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Oggi – 27 aprile – è l’anniversario della morte del compagno Antonio Gramsci avvenuta nel 1937 e volutamente perseguita dal fascismo, su ordine di Mussolini in persona.

La famiglia Gramsci, come molte altre di certe zone del Mezzogiorno, era di origine albanese. In Albania c’era un paese chiamato Gramsh, da cui provenivano i suoi antenati. Durante la Seconda Guerra Mondiale molti soldati italiani, mandati dal fascismo per opprimere quel popolo, si unirono ai partigiani comunisti, i quali li inquadrarono in un’apposita Brigata denominata Gramsci. Quando liberarono Tirana, vollero generosamente che fosse proprio la Brigata Gramsci a sfilare per prima, per esemplare coscienza internazionalista e a dimostrazione che non erano gli “italiani”, in quanto tali, a portare le colpe del fascismo.

Antonio Gramsci nacque in un paesino sardo nel 1891 ed è abbastanza facile reperire notizie sulla sua biografia. Meno noto è un aneddoto di quando, poco più che ventenne, ritornò nella sua casa sarda, dopo aver abbracciato le idee socialiste ed iniziato il suo indimenticabile impegno rivoluzionario.

Riunì in una stanza alcuni parenti ed amici venuti a salutarlo ed iniziò ad esporre loro le sue nuove esperienze e le idee che aveva maturato. Parlò a lungo, con fervore ed entusiasmo, illustrando le prospettive appassionanti di una società senza sfruttatori e miseria e la passione travolgente per l’idea di un partito che conquistasse tale avvenire in quanto espressione dei lavoratori. Quando terminò, con suo grande stupore, si accorse che gli altri erano rimasti in silenzio a guardarlo, freddini, per nulla riscaldati e convinti dal suo discorso. Dopo un po’ uno disse: Egli è una figura di gigantesco valore, per la combinazione di elementi soggettivi, di ruoli svolti e di profondità ed ampiezza del suo pensiero.

Fu sempre molto debole di salute, era alto circa un metro e mezzo, un po’ gobbo e molto gracile. Egli, con i fatti, dimostrò che un essere umano è capace di ottenere una potenza tale di volontà e di carattere tanto da annullare il peso di tutti quegli svantaggi fisici.

Superando le difficoltà di una condizione economica disagiata, andò a studiare a Torino e lì divenne un cosciente socialista impegnato nella lotta contro la guerra, combattivo scrittore di articoli per il giornale socialista piemontese, fu capace – in pochi anni- di divenire un punto di riferimento, stimato ed ascoltato, di un gran numero di operai di quella città.

Fu l’ispiratore della più matura e significativa esperienza di lotta –per quell’epoca- della classe operaia: l’occupazione delle fabbriche di Torino, la sperimentazione della direzione operaia della produzione, l’impostazione dei Consigli di fabbrica. Al tempo stesso, fu colui che più seppe trarre le maggiori conseguenze da quell’esperienza, valorizzandola al massimo sul piano storico e strategico. Fu questo il principale motivo oggettivo per cui Gramsci maturò le caratteristiche per essere la vera guida (benché appena trentenne) del nascente Partito Comunista Italiano. Quell’esperienza –e quella ad essa collegata dell’Ordine Nuovo- sono tuttora, per così dire, nel nostro DNA, ispirano ancora oggi, con la loro impronta storica, l’orientamento e le scelte dei lavoratori più coscienti e d’avanguardia. Non a caso, l’attuale rovina (su tutti i piani) della classe operaia italiana è iniziata, oltre venti anni fa, con l’abolizione dei Consigli di fabbrica, i quali erano il frutto più maturo del risveglio delle lotte operaie -vennero istituiti oltre quarant’anni fa- e la loro abolizione (sostituiti dalle RSU) fu velocemente imposta appena le condizioni storiche e politiche lo permisero.

Nel 1921, quando nacque il PCI, la sua grande maggioranza (nonché la totalità della FGCI) era influenzata da Bordiga, su posizioni estremiste da intellettuali inconcludenti. Gramsci era isolato a Torino, dove non aveva neanche il sostegno della maggioranza dei compagni. In pochissimi anni, riuscì a persuadere il 90% dei compagni, a rimettere il Partito sulla giusta strada tracciando la rotta corretta, quella che ne garantì –per oltre mezzo secolo- lo sviluppo della sua gloriosa vicenda.

Egli portò a termine, con grande forza e maestria, quello che –in fondo- hanno dovuto fare tutti i principali capi rivoluzionari: sgombrare la via del Partito dall’estremismo, dall’influenza di intellettuali chiacchieroni e inconcludenti. Per emanciparsi davvero dall’opportunismo (poi dai socialdemocratici, ecc.), per fare davvero un passo avanti nell’interesse del proletariato e della sua rivoluzione, bisogna liberarsi anche degli estremisti di sinistra. Così è stato per Marx ed Engels nei confronti degli anarchici e di alcuni utopisti, così è stato poi per Lenin e Stalin, riguardo i terroristi, gli anarchici, i sedicenti socialrivoluzionari, ecc.

Lo stesso vale per altri grandi dirigenti rivoluzionari marxisti-leninisti (e identica volontà dovrebbe guidarci anche oggi) ed altrettanto fece Gramsci. Per questo fu il leninista più autentico, in sintonia con Lenin che ha criticato aspramente Bordiga fin dall’inizio.

Vale la pena anche ricordare le pagine di Gramsci in polemica con Bukharin e quelle, ancor più significative e sentite, contro Sorel e i suoi seguaci. I soreliani, detti “sindacalisti rivoluzionari”, furono una corrente politica da non confondere con quella degli anarcosindacalisti: negavano la necessità del partito ed avevano una visione della rivoluzione (ammesso che l’avessero) come una specie di tappa di azioni e movimenti di carattere sindacale, negando la lotta ideologica e politica nonché l’organizzazione di classe. Come capì molto bene anche Gramsci, nessun sindacato ha mai fatto una rivoluzione ma solo, qualche volta, il contrario.

Fu così che Gramsci riuscì a realizzare il III° Congresso (clandestino) del PCI, nel gennaio 1926, nel quale fu approvato uno dei suoi capolavori politici noto come Tesi di Lione. Fu questa, dal punto di vista ideologico, la “vera” (diciamo così) fondazione del PCI. Queste Tesi permisero di indirizzare nel giusto verso l’analisi ed il giudizio (e quindi le conseguenze programmatiche ed organizzative) sul fascismo, indicandone i caratteri nuovi ed originali, rispetto ad altre forze ed esperienze già conosciute. L’incomprensione di tali caratteri, invece, aveva portato la sinistra a compiere, fino a quel momento, errori gravi e fatali (compreso l’iniziale estremismo del PCI). Per questo le Tesi di Lione furono, in seguito, una base d’aiuto per tutta l’Internazionale Comunista, per definire la tattica e la strategia riguardo la situazione internazionale (e nei singoli paesi) dopo che regimi analoghi al fascismo si erano impadroniti di diversi stati. Si può dire -cosìche se il compagno Togliatti fu il relatore (cioè chi propose la linea a tutti i Partiti del mondo) al VII° Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, ciò fu dovuto anche alla svolta impressa con il Congresso di Lione.

Il VII° Congresso dell’Internazionale fu quello che tracciò la strategia e la tattica dei comunisti di tutto il mondo che portò alla gloriosa vittoria della seconda Guerra Mondiale e alle ulteriori successive conquiste.

Le Tesi di Lione tracciarono un quadro di impressionante capacità previsionale sugli sviluppi futuri del regime fascista, sulle contraddizioni che avrebbe attraversato la società italiana, definendo la linea dell’inevitabilità della lotta armata per abbattere il fascismo e della necessità di una successiva costituente per una repubblica democratica dei lavoratori. Magari la sinistra avesse oggi (o avesse avuto, meglio ancora, venti anni fa) le proprie Tesi di Lione!

Un altro esempio dell’inesauribile fonte di ispirazione che è la vita e l’opera di Gramsci è la vicenda cosiddetta dell’Aventino. Esso fu un guazzabuglio di liberali, popolari, socialisti ed altri, i quali – ritirandosi dal Parlamento per protesta contro Mussolini- si riunirono per qualche tempo (dopo l’estate del 1924) tra di loro, senza sapere neanche bene cosa fare e cosa veramente volessero. Il PCI, ispirato da Gramsci, all’inizio aderì a quel contro-Parlamento: per diversi mesi insistette perché si organizzassero scioperi generali e manifestazioni combattive e decise in tutte le piazze, centralizzando e coordinando tutte le azioni di difesa e le lotte che avvenivano nel paese, anziché lasciarle isolate ed abbandonate ciascuna a sé stessa, così da essere facilmente represse e sconfitte dai fascisti. Quando fu chiaramente provato che l’Aventino non riusciva a decidere nulla – forse temeva più le proposte comuniste che Mussolini- accentuando lo sbandamento e la sconfitta delle masse, Gramsci abbandonò quegli antifascisti e ritornò, con il solo gruppo comunista, alla Camera, a quel punto occupata solo dai fascisti.

Egli spiegò: potevamo disertare l’Aventino fin da subito (intendendo che non si faceva certo illusioni sugli altri partiti, conoscendoli bene) ma il punto non è quello che pensiamo noi di loro bensì quello che ne pensa la classe operaia. La nostra politica deve dimostrare alle masse proletarie, anziché solo a noi stessi, che è inutile sperare alcunché dall’Aventino.

Questa capacità di sottrarsi alla pura testimonianza, alla pura auto-soddisfazione soggettiva ed impegnarsi invece nell’elevare la coscienza delle masse, promuovendone anche l’esperienza diretta, manca da molto tempo alla sinistra italiana.

Gramsci fu eletto deputato (in Veneto) già nel 1922: il PCI ottenne appena una quindicina di parlamentari. Nell’estate di quell’anno il Comitato Centrale si riunì ed approvò un documento di analisi dei risultati elettorali. In esso si illustrò (indicando fatti precisi e concreti) il contesto di violenza, di arbitrio, di brogli e falsificazioni nel quale si era svolta quella tornata elettorale. Dopo aver ricordato quanti comunisti erano stati uccisi, feriti, sequestrati, il testo concludeva così: . è stata anche la linea che ho seguito dal mio arresto.

A due settimane da esso, ci fu l’udienza del Tribunale della Libertà, prima occasione per incontrare le compagne e i compagni arrestati insieme a me. L’udienza era segreta, a porte chiuse, c’erano solo avvocati, detenuti, magistrati e poliziotti. Approfittai della facoltà di prendere la parola. Quando mi alzai in piedi calò un impressionante silenzio che prima non c’era, anche alcune guardie e funzionari entrarono in fretta nell’aula, per ascoltarmi con la massima attenzione.

Chissà cosa credevano che io dovessi dire. Mi rivolsi ai nostri chiamandoli “figli di Antonio Gramsci” e suggerii loro la linea di condotta: . Poi mi rivolsi ai magistrati e dopo aver ribadito che quella era “una patetica montatura destinata a naufragare nel ridicolo” aggiunsi che eravamo fieri di essere militanti del PCI, di ricoprire –nostro malgrado- i panni che furono di Antonio Gramsci e conclusi brevemente, non ricordo come, ma il senso era che facessero il diavolo che volevano e che noi non avevamo nulla da giustificare né da pietire. E’ per fedeltà alla direttiva del 1922 che nessuno di noi ha mai lamentato pubblicamente tutto quel che gli è capitato e le conseguenze che ne sono derivate; non esiste negli atti giudiziari di quel processo, per esempio, neanche un accenno al fatto che ho perso definitivamente la vista a causa di esso.

Nel 1922 (ed anche in altri periodi) Gramsci fu a Mosca e a Vienna per compiti che svolgeva per l’Internazionale Comunista. Sposò anche una donna russa, dalla quale ebbe due figli che lui non poté mai vedere. Poteva benissimo riparare all’estero come gli fu suggerito da molti compagni ed anche da Mosca ma egli si rifiutò, nonostante la situazione fosse chiarissima e lasciasse presagire il peggio, andò volontariamente verso il suo destino non per eroismo da strapazzo ma per una razionale scelta politica sostenuta dalla sua incrollabile forza morale.

Diceva che nel momento in cui si incitavano gli operai alla tenace e coraggiosa lotta contro il fascismo, il Segretario non poteva screditare il Partito dando per primo il cattivo esempio. Disse più o meno: Quella di tenere, politicamente più di ogni altra cosa, al giudizio degli operai è un’attitudine che recentemente si è un po’ affievolita tra i dirigenti della sinistra (è una battuta ironica!).

Così nel novembre 1926, benché fosse deputato e quindi provvisto di immunità, i fascisti lo fecero arrestare. Pagava anche per la fermezza e il coraggio con cui si era scontrato, anche in Parlamento, con Mussolini.

Cominciò da lì un calvario che lo portò alla morte, precisamente lo scopo dichiarato di Mussolini era di “impedire a quel cervello di pensare”.

I fascisti approfittarono della sua salute fragile e malmessa. Lo fecero girare lungamente e penosamente, per tutt’Italia da Bari a Milano. Questo perché le lunghe traduzioni in treno, con dettagli su cui sorvolo, erano particolarmente adatte ad infierire sulla sua salute. Nel 1928 fu condannato ad oltre vent’anni di carcere. Sbattuto per anni in cella la sua salute peggiorò in modo costante e progressivo, ebbe febbre ed altri gravi sintomi. Nel 1931-32 cominciò a sputare sangue.

Fu quasi sempre isolato. La sua condizione era talmente grave da sollevare uno scandalo internazionale. Per questo Mussolini fece finta, nel 1934, di scarcerarlo. In realtà fu trasferito in una clinica, dove lo curarono pure male, in una camera con le sbarre alle finestre e sempre piantonato dalle guardie, di cui una sempre presente nella stanza. Peggiorò costantemente fino al 27 aprile 1937, quando spirò.

Il fascismo non si risparmiò neanche un’ultima beffa: tre giorni prima della sua morte Gramsci fu dichiarato formalmente libero. In tutto questo periodo, egli non vacillò mai nelle sue convinzioni, non si piegò al dolore e alla malattia, rifiutò perfino la richiesta di grazia che la madre, comprensibilmente, aveva presentato alle autorità. Ebbe il tempo di intenerirsi pensando ai propri figli –al sicuro in Unione Sovietica- che non aveva mai visto e che prevedeva, probabilmente, di non vedere mai. Riuscì perfino a scrivere un libro, affettuosamente dedicato a loro, di favole dolci e delicate.

Come è noto, la potenza della sua mente e del suo carattere gli permisero di produrre il massimo delle sue capacità di grande pensatore, proprio in questo periodo. Si tratta delle elaborazioni arcinote come i “Quaderni dal Carcere”.

Sarebbe solo presuntuosa saccenteria pretendere di riassumerli o descriverli adesso. Con essi la cultura italiana ha fatto grandi passi avanti nonché il patrimonio teorico ed ideologico del movimento operaio. Gramsci rimane il grande pensatore della rivoluzione in Occidente. Sfido chiunque al contraddittorio, circa il fatto che la ricerca di una via della sinistra e del movimento operaio –soprattutto in Italia- abbia oggi alla base il pensiero, marxista-leninista, di Gramsci. Chi dice (o pensa) il contrario o è un cretino o è un venduto: i fatti di questi giorni ci suggeriscono che potrebbe essere un cretino venduto.

Non a caso il nome e l’opera di Antonio Gramsci sono onorati in tutto il mondo, si studia in molte università estere, le sue opere sono tra le più tradotte tra quelle di autori italiani, le prove del suo prestigio perdurante sono innumerevoli come le personalità e le forze –della cultura, della politica, della società- che, pur non essendo comuniste ed anzi lontane da noi, gli rendono omaggio in vari continenti.

Ecco, un ragazzo povero e malato, alto un metro e mezzo e un po’ gobbo è stato –ed è- tutto questo. Ciò mostra non solo la potenza degli ideali comunisti ma l’inesauribile speranza –che dobbiamo coltivare tutte e tutti- di voler essere sempre più forti del fato e sempre migliori di sé stessi.

Siamo davvero un grande popolo se uno di noi è Antonio Gramsci!

 

Norberto Natali

 

 

Sorgente: proletaricomunistitaliani.it

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