sionismo: volere uno Stato ebraico a fronte di 7 milioni di palestinesi presenti»

Chiara Cruciati

«Finché i palestinesi esisteranno su questa terra ci sarà la speranza di creare uno Stato unico democratico per tutti. La Palestina, come il resto del Mediterraneo, ha una lunga storia di convivenza. Se fosse un conflitto religioso, non ci sarebbe speranza. Ma la sua radice è il colonialismo, va superato».

Kamal Ajafari è palestinese, è regista ed è cittadino di Ramle, alle porte di Tel Aviv. Con lui abbiamo parlato delle proteste in corso tra i palestinesi del ’48 (i palestinesi cittadini israeliani) mentre fuori si svolgeva lo sciopero generale.

Una giornata di grande mobilitazione ovunque.

È qualcosa di enorme: non si vedeva uno sciopero così dalla rivolta del ’36-’39. È tutto chiuso e ci sono proteste nelle città. Siamo tutti scioccati da quanto sta avvenendo a Gaza: è una punizione collettiva. Il governo israeliano non sa che fare e allora bombarda.

Qual è la situazione nelle città in Israele?

Molto pericolosa. Durante il giorno è tutto calmo ma la sera c’è polizia per le strade e agli ingressi di ogni quartiere palestinese delle città miste. Vogliono porre fine alle provocazioni dei coloni e degli estremisti israeliani che danno fuoco alle case e aggrediscono i residenti palestinesi. All’inizio la polizia li ha aiutati, ma ora cerca di frenarli. Eppure gli arrestati sono tutti palestinesi, più di mille, con 160 persone già incriminate e tra loro non c’è nemmeno un ebreo. Hanno addirittura accusato i palestinesi anche di aver dato fuoco a case palestinesi a Jaffa. Si sono raggiunti livelli da fiction, è inquietante vedere cosa sono diventati i media e lo Stato di Israele: si può essere accusati senza ragione e arrestati.

Molti parlano di politiche ormai molto simili a quelle applicate in Cisgiordania.

La polizia e la polizia di frontiera usano gli stessi metodi usati in Cisgiordania da 50 anni. L’estremizzazione della società israeliana e il controllo che il movimento dei coloni ha sui media, sulla politica, sulla polizia hanno prodotto una «uguaglianza» di politiche in tutta la Palestina storica. Oggi il controllo sui palestinesi a Gerusalemme Est, Led, Ramle è diventato lo stesso. Violenza e repressione, occupazione e discriminazione ci sono sempre stati, ma oggi uniscono le persone di fronte a questa sofferenza. Perché è una violenza con un obiettivo unico: sopprimere l’essere palestinese. A Gaza bombardano le case e le strade ma anche le spiagge e i luoghi del ritrovo per rendere la vita miserabile. È una punizione collettiva perché il governo israeliano non ha soluzioni al suo problema: cosa fare con milioni di palestinesi se non li riconosci come persone, come identità nazionale, se non gli riconosci il diritto alla libertà e all’autodeterminazione? L’unica cosa che resta è sopprimere il loro essere.

Kamal Aljafari

In Italia molti parlano delle città miste come simbolo di integrazione, in realtà sono luoghi di discriminazione. Perché la rabbia è esplosa oggi?

Il mix tra discriminazione e legge sullo Stato ebraico del 2018 ha reso consapevoli i palestinesi che vivono in Israele. Nei piani del governo, nelle infrastrutture, nei servizi e negli investimenti, nella pianificazione urbana i palestinesi israeliani sono sempre fuori dal quadro. Lo Stato non li vede come persone che resteranno qui. Non investe in loro e nelle loro comunità. Lo si vede benissimo in Galilea: nelle comunità palestinesi non c’è pianificazione urbana, non ci sono servizi, in alcuni casi non ci sono strade, poi vai nelle città solo ebraiche e sei in un altro pianeta. Non so cosa si intenda per integrazione: è vero, abbiamo il diritto di diventare dottori o farmacisti, di lavorare, ma non è una favore che lo Stato ci fa. Integrazione non significa uguaglianza. In questi giorni ci sono casi di medici palestinesi che rischiano il posto per la loro origine. Nessuno si immaginerebbe di punire un medico ebreo perché sciopera. Ma la vera e più profonda discriminazione è che i palestinesi in Israele non sono riconosciuti come palestinesi. Non è riconosciuta la loro identità nazionale. Ci si inventa identità: arabi-israeliani, cristiani, drusi.

Alla base sta la profonda crisi di Israele che non riesce a risolvere la questione principale: avere 7 milioni di palestinesi nella Palestina storica. Anche se fanno la pace con l’intero mondo arabo, non risolveranno la cosa. Siamo ancora lì e non riescono a farci sparire prendendo la terra, le case, il cibo, la cultura. Possono anche prendersi al Aqsa, ma non risolveranno la questione. Per questo usano sempre più violenza, non hanno altra scelta dal loro punto di vista. La questione dell’integrazione dunque è irrilevante: non siamo solo individui, siamo una collettività e dobbiamo essere riconosciuti come tale. I giovani palestinesi dentro Israele chiedono uno Stato per tutti i suoi cittadini, richiesta estremamente democratica ma per la società israeliana è folle anche solo pensarlo. Ma è proprio questa la tragica crisi del sionismo: volere uno Stato ebraico a fronte di 7 milioni di palestinesi presenti. Il problema non è chi ha iniziato prima, se Hamas o Israele, è che Israele ragiona ancora come colonialismo di insediamento.

C’è chi in Israele parla con un linguaggio diverso?

La maggioranza degli israeliani oggi pensa che sia tutto loro e le voci della sinistra e di organizzazioni come Peace Now sono minoritarie, sono gruppi piccoli, non c’è un vero movimento. Di fronte al massacro di Gaza non parlano, hanno paura di subire aggressioni. B’Ttselem fa un lavoro enorme, come l’ultimo il rapporto sull’apartheid, ma la società israeliana non ascolta.

 

Sorgente: «Israele è in crisi: non sa che fare di 7 milioni di palestinesi» | il manifesto

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