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Governo Draghi. La massa degli elettori si sente legittimata nel suo disprezzo dei partiti e del parlamento: vede una politica senza progetto e politici incapaci di fare politica professionale

Rita di Leo

Le dimissioni di Zingaretti hanno una rilevanza politica, legata alla percezione politica diffusa per cui dopo anni di scossoni sarebbe arrivata la quiete. A farci stare tranquilli e soddisfatti nei luoghi di lavoro e nelle case, ci pensano quelli che ci sanno fare.

Quelli che hanno le competenze necessarie e non sono in competizione tra loro: ciascuno ha il suo compito da svolgere, consapevole di doverne rendere conto solo a colui che glielo ha affidato.
I compiti hanno livelli di priorità: quelli essenziali riguardano il denaro nella forma dei fondi europei da maneggiare in modo tale che non lo tocchino le mille mafie del paese; a tal fine sono in campo generali e uomini della finanza cosmopolita. Vi è poi la gestione amministrativa degli affari correnti suddivisa tra esponenti della larghissima platea dei partiti che entusiasticamente sostengono l’élite al governo. L’entusiasmo è difficile da capire.

Da un lato vi sono gli elettori, ai quali per la quarta volta si regala un capo di governo non eletto, da un altro lato c’è un anziano attore comico, ancora così bravo da farsi accettare nel ruolo di king maker delle sorti del Paese; e poi vi è un toscano del quattro-cinquecento italico, capace di manipolare l’assetto politico di 360 gradi a secondo dei suoi salti d’umore; e infine vi sono i partiti e i movimenti, vecchi e nuovi. Con l’eccezione di quello di matrice fascista rimasto fedelmente tale, gli altri – tutti – ispirano vergogna e sgomento. Vergogna perché sono così sollevati che sia un élite ad assumersi il peso di dover governare nella contingenza della pandemia e del recovery fund: che siano altri a vedersela con impegni così al di sopra delle proprie capacità.

La massa che li ha eletti è sgomenta e si sente legittimata nel suo disprezzo per il parlamento, il governo, i partiti. Dinanzi all’elettore vi è una politica senza progetto e politici incapaci di fare politica professionale. L’élite del denaro, del sapere, delle relazioni internazionali riempie il vuoto della politica professionale nella certezza del proprio potere che deriva dall’aver fatto le scuole giuste, di sapersi muovere tra gli imperatori della finanza e dei big data, di avere scioltezza nel trattare con le istituzioni sovranazionali che supervisionano la gestione di quella parte di mondo inserita in essa. L’élite si è ripresa la scena quando la politica professionale ha smesso di essere tale: Togliatti e Ingrao, Fanfani e Moro non sapevano l’inglese e non avevano dimestichezza con i luoghi del potere loro avversario ma ne avevano molta con i propri elettori. E non usavano quel termine ma «compagni» o «amici»: quel termine serviva solo al momento delle battaglie per il governo del parlamento, delle regioni, delle città.

Vincere una battaglia era il primo gradino per diventare un politico professionale che aveva poi la sua scala di incarichi da salire per arrivare a ruoli decisionali, locali e nazionali. Al governo si scontravano politiche progetto concorrenziali con programmi che venivano spiegati e propagandati con ogni mezzo dal rappresentante di ciascuna parte politica. La compravendita dei voti, le infiltrazioni clientelari si riteneva riguardassero una sola parte politica, quella che vinceva le elezioni parlamentari. Nelle città, nei paesi i risultati non erano scontati e motivavano i politici locali nonostante il clima ideologico da guerra fredda.

Tutto ciò appartiene a un passato che è stato seppellito con disdoro. La politica meno professionale è e meno viene rifiutata: perché e che cosa è successo nel nostro paese che richiamava tanti studiosi dall’estero attratti dalla nostra passione per la politica? Intanto è successo che abbiamo eretto un muro altissimo tra ieri ed oggi e siamo divenuti dipendenti da qualsiasi cultura che fa briciole del passato e lo rinnega ben più di tre volte.

La dipendenza è la scelta opposta a quella che spetterebbe fare a parti politiche, una volta avversarie e al momento mescolate. La scelta è reimparare la politica professionale con i suoi programmi, le sue istanze e la platea di interlocutori, quelli concordi e quelli ostili. E di decidere che fare insieme agli uni contro gli altri. Di ricordarsi della riforma agraria di Fanfani e della lotta contro l’abolizione della scala mobile. Di ridare spazio al conflitto sociale. Di decidere che l’élite lavora per te e non al tuo posto.

Sorgente: Per le élites tornate al potere un entusiasmo autolesionista | il manifesto

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