0 8 minuti 3 anni

A Idlib, ultimo fortino dei miliziani anti-Assad. Nel Paese la pace è ancora lontana

DAL NOSTRO INVIATO PIETRO DEL RE

IDLIB (SIRIA) – E’ gonfio di piogge recenti l’Oronte e alle dieci del mattino ancora alita vapori gelidi. Fino a due anni fa, segnava il confine naturale tra la Turchia e la Siria, prima che Ankara, spaventata dall’arrivo di altri profughi, lo fortificasse con un muro e una rete di filo spinato. Per guadare il “fiume pazzo”, come lo chiamano gli arabi, bisogna camminare a lungo attraversando uliveti e campi di grano di un verde tenero, gli stessi che s’arrampicano sulle colline siriane. Sono le immondizie mai raccolte, i sacchi di sabbia ammonticchiati per proteggersi da chissà quale offensiva, i veicoli bruciati e le case sventrate dai razzi a dirci che siamo finalmente entrati nella provincia di Idlib, l’ultima rimasta nelle mani della rivolta contro il presidente siriano Bashar al Assad: una rivolta caparbia, sopravvissuta a dieci anni di feroci repressioni e di spaventosi bombardamenti, composta da ciò che resta dell’Esercito libero siriano e da una mezza dozzina di organizzazioni jihadiste, la più importante delle quali, Hayat Tahrir al Cham, ex antenna siriana di Al Qaeda, è stata iscritta dall’Onu nella lista dei gruppi terroristi.

Era il 15 marzo 2011 quando migliaia di giovani cominciarono a occupare le piazze delle principali città del Paese. Scandivano tutti lo stesso slogan, “Presto verrà il tuo turno, dottore!”, riferendosi ai dittatori appena deposti dalle altre “primavere arabe” e agli studi di oftalmologia di Assad. Ce lo ricorda Mohammed Bakr, che incontriamo a Salqin e che prima della guerra faceva il giudice a Homs, una delle culle della ribellione, dove ai cecchini del regime veniva impartito l’ordine di centrare i bambini per fiaccare il morale degli adulti. “Sono fuggito da Homs perché la polizia rastrellava chiunque avesse manifestato contro il presidente. I più fortunati erano torturati in carcere per mesi, gli altri subito uccisi con un colpo di pistola alla testa”, dice l’ex magistrato che oggi riesce a sfamare la sua famiglia soltanto con una bancarella di scarpe vecchie. “So bene che in nome di un Islam radicale, i jihadisti ci hanno scippato la nostra rivoluzione che chiedeva più libertà e più giustizia sociale, ma so anche che dall’altra parte c’è un regime sanguinario, spalleggiato da eserciti stranieri guidati soltanto da interessi geopolitici”.

Se si guardano le cifre, la tragedia siriana appare come la più grande catastrofe umanitaria dalla Seconda guerra mondiale. L’anno scorso un inviato dell’Unicef parlò addirittura di “emergenza biblica”. Ai tanti morti che secondo una stima al ribasso avrebbero raggiunto quota 385mila, vanno aggiunti i 6,6 milioni di siriani fuggiti all’estero (3,5 milioni dei quali in Turchia), e i 6,7 milioni di sfollati interni, con un conflitto ancora in corso e che, per via traballante cessate il fuoco raggiunto un anno fa, continua a provocare vittime. Nel Paese quasi l’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con una crisi economica aggravata da una pericolosa crisi alimentare. Soffocato dagli sforzi bellici e dalle sanzioni occidentali, dopo la svalutazione dell’estate scorsa, Assad è stato costretto a stampare nuova moneta.

Aamir al Obeda ha ventidue anni e come molti suoi coetanei è protagonista a Idlib di una nuova generazione di giornalisti e fotoreporter – ma andrebbe forse scritto storiografi – che si è formata sul terreno per raccontare gli orrori del conflitto, come la precisione chirurgica con cui gli elicotteri da combattimento di Damasco lasciano cadere i barili di esplosivo su chi è in fila per il pane o con cui i caccia russi centrano le scuole, le moschee e gli ospedali della provincia ribelle. “Con il mio mestiere riesco a dare un senso a una vita molto dura, perché qui manca tutto e dobbiamo rispettare scrupolosamente le imposizioni di chi ci comanda”, spiega il ragazzo mostrandoci alcuni dei suoi scatti con cui dice di avere cercato una scintilla di bellezza anche nella miseria e il dolore più estremi.

A Idlib, tra presidi sanitari, ambulatori e parcheggi per le ambulanze, le bombe hanno distrutto il 60% delle infrastrutture mediche. “Vorrei che il mondo intero vedesse le mie foto per capire quanto soffrono i siriani, ma spero che un giorno possano anche servire ad accusare di crimini di guerra Assad insieme ai suoi principali alleati, ossia al presidente russo Vladimir Putin e a quello iraniano Hassan Rouhani“, aggiunge Aamir che sa bene i rischi che corre, poiché secondo Reporter sans frontières dall’inizio del conflitto sono già stati uccisi 230 giornalisti, per la maggior parte siriani.

Da sempre granaio della Siria, negli ultimi anni la regione di Idlib si è trasformata in una gigantesca tendopoli che ospita 3,5 milioni di abitanti, di cui due terzi sono arrivati qui per paura delle rappresaglie man mano che le forze lealiste riconquistavano i bastioni della rivolta a Homs, Daraya o Aleppo. Più di un milione vive in malandati campi profughi, spesso senza né elettricità né cibo a sufficienza. In questa stratificazione di lutti e atrocità, ovviamente non c’è spazio per i timori della pandemia. Qui, solo in pochi indossano la mascherina, e i vaccini non arriveranno mai. Basti dire che secondo l’attendibile Syria Relief il 99% di chi vive sotto una tenda a Idlib soffre di disturbi da stress post-traumatico. Tra le centinaia di persone intervistate, l’ong cita il caso di Ahmed, 30 anni, che dopo essere sopravvissuto a 31 raid aerei e avere perso una gamba in uno di essi, adesso a terrorizzarlo basta una porta che sbatte.

Con circa diecimila miliziani, i salafiti di Hayat Tahrir al Cham controllano tremila chilometri quadrati, e cioè più della metà della provincia, ma anche altri territori nel Nord-Est del Paese, nei pressi di Aleppo, Latakia e Hama. Negano ogni legame con Al Qaeda e, pur rivaleggiando con gli altri gruppi jihadisti presenti a Idlib, gestiscono sia l’importazione di carburante sia la distribuzione degli aiuti umanitari, di cui confiscano una buona fetta per far funzionare la loro organizzazione. Quando chiediamo all’ex magistrato che cosa prevede in un prossimo futuro, Bakr risponde che al momento nessuno oserà stravolgere lo statu quo. “Damasco vuole ad ogni costo riconquistare la nostra provincia ma deve vedersela con interessi più grandi dei suoi, che sono anzitutto quelli di Ankara. Una vasta offensiva militare per “liberarla” scatenerebbe una nuova, massiccia ondata migratoria che creerebbe ai turchi enormi problemi politici ed economici”.

Intorno a Idlib, la Turchia ha dispiegato 15mila uomini, da un lato per frenare le ambizioni del regime siriano dall’altro per scoraggiare Mosca ad accoglierle e promuoverle. Per disinnescare la minaccia di questa bomba migratoria e dei feroci gruppi terroristi che contiene al suo interno, Ankara sta facendo dell’indomita provincia un suo protettorato. Il quale durerà finché i cosiddetti Paesi donatori non si stancheranno di rifornirlo in aiuti umanitari di cui non possono seguire il flusso. Nel frattempo, i siriani scappati vers o Idlib nella speranza di varcare il confine turco, si ritrovano prigionieri di una regione dove la terra è stata arata dalle bombe, dove ogni edificio porta le tracce del conflitto e dove governano gli islamisti.

Sorgente: Siria, tra i ribelli della guerra dei dieci anni | Rep

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20