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Nel febbraio scorso è stato ricordato l’ottantesimo anniversario dell’attentato contro il viceré d’Etiopia, il generale Rodolfo Graziani, avvenuto il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba. Alcuni quotidiani hanno dedicato articoli di rievocazione al tragico evento e un romanzo pubblicato dall’editrice Sellerio – “I fantasmi dell’Impero”, autori Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella – ha contribuito a focalizzare l’attenzione sul contesto sociale e politico in cui maturò quel gesto di resistenza e la repressione messa in atto dal fascismo. L’ondata repressiva contro le forze di resistenza etiopiche raggiunse il suo culmine tra il 19 e il 26 maggio con le stragi nel villaggio conventuale di Debrà Libanòs. Ma nell’arco di quei tre mesi le vittime complessivamente furono alcune migliaia.

L’Italia fascista aveva annunciato la conquista dell’Etiopia il 5 maggio 1936 e proclamato la nascita dell’impero coloniale qualche giorno dopo. Ma ben presto ci si accorse che il controllo del grande paese africano era per nulla assicurato: un vasto movimento di resistenza teneva in scacco l’occupante e la popolazione civile rimaneva ostile per le misure razziste adottate dal governo fascista che imponevano la segregazione tra italiani e autoctoni nei bar, nei giardini, nei cinematografi. L’8 luglio Mussolini incitò ad adottare “la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici” applicando “la legge del taglione al decuplo”.

Gli autori dell’attentato del 19 febbraio 1937 erano stati due eritrei: sette furono le vittime tra gerarchi fascisti e nobili etiopici e una cinquantina i feriti, tra cui lo stesso Graziani. Alcune centinaia di cittadini etiopici, presenti sul luogo dell’attentato furono subito falciati dalle armi e poi seguirono quarantotto ore di sistematica rappresaglia sulla popolazione civile da parte di squadristi fascisti. Lo stesso viceré informò il duce che erano state “passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul (abitazioni)”. Una sommaria inchiesta del magistrato militare Bernardo Olivieri designò come “colpevoli manifesti” 71 persone, che furono fucilate a fine febbraio: giovani ufficiali, laureati, funzionari governativi e collaboratori del deposto imperatore Hailé Selassié. Ai primi di marzo furono deportati in Italia quattrocento esponenti aristocratici o intellettuali; nei mesi seguenti circa duemila furono invece deportati in un campo di concentramento in Somalia.

Nelle settimane seguenti all’attentato fu data la caccia a ogni oppositore, vero o presunto; furono presi di mira in particolare indovini, stregoni e cantastorie – figure significative in una società arcaica basata sulla tradizione orale – perché considerati “pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico”; la loro colpa era di raccontare che l’impero fascista sarebbe presto finito. In pratica erano accusati di “disfattismo”. Anche per essi si procedette alla fucilazione. Secondo una relazione del comandante dei carabinieri in Etiopia, Azolino Hazon, i suoi uomini fucilarono 2.509 etiopici tra febbraio e maggio 1937.

La strage più odiosa ed efferata fu però quella operata nella città conventuale di Debrà Libanòs, dove a fine febbraio avevano trovato rifugio per alcuni giorni i due patrioti eritrei autori dell’attentato a Graziani. A Debrà Libanòs vivevano monaci cristiani-copti, diaconi, suore, pellegrini laici. Comandò le operazioni il generale Pietro Maletti, servendosi di ascari libici e somali musulmani. Fu scelta una località, appartata, fuori dalla città. Il 21 maggio furono fucilati 297 monaci e 23 laici. Il 26 maggio seguì la fucilazione di 129 diaconi, portando così la rappresaglia a 449 persone. Ma una ricerca indipendente condotta tra il 1991 e il 1994 da due docenti universitari indipendenti (un inglese e un etiopico) il massacro di Debrà Libanòs è da valutare tra 1.423 e 2.033 vittime. Mai una comunità religiosa aveva subìto un martirio di tali proporzioni. Graziani si assunse interamente la responsabilità politica della strage e scrisse di provare “giusto orgoglio per aver avuto la forza d’animo” di applicare una rappresaglia così spietata.

Rimane difficile accettare che fatti criminali come questi – così come la politica fascista di segregazione razziale attuata nei confronti degli abitanti delle colonie – continuino a rimanere scritti nei saggi di importanti storici del colonialismo e non siano mai entrati nella memoria collettiva degli Italiani.

Accanto alla memoria delle stragi naziste che ci ha visto nel ruolo delle vittime dovremmo avere il coraggio di conservare la memoria delle stragi fasciste che ci ha visto nel ruolo di carnefici.

Sorgente: Debrà Libanòs. Quando gli italiani facevano i nazisti…in Etiopia – Azione nonviolenta

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