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Il blocco del Canale di Suez ha ispirato mille meme e le sue conseguenze per l’economia mondiale sono state gravi. Ma non c’è motivo di pensare che la sua importanza economica e geopolitica stia per diminuire

Daniel Finn – Laleh Khalili

Il blocco del Canale di Suez da parte della gigantesca portacontainer Ever Given ha creato un ingorgo di centinaia di navi che trasportano merci per un valore di miliardi di dollari. La compagnia di assicurazioni tedesca Allianz ha stimato che il blocco del canale di una settimana sia costato all’economia mondiale tra i 6 e i 10 miliardi di dollari.

Dalla sua apertura nel 1869, il canale è stato un passaggio vitale per il commercio mondiale. I principali sviluppi del capitalismo globale, dall’ascesa del Medio Oriente come produttore di petrolio allo spostamento della produzione in Estremo Oriente, hanno ulteriormente accresciuto la sua importanza. Il canale ha già subito periodi di chiusura a causa di controversie politiche nella regione e gli analisti si sono preoccupati della sua potenziale vulnerabilità agli attacchi terroristici. Ma questa volta il blocco è dovuto a pura incompetenza.

Laleh Khalili, che insegna politica internazionale alla Queen Mary University di Londra, è l’autrice di Sinews of War and Trade: Shipping and Capitalism in the Arabian Peninsula. Parla con Jacobin della storia del canale e della sua importanza per l’economia mondiale.

Come è nato il Canale di Suez? Quale contesto economico e geopolitico consentì di realizzare questo progetto?

La costruzione del Canale di Suez nella seconda metà del diciannovesimo secolo ha a che fare direttamente sia con le rivalità intra-europee – in particolare tra Gran Bretagna e Francia – e ancora di più con l’intensificazione della colonizzazione e dell’impero in Asia e Africa. È significativo che sia il canale che la posa dei cavi telegrafici sottomarini fossero destinati a facilitare la comunicazione tra le metropoli e le colonie. La forza lavoro ha costruito il canale e innumerevoli migliaia di persone sono morte nel corso della sua realizzazione (non diversamente dalla costruzione statunitense del Canale di Panama qualche decennio dopo).

Tecnologicamente, uno sviluppo importante è stato cruciale per lo sviluppo del canale e ha anche beneficiato della costruzione del canale: con il posizionamento di motori a vapore a bordo delle navi. Poiché una nave a vela non può navigare lungo il canale quando soffiano i venti trasversali, la sua apertura ha consolidato l’egemonia delle navi a carbone sui velieri. Non a caso gli inglesi colonizzarono Aden, alla fine del Mar Rosso e a cavallo di Bab al-Mandab, pochi decenni prima della costruzione del canale e lo trasformarono in un’importante stazione di rifornimento di carbone, prima per le navi della Compagnia delle Indie orientali e dopo per quelle dell’Ammiragliato e di altre navi britanniche.

Ma il canale non interessava solo il collegamento europeo con l’Asia e l’Africa. La guerra civile degli Stati uniti, il blocco dei porti confederati da parte del Nord e lo sciopero generale – come lo chiamava Du Bois – degli afroamericani schiavi, che accelerarono alla fine della guerra e continuarono anche dopo, fecero accrescere il rilievo economico del cotone che veniva dall’Egitto.

Come ha scritto Roger Owen nel suo libro Cotton and the Egyptian Economy, alla fine del diciannovesimo secolo il cotone era diventato il principale prodotto di esportazione dell’Egitto. Il controllo sul cotone e l’incapacità dell’egiziano Khedive di ripagare il debito per la costruzione del canale furono entrambi fattori nella conquista militare britannica dell’Egitto nel 1882 e nel controllo di fatto del canale.

Quale struttura proprietaria venne adottata per il canale?

La società di costruzione del canale era una società per azioni in cui i francesi detenevano il maggior numero di titoli, ma gli inglesi avevano il controllo effettivo su Suez. La Compagnia Universale del Canale Marittimo di Suez (o La Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez) gestì il canale fino al 1956, quando Gamal Abdel Nasser lo nazionalizzò nel corso di uno dei momenti più significativi della decolonizzazione del secondo dopoguerra.

In parte, la nazionalizzazione del canale da parte del governo di Nasser doveva consentire all’Egitto di farsi carico delle tasse del canale per finanziare la costruzione della diga di Assuan. Ma fu anche il segnale di quanto fosse diventato importante il controllo sulle infrastrutture di trasporto. Solo pochi anni prima, quando il primo ministro iraniano Muhammad Musaddiq aveva osato nazionalizzare le partecipazioni della Anglo-Iranian Oil Company – ora Bp – nel suo paese, una delle misure più efficaci usate per metterlo in ginocchio fu quella di impedire il passaggio a qualsiasi petroliera che trasportava petrolio iraniano. Nasser prevedeva che il controllo del canale gli avrebbe consentito un controllo del destino dell’Egitto come nessun’altra misura avrebbe fatto.

Quale fu l’esito per il canale della crisi di Suez e dell’attacco anglo-franco-israeliano nel 1956 all’Egitto?

La crisi di Suez è avvenuta nello stesso anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, i due eventi sono profondamente collegati. Fu in parte per paura di «perdere» l’Egitto sotto il controllo sovietico che il presidente Eisenhower rimproverò i belligeranti tripartiti – Francia, Gran Bretagna e Israele – di ritirarsi dall’Egitto. In un certo senso, la restaurazione dello Scià in Iran del 1953 e la guerra del 1956 gettarono le basi per il passaggio imperiale in Medio Oriente dalla Gran Bretagna agli Stati uniti, che arrivò alla fine all’inizio degli anni Settanta.

Che impatto ha avuto sul canale l’ascesa del Medio Oriente come principale fonte di petrolio al mondo?

Ovviamente, la scoperta del petrolio nel bacino del Golfo Persico/Arabico – Iran, Iraq e penisola arabica – significava che uno dei prodotti primari che fluivano attraverso il canale sarebbe stato il petrolio. Infatti, nel 1970, circa il 60-70% di tutto il carico marittimo era costituito da petrolio greggio e prodotti petroliferi. Molto di quel petrolio, ovviamente, è stato trasportato in Europa, dove la ricostruzione e la produzione industriale stavano decollando nei decenni di ripresa del dopoguerra.

La domanda può essere posta anche al contrario. La chiusura del canale nel 1958 ha portato al dirottamento di queste petroliere intorno al Capo di Buona Speranza e quindi ha incoraggiato il passaggio all’uso di vettori di greggio molto più grandi per sfruttare le economie di scala.

La guerra del 1967 e quello che ne è derivato come ha influenzato l’utilizzo del Canale?

Sebbene la chiusura del Canale di Suez a seguito della guerra del 1967 sia durata molto più a lungo, fino al 1975, non ha avuto lo stesso tipo di effetti della chiusura molto più breve del 1958. Una delle storie secondarie più interessanti della chiusura del 1967, però, fu quella della Flotta Gialla: navi intrappolate per anni nel canale nel Great Bitter Lake, così chiamate perché ricoperte dalla sabbia gialla del Sahara. Ho scritto altrove sugli ulteriori effetti globali di questo periodo di chiusura.

Che effetti ha avuto sul Canale lo spostamento del potere economico – e soprattutto manifatturiero – da ovest a est degli ultimi decenni?

Gli ha dato maggiore importanza. Le chiusure del 1958 e del 1967-1975 portarono alla ricerca del petrolio da parte delle potenze europee nell’Africa occidentale e settentrionale, e il petrolio kazako e azero è arrivato facilmente in Europa dalla fine della Guerra fredda. Di conseguenza, il petrolio mediorientale, sebbene ancora importante, non era più il carico più significativo che attraversava Suez. Le navi portacontainer che trasportano merci fabbricate in Cina e nel resto dell’Asia orientale e sud-orientale adesso sono – almeno in termini di valore economico – i carichi più importanti e preziosi che attraversano il canale.

La costruzione da parte della Cina di una rotta terrestre dalle sue regioni costiere all’Europa attraverso l’Asia centrale ha messo in discussione il futuro del Canale?

Non credo proprio. I binari ad alta velocità attraversano la rotta terrestre attraverso la massa eurasiatica. Questi treni veloci impiegano circa tre settimane per andare dalla costa orientale della Cina a Budapest e poi ad Amburgo e Rotterdam. Sono costosi da gestire, motivo per cui spesso trasportano merci di alto valore e sensibili al fattore tempo, come computer e altri articoli elettronici. Inoltre, le rotte terrestri della Nuova via della seta della Cina attraversano diverse aree in cui i governanti del paese hanno represso con la violenza le popolazioni locali, tra cui la popolazione uigura dello Xinjiang.

Le rotte marittime sono invece più lente, ma possono servire merci più voluminose e meno sensibili al tempo. Il fatto che la Cina domini così completamente la top ten dei porti container nel mondo dice qualcosa sull’importanza del trasporto marittimo nella strategia economica del paese.

Che effetti avrà il fiasco del Canale dei giorni scorsi sull’economia mondiale?

Sappiamo che attualmente circa il 12% di tutte le merci scambiate a livello globale passa attraverso il Canale e che questo rappresenta una delle rotte commerciali più significative del pianeta, insieme a quelle transatlantiche e transpacifiche. Ma la sua chiusura mostra anche quanto possa essere fragile questo commercio: i produttori di auto just-in-time in Europa sono stati tra quelli più colpiti dal blocco del Canale di quasi una settimana. Sapevamo già che l’efficienza – che è il Sacro Graal dell’accumulazione di capitale – è anche l’antitesi della solidità, il blocco lo ha reso ancora più evidente.

*Laleh Khalili insegna politica internazionale alla Queen Mary University di Londra. Ha scritto Sinews of War and Trade: Shipping and Capitalism in the Arabian PeninsulaHeroes and Martyrs of Palestine: The Politics of National Commemoration e Time in the Shadows: Confinement in Counterinsurgencies. Daniel Finn è editor di Jacobin magazine. Ha scritto One man’s terrorist: a political history of the Ira (Verso). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

 

Sorgente: Il collo di bottiglia della globalizzazione – Jacobin Italia

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