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Nella testa della camorra | Rep

Il pensiero mafioso dalla Nco di Cutolo alla “paranza dei bambini”

 

DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE), ISAIA SALES (TESTO), COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI, VIDEO DI ANNA LAURA DE ROSA E GIULIA SANTERINI, PRODUZIONE GEDI VISUAL

Siamo abituati a raccontare le organizzazioni criminali dalla coda. Dagli effetti che produce la violenza delle armi e dell’intimidazione. Per una volta, capovolgiamo la prospettiva e con Isaia Sales raccontiamo il pensiero mafioso. La causa e non l’effetto. In un perimetro definito, quello della camorra, che tra le organizzazioni criminali, nell’arco di quarant’anni, da Raffaele Cutolo a Emanuele Sibillo, ha conosciuto più di altre un percorso di “ideologizzazione” della violenza. È un viaggio attraverso scritti, interviste, atti giudiziari che ci raccontano come dal “partito della violenza” teorizzato con la Nuova Camorra Organizzata si sia arrivati allo jihadismo della paranza dei bambini che ha insanguinato Napoli.

I quartieri Spagnoli, Napoli

Il pensiero mafioso 

Esiste una ideologia mafiosa? E se sì, di che tipo? Molti studiosi storcono il naso quando si attribuisce alla criminalità mafiosa, e in special modo alla camorra, una specifica ideologia. Eppure, la costruzione ideologica attorno all’uso della violenza è una delle principali caratteristiche dei fenomeni mafiosi. Ciò che li rende diversi dalla criminalità comune è appunto la trasformazione degli interessi in valori.

Ogni potere, come ci ha ricordato Max Weber, cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità: ideologizzare la violenza, darle un senso, attribuirle una finalità “superiore” al semplice delinquere, è indispensabile ai fini del consenso che si vuole ricevere dall’ambiente circostante. Il mafioso pretende, a differenza del criminale comune, “di essere investito di un’autorità e di essere in qualche modo legittimato “pubblicamente” a svolgere quel ruolo”. L’ideologia mafiosa è una distorsione della morale cattolica e dei principi di uguaglianza. Gli uomini non sono tutti uguali. Chi possiede la violenza e la sa dominare fino a renderla un metodo di potere stabile, fa parte di una élite dell’umanità. Non della feccia.

In questa particolare ottica morale, l’impossessarsi di ricchezza e di beni altrui o pubblici è una virtù non un reato. L’omicidio non è un delitto, ma l’erogazione di una pena verso un “infame”, il ripristino di un ordine infranto. I mafiosi sono dei razzisti particolari, perché non conta per loro il colore della pelle o il luogo di provenienza delle persone, ma alcuni valori onorifici in possesso solo di pochi, cioè innanzitutto loro stessi. Chi non è di questa “razza” è parte di una specie subumana, un non-uomo e merita di morire come un animale. Dunque, l’ideologia mafiosa è una costruzione “culturale” per sublimare la violenza e renderla accettabile.

Ideologia onorifica e ideologia morale

Mentre nella mafia siciliana è presente un’ideologia più onorifica (farsi giustizia da sé, non rivelare gli autori di tentativi di omicidio di cui si è stati vittime) e più politica (sostegno al tentativo “separatista” della Sicilia dallo Stato italiano nel secondo dopoguerra e a quello ideato all’inizio degli anni novanta del Novecento), la camorra invece ha un’ideologia più sociale. Il diritto a un reddito e a procurarselo in ogni modo, ad “abbuscarselo” (procurarselo) a qualunque costo è alla base di quell’ideologia di vita che ha molte probabilità di incontrarsi con la camorra. Procurarsi da vivere viene prima di ogni ordinamento legale, è un obiettivo a cui tutti gli altri vengono subordinati in un ambiente sociale contraddistinto dall’assenza di istruzione e redditi.

Nella camorra napoletana, molti capi danno interviste, usano le udienze per fare proclami, scrivono romanzi (“romanzi camorristici” li definisce lo scrittore Angelo Petrella) canzoni, poesie, amano lo spettacolo. Spesso rivendicano le loro azioni delittuose, e si descrivono come persone costrette al crimine per mancanza di alternative. I boss mafiosi, al contrario, sono quasi tutti discreti, sobri, amano poco comparire e autorappresentarsi. La loro crudeltà è silenziosa. Tutto il contrario dei boss di camorra. Un episodio emblematico a tale riguardo avviene quando Pupetta Maresca, vedova del boss Pascalone ‘e Nola, che aveva ucciso il mandante dell’omicidio del marito (e in quel periodo legata ad un boss del narcotraffico, Umberto Ammaturo) convoca una conferenza stampa presso il Circolo della Stampa di Napoli nel febbraio del 1982 solo per minacciare pubblicamente i suoi nemici durante la guerra di camorra allora in atto. Casi del genere si ripeteranno solo con i cartelli della droga latino-americani.

I protagonisti

Cutolo e il partito del crimine

Il più mediatico e il più ideologico dei capicamorra è stato Raffaele Cutolo, che scriverà libri e poesie ai fini dell’indottrinamento dei suoi seguaci, come un leader religioso. Cutolo è l’unico boss della malavita napoletana, o forse internazionale, ad avere elaborato “una sorta di filosofia, una teoria capace, a modo suo, di supportare la prassi quotidiana delle violenze”, scriverà il critico letterario Francesco Durante. Ed è anche il primo boss mediatico, cioè un criminale che si trova a suo agio con i media e li usa ai suoi fini di propaganda. Lo si può definire un criminale agitatore sociale. Il capo di un particolare “partito del crimine”. Seguiamo il “Cutolo pensiero”, utilizzando varie interviste televisive da lui rilasciate in carcere, il suo “saggio” Poesie e pensieri (pubblicato dalla casa editrice Berisio di Napoli nel 1980 e poi sequestrato dall’autorità giudiziaria) e alcune sue lettere riportate da Francesco De Rosa nel libro Un’altra vita (editore MarcoTropea, 2001). Una delle poesie più riuscite di Cutolo (N’omme È camorra) è copiata quasi integralmente dal grande poeta napoletano Ferdinando Russo, e gli valse i complimenti di Goffredo Parise, che non si era reso conto del plagio, in un articolo sul Corriere della Sera del 20 febbraio del 1983. Vediamo come il “professore” di Ottaviano risponde a una domanda di Enzo Biagi durante una puntata di Spot nel 1986:

– “Signor Cutolo cos’è secondo lei la camorra?”

È una scelta di vita, è un’etichetta che si dà. Diciamo che è un partito di ideali. La camorra è disoccupazione, bisogna insegnare ai giovani che è più bello lavorare, però glielo dobbiamo anche trovare un lavoro”.

 

Enzo Biagi intervista Raffaele Cutolo per la trasmissione Rai “Spot” nel 1986

Nel suo libro aveva scritto: “Dicono che ho organizzato la nuova camorra. Se fare del bene, aiutare i deboli, far rispettare i più elementari valori e diritti umani che vengono quotidianamente calpestati dai potenti e ricchi e se riscattare la dignità di un popolo e desiderare intensamente un senso vero di giustizia, rischiando la propria vita per tutto questo, per la società vuol dire camorra allora ben mi sta quest’ennesima etichetta”. I suoi fini sociali: “Non dovrebbe esistere in un paese, un mondo di privilegiati che possono permettersi il bello e il cattivo tempo. Quando nello stesso paese esiste il ghetto della miseria, della fame e del dolore. Ecco perché aumenta sempre la delinquenza”. E ancora: “I veri galantuomini, per me, stanno in galera, oppure sui gradini di una chiesa a chiedere l’elemosina […]. Ogni uomo ha in sé la propria scintilla di nobiltà. Bianco, rosso, nero, giallo, povero o ricco che sia. Non esistono, non debbono esistere esseri inferiori […]. Fateci caso, gli uomini migliori si trovano banditi, latitanti o carcerati […]. Solo gli uomini che hanno molto sofferto sono animati da un profondo senso di giustizia, sanno cosa significa la libertà e l’amano immensamente e provano pietà per gli oppressi e combattono gli oppressori”.

Riferendosi al periodo precedente il suo primo delitto, Cutolo si descrive con queste parole: “Ce l’avevo con i ‘signorotti’ del paese, i quali solo perché avevano molti soldi, credevano di essere i padroni di tutto, calpestando anche i sentimenti e l’orgoglio di quelli più poveri e più indifesi. Per questo io, per farmi rispettare, maltrattavo i potenti del paese”. Come in tutte le ideologie anche i miti hanno la loro parte: “Ho visto venire incontro a me quattro cavalieri con lancia e scudo, con mantelli neri stretti sulle spalle. Mi hanno guardato, sorriso. In quel momento ho capito che mi veniva affidato il compito di rifondare la camorra su nuove basi di efficienza, perché l’antica storia dei padri non andasse perduta. Ecco, io sono la reincarnazione delle pagine più gloriose della storia napoletana, sono l’erede di chi soffre nelle carceri, distribuisco la giustizia, sono il vero giudice che toglie agli strozzini e dà ai poveri”. In una lettera scritta alla moglie nel 1998 si legge: “La miseria purtroppo continua a generare violenza e delinquenza. Per ottenere la non violenza occorre eliminare le cause della miseria”. E ancora: “Ci sono tanti figli della miseria che soffrono più di noi. Bisogna capire le ragioni profonde che hanno spinto uomini pacifici a uccidere”.

Raffaele Cutolo, ‘o professore di Ottaviano

Spesso, nelle numerose lettere che si scambiano i cutoliani in carcere (gli aderenti alla Nuova camorra organizzata, Nco, arriveranno a più di 3000) ogni qualvolta devono segnalare un nuovo affiliato parlano di “nuovi adepti al nostro credo”. Di quale credo si parla? Forte è il suo tentativo di ergersi a difensore dei più poveri e dei più indifesi, a riparatori di torti. Illuminante un episodio avvenuto nel 1981.Viene rapita la piccola Raffaella Esposito; pochi giorni dopo sarà ritrovata strangolata e seviziata. Pasquale D’Amico, ai vertici della Nco, divulga alla stampa un proclama contro tutti coloro che fanno violenza sui bambini: “I bambini non si toccano”. Viene arrestato Giovanni Castiello, presunto autore dell’omicidio, in seguito scarcerato per insufficienza di indizi. Dopo pochi mesi, il Castiello viene trovato morto e la Nco ne rivendica pubblicamente l’assassinio. È Cutolo a ribadire la giustezza della decisione: “Io credetti di fare giustizia ordinando di uccidere il Castiello”. Un mafioso non avrebbe mai detto pubblicamente di avere ordinato un omicidio. Alla famiglia della bimba vengono offerti 6 milioni di lire. Cutolo si diede da fare anche per la liberazione di un bambino, Gaetano Casillo, che era stato sequestrato a San Giuseppe Vesuviano, preoccupato che si potesse attribuire la responsabilità alla sua organizzazione. In una telefonata intercettata dice: “Noi facciamo le cose anche più malamente, ma di un altro genere”.

Alcuni dei 640 imputati nel maxiprocesso alla Nco. Milano, febbraio 1985

“Amica morte”

Cutolo ha creduto nei giovanissimi violenti finiti in carcere, li ha raccolti nella sua organizzazione, ne ha intuito la carica distruttiva da esercito di morte, li ha protetti, ha dato loro assistenza e lavoro. Per la prima volta il lavoro criminale viene svolto, come un qualsiasi lavoro, da migliaia e migliaia di giovani. Per loro la camorra riempie spazi di sostegno sociale, costituisce la speranza certa di trovare protezione, ascesa sociale, solidarietà, riuscita. In questo modo migliaia di giovani hanno potuto vivere la loro violenza, la loro devianza come qualcosa che ha un valore in sé, come qualcosa di “necessario”. La carica di aggressività e di distruzione di questo tipo di giovani ha trovato in Cutolo un punto di riferimento, un’identificazione, quasi un’autorità morale. “Amica morte, cerca di darmi una mano a seminare nel tuo terreno… Quando comincia una battaglia, il primo pensiero di un capo deve essere di farsi come Amica la morte. Perché se tiene Amica la morte, questa lo aiuterà”. Così teorizza nel suo libro.

Cutolo per questi giovanissimi è come un padre, vogliono diventare come lui, lo chiamano “salvatore di Napoli”. Nella fitta corrispondenza che si scambiano, molti gli promettono di non deluderlo mai. Cutolo è il primo delinquente che ha costituito e diretto dal carcere una grande organizzazione criminale. Questi giovani sono pronti a sacrificare la vita per lui, e lo dicono pubblicamente. Essi scrivono lettere ai giornali, fanno dichiarazioni e soprattutto rivendicano ripetutamente gli omicidi. Anche in questo caso, non si ha nessun altro riscontro in altre criminalità dell’uso abituale della rivendicazione  telefonica degli omicidi, se non nel terrorismo. La Nco, dunque, è stata l’espressione di una delinquenza-massa, di una specie di movimento collettivo e di massa della gioventù violenta e sbandata della Campania assoldata in carcere. Un partito del crimine, con un suo credo e una sua “filosofia”. La poesia di Cutolo per me più significativa è quella dedicata a un bambino a cui ha fatto ammazzare i genitori, un tempo suoi amici. Con i versi vorrebbe convincere il bambino che il padre e la madre se lo meritavano di morire perché erano dei traditori, e conciliare così spietatezza e pedagogia. Il risultato è un impressionante cinismo espresso in rime scadentissime. Ancora oggi resta un mistero letterario come alcuni scrittori e cantautori abbiamo potuto esprimere apprezzamenti per le qualità artistiche del boss di Ottaviano.

Una strada dei quartieri Spagnoli, Napoli

Il terzo mondo di Misso

Non è stato solo Cutolo a ammantarsi di una ideologia sociale. L’atteggiarsi a riparatori dei torti è evidente anche nella scelta dei nomi dei figli e dei nipoti di altri boss. Se il figlio del capo della Nco si chiamerà Roberto (come Robin Hood), un figlio di Ciro Mariano, boss dei quartieri spagnoli, si chiamerà Emiliano Zapata, e avrà lo stesso nome un nipote di Giuseppe Misso, il boss del rione Sanità, autore di ben due romanzi autobiografici, I leoni di marmo (Arte Tipografia Editrice, 2003) e Il Chiarificatore (le Parche edizioni, 2016). Misso, di simpatie fasciste, accusato e poi assolto per l’attentato al rapido 904 nel dicembre 1984, ci fornisce uno spaccato della particolare ideologia camorristica. Per lui lo Stato, tra colte citazioni di Borges, Ungaretti, Dostoevskij, è il primo a essere fuorilegge (“putrido, imbelle e accondiscendente”), e con questa asserzione giustifica tutte le attività fuorilegge praticate a Napoli (esclusi, nella sua personale idea della legge, il commercio di droga e le estorsioni). Anzi la camorra è “il prodotto del malaffare degli amministratori pubblici”. Come a dire che mentre le attività delinquenziali sono almeno sostenute dal bisogno, l’affarismo politico è ingiustificabile perché non motivato neanche da questo. Nella sua visione “lo Stato già responsabile del degrado della città, vuole che ci sia la camorra […]. Con la disoccupazione e la miseria che attanagliano Napoli, la camorra sta diventando un’industria per tanti disperati: distribuisce lavoro. Nel Sud c’è la nuova criminalità a controllare la disperazione”.  È lo Stato il responsabile di tutto: “Di chi è la colpa di tanta barbarie? Non mi stanco mai di chiedermelo e la risposta è sempre la stessa: lo Stato”.

Giuseppe Misso, ‘o nasone che denuncia lo Stato

Misso fa l’elogio dei ladri, che chiama “prelevatori” (moralmente autorizzati, s’intende, a prelevare dalle banche e dai ricchi) in quanto operano senza fare violenza alle persone ma solo ai loro beni e godono della simpatia popolare che da sempre si rivolge a chi sottrae con l’astuzia ricchezza a chi la possiede. Misso è stato l’ideatore e l’esecutore della più importante rapina a una banca della storia criminale di Napoli, 10 miliardi di lire al Monte dei Pegni del Banco di Napoli. E la giustifica così: “Noi non avevamo fatto altro che sottrarre i beni a coloro che sfruttavano il bisogno altrui”. E aggiunge: “La nostra coscienza non era turbata da ripensamenti: noi rubavamo ai ricchi e per farlo mettevamo in gioco la nostra libertà e la nostra vita. Si può essere persona perbene, pur essendo uno scassinatore. Essere perbene non significa affatto rispettare i codici e le leggi. Chi non è stato mai in carcere e ha la fedina penale pulita è un incensurato, non è detto che sia una persona perbene! Non credo che sia da folli ragionare in questo modo”. E riandando alla propria adolescenza e ai primi furtarelli commessi, dice che si sentiva con i suoi complici “un sognatore, come un cavaliere della tavola rotonda”. La giustificazione di tutto è sempre la miseria: “Avevamo fame e tante volte, con destrezza rubavamo, dalle cartelle di cuoio, le sostanziose merende ai figli di papà, chiamavamo così gli alunni che avevano di che sfamarsi”.

Raffaele Cutolo, il boss della Nuova Camorra durante il processo Cirillo, Napoli 22 Giugno 1993

Nel descrivere gli uomini del suo clan, Misso sottolinea spesso che si tratta di orfani che hanno patito la fame, che hanno avuto un’infanzia infelice: “In fin dei conti quei ragazzi erano dei disoccupati e per di più disorganizzati”. Una specie di terzo mondo criminale. E ancora: “I nostri progetti erano rivoluzionari, un uomo non può vivere senza sogni”. Riferendosi poi alla morte di un suo sodale scrive: “Tonino non era un criminale, lottava per un ideale”. E con malinconia conclude: “Sarebbe stato bello scrivere invece che sparare”. E sul riconoscimento del valore da attribuire ai ladri, significativa l’espressione che un capo camorra usa nel romanzo Teste Matte di Salvatore Striano (scritto con Guido Lombardo, Tea 2015) rivolta ad un amico del protagonista: “Tuo padre era un grande uomo, un ladro vero”. Sembrano qui echeggiare alcune espressioni di Educazione siberiana di Nicolai Lilin. Salvatore Striano è diventato famoso per avere partecipato da recluso nel carcere di Rebibbia al film dei fratelli Taviani Cesare deve morire.Loading video

Salvatore Striano interpreta Bruto nel film premiato nel 2012 con l’Orso d’oro al Festival di Berlino Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani

 

Savio e il valore sociale del contrabbando

Anche Mario Savio, un boss dei Quartieri spagnoli che scriverà con Fabio Venditti un libro sulla sua vita criminale (La Mala Vita. Lettera di un bosso della camorra al figlio, Mondadori 2006) giustificherà le sue scelte allo stesso modo di Misso: “Fare i criminali era per noi una risposta lecita alla miseria, un segno di rivolta oltre che di sopravvivenza. Dividevamo il mondo in chi è nato avendo qualcosa (sia dal punto di vista di vita materiale che delle opportunità) e in chi è stato nel secchio della spazzatura dell’ordine esistente.” E Savio aggiunge a proposito del rapporto con i giovani terroristi napoletani: “Ci accomunava la carica eversiva, nel senso che per noi, come per loro, la Repubblica italiana si affermava in una forma assolutamente ingiusta, salvaguardando gli strati sociali potenti e fortunati e perpetuando la condizione di miseria e di schiavitù delle popolazioni meno nobili. Loro volevano abbattere lo Stato, noi ne gestivamo uno per conto nostro.”

Mario Savio, la “testa matta” dei quartieri Spagnoli

La suocera di Savio fu resa famosa dal film di Vittorio De Sica Ieri, oggi e domani. Era lei la contrabbandiera che per non finire in carcere sfornava figli a ripetizione (ben 19 gravidanze) interpretata da una straordinaria Sofia Loren.
E sul valore sociale del contrabbando si esprimerà allo stesso modo Michele Zaza (soprannominato Michele o’ pazzo) il più importante contrabbandiere della città che  in una famosa intervista a una Tv privata così teorizzerà: “Sono 700.000 le persone che vivono di contrabbando, che per Napoli è dunque come la Fiat per Torino. Qualcuno mi ha chiamato l’Agnelli di Napoli. Sì, certo, questa attività potrebbe essere fermato nel giro di mezz’ora dalle Autorità, ma per quelli che ci lavorano sarebbe la fine. Diventerebbero tutti ladri, rapinatori, borseggiatori. Napoli diventerebbe la città più invivibile al mondo. Invece, questa città dovrebbe ringraziare i venti, trenta uomini che organizzano le operazioni di scarico delle navi cariche di sigarette e quindi fermano la delinquenza”. Insomma, il contrabbando viene considerato come la principale industria della città e una prevenzione di massa contro il crimine. Zaza ha sempre negato che il commercio delle sigarette di contrabbando fosse un’attività criminale, e una volta ha perfino dichiarato: “Io non sono un mafioso, non sono un camorrista. Sono un semplice commerciante di sigarette”. Invece, era addirittura un affiliato di Cosa nostra.

Il quartiere Forcella, Napoli

Un nipote di Zaza, che si farà intervistare da Fabrizio Capecelatro nel libro Lo spallone. Io, Ciro Mazzarella, re del contrabbando (Mursia, 2013) così si esprime: “Ci sono delle circostanze in cui non è possibile selezionare il tipo di attività da svolgere per riuscire a campare. Io ho sempre saputo far bene il mio mestiere di contrabbandiere che mi faceva sentire onesto dentro, anche se andavo contro la legge”. Anche il “re di Forcella” Luigi Giuliano, detto Lovigino, la pensa allo stesso modo, e mentre è latitante dichiara: “A Forcella non è possibile vivere senza trasgredire alle leggi dello Stato. Ma la colpa non è di noi forcellesi, la colpa è di chi ci impedisce di compiere un lavoro normale. Nessuno è disposto, in una qualsiasi azienda, ad assumere uno di noi, ed ecco che noi siamo costretti ad arrangiarci”. Suo fratello Nunzio Giuliano, l’esponente del clan che si dissocia dalle attività della sua famiglia dopo la morte per overdose del figlio e che inizierà un’opera culturale di recupero dei giovani dei Quartieri, così scrive nel libro Diario di una coscienza (a cura di R. Rivieccio e R. Marrone, edito da Pironti nel 2006): “I camorristi di oggi erano bambini 10 anni fa. Bambini che non sono andati a scuola, che non hanno mai potuto giocare, che non hanno altri modelli positivi da imitare. Conoscete qualche camorrista che si è laureato? Io non ne conosco. I camorristi sono tutti analfabeti che pensano di essere potenti e in realtà sono solo vittime”.

Nunzio Giuliano, il prezzo di rinnegare la famiglia

Lo Stato lontano e la miseria vicina

I camorristi parlano, scrivono (e quanti di loro scrivono) operano e si giustificano allo stesso modo: lo Stato lontano e la miseria vicina. Rubare allo Stato quando questo non ti dà altre possibilità è uno dei punti condivisi di un certo sentire popolare di cui l’ideologia camorristica si è impadronita. L’antico conflitto di una parte della società napoletana che si sente “estranea” allo Stato e alle sue leggi viene coltivato e alimentato. Discorso a parte meritano le raccolte di versi di Tommaso Prestieri (La vita, l’amore oltre il muro del 1997, andato a ruba, e Uomini di cristallo, pubblicato da Pironti nel 2005), ex boss di Secondigliano e papà di un talentuoso cantautore napoletano. Nel secondo testo c’è una totale assenza di riferimenti all’universo criminale e carcerario. Scrive Angelo Petrella: “Anche in questa raccolta la letteratura si rivela come il luogo per eccellenza per tentare di cancellare la storia, di domare il tempo, quasi un rimorso lontano”.

La devianza “rivoluzionaria”

Se vogliamo un altro riscontro delle caratteristiche peculiari della camorra ideologica, basta riflettere sul perché a Napoli si è avuto un rapporto così stretto tra camorra e terrorismo, sicuramente non paragonabile a quanto avvenuto in altri territori a insediamento mafioso. A Napoli, camorra e terrorismo si sono incontrati e alleati, anche se non si è trattato di un’alleanza organica, ma fluida. Se la camorra reclutava facilmente i giovani sbandati e dava loro una bandiera, perché non tentare con il terrorismo? Giovanni Senzani, il capo della colonna napoletana delle Brigate rosse che considerava il giovane deviante come un potenziale rivoluzionario, aveva lavorato a lungo come sociologo nelle carceri le quali erano il terreno principale del potere camorristico. E a Napoli l’esperienza originaria del terrorismo, i Nuclei armati proletari (Nap), aveva sempre avuto un riferimento nelle carceri, mischiando nell’organizzazione criminali comuni e terroristi. E furono i Nap a sequestrare nel 1975 il capo del dipartimento delle carceri Giuseppe Di Gennaro.

Dunque, la camorra si rivela un’organizzazione criminale estremamente sensibile e permeabile alle ideologie politiche estreme e, a Napoli, sia quelle di sinistra, sia quelle di destra, hanno storicamente tentato di rappresentare il sottoproletariato e i suoi contraddittori interessi. Emblematica, a tale riguardo, è la figura di Giacomo Cavalcanti, una condanna per omicidio, con un passato di simpatia per il terrorismo rosso, uomo di fiducia del boss Malventi. Cavalcanti ha come suo braccio destro un ex terrorista di destra, Bruno Rossi. Riferendosi a un amico ucciso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, così scrive nel suo libro La rondine da terra non sa volare (Tullio Pironti, 1996): “Lui per me fu il mio eroe e niente e nessuno riuscirà a distruggere la sua immagine. Fu l’uomo che con la sua vita mi insegnò a combattere”, lo stesso amico che gli aveva detto, mentre lo trasferivano dal carcere: “Ci ritroveremo, vedrai, ci ritroveremo sulle barricate della Rivoluzione”. Cavalcanti scriverà poi un altro libro autobiografico Viaggio nel silenzio imperfetto (Pironti 2010) in cui avanzerà una sua ipotesi sull’omicidio di Giancarlo Siani.

Giacomo Cavalcanti, diviso tra terroristi e clan Mariano

Lo jihadismo camorrista

Terrorismo e criminalità organizzata sono stati nel corso della loro lunga storia fenomeni sociali nettamente distinti, radicalmente differenti negli scopi. Il terrorismo, nelle varie forme che ha conosciuto nel tempo, ha sempre motivato la morte che infliggeva agli altri in base ad una ideologia, la criminalità lo ha fatto sempre per interessi materiali: cambiare il mondo per i terroristi, goderne i piaceri per i criminali. Parafrasando la famosa affermazione di Osama bin Laden, i terroristi amano la morte, i criminali amano i piaceri della vita. L’unica cosa che spesso li ha accumunati è la modalità di agire, cioè l’agguato, una tecnica usata per sorprendere i “nemici”, prenderli alla sprovvista così da esporsi ad un minore pericolo di reazione. Sia i terroristi sia i criminali, dunque, si avvalgono di tecniche d’azione poco “onorifiche”, ma dotate di una evidente razionalità: uccidere in agguato serve a eliminare il pericolo che si attivi un terzo attore oltre la vittima e l’aggressore, cioè il testimone, ed evitare così guai e complicazioni penali in caso di denuncia. Per i terroristi, invece, la finalità dell’agguato ha un’altra spiegazione, cioè l’effetto “diffusivo” in base al quale nessuno si deve sentire al sicuro: chi oggi l’ha scampata deve temere ogni giorno che possa capitare a lui.

Via Filippo Rega, quartieri Spagnoli (Napoli)

Lo jihadismo rappresenta un’assoluta novità nella storia del terrorismo politico o religioso: chi lo pratica quasi sempre pone fine alla sua vita nel corso delle proprie azioni assassine, sacrifica la propria esistenza nel toglierla ad altri. Anche i criminali organizzati, e in particolare i mafiosi, hanno sempre messo nel conto la possibilità della loro morte violenta, ma la finalità era sopravvivere agli avversari: morire da vecchi nel proprio letto, dopo una vita di delitti, era la massima espressione del loro potere, della loro forza, e della loro sfida ai nemici. Pertanto, terroristi che si suicidano, o mafiosi che usano la violenza come fine e non come mezzo per raggiungere uno scopo, si discostano dalla tradizione. Non è del tutto azzardato, quindi, il confronto che negli ultimi tempi è stato proposto tra alcune modalità di azione dei terroristi jihadisti e quelle praticate dai giovani camorristi napoletani. Entrambi hanno un rapporto con la morte del tutto particolare: sembrano cercarla mentre la danno, e ne sentono forte la fascinazione. Chi cerca la morte o si fa accompagnare da essa come un’ombra, non ha niente da negoziare ma ha solo da distruggere. Nel caso dei giovani camorristi napoletani, essi vogliono suscitare negli altri la paura e non tanto il rispetto, come avveniva nel passato.

Infedeli e infami

La cosiddetta “stesa” (sparare all’impazzata in un quartiere costringendo i presenti a stendersi a terra per evitare le pallottole) la si può tranquillamente avvicinare ad un’azione terroristica più che ad una modalità strettamente criminale; perciò non è praticata da nessuna altra organizzazione di tipo mafioso. Nei giovani camorristi napoletani c’è in gioco anche una rivolta generazionale verso i capi e al tempo stesso verso la “vita da niente” dei loro genitori, così come in molti jihadisti è presente una volontà di rivolta contro l’acquiescenza dei loro padri.  Essi hanno bisogno di fare qualcosa di notevole che li faccia uscire dall’anonimato, e per questo ideologizzano la loro violenza: è giusto ammazzare gli infedeli, è sacrosanto mettere fine alla vita degli infami. Infedeli e infami sono solo dei “non-uomini”, e per questo non meritano di vivere. E la loro particolare ideologia la pubblicizzano sul web. Scrive Don Winslow: “Prima nascondevano i loro crimini, ora li pubblicizzano. Forse hanno imparato la lezione di Al Qaeda. A che serve una atrocità se nessuno sa che l’hai commessa?”.

Sibillo il “rottamatore”

L’altra cosa in comune è la propaganda delle loro azioni e del loro “credo”. Vantarsi dei loro omicidi e spiegarli è l’ossessione dei terroristi e dei giovani camorristi. Infatti, i profili sociali li avvicinano: sono in genere amici di infanzia o fratelli che danno vita alle cellule o alle gang, hanno commesso numerosi crimini di strada, si sono radicalizzati e motivati in carcere. Sul palcoscenico della città e del web i giovani criminali esibiscono l’unica virtù che pensano di possedere, cioè incutere timore, non avere paura delle conseguenze delle loro azioni, giocare con la morte e con la vita. Insomma, la violenza come offesa, difesa e linguaggio. Ed è la violenza cieca che li trasforma da cosa in persona, e li fa “diventare uomini” fuggendo l’adolescenza. Da che mondo è mondo la radicalizzazione attira soprattutto i giovani. E le forme e le motivazioni possono essere le più disparate: guerre, ideologie, terrorismo o criminalità mafiosa. Chi oggi è disponibile a dare e a darsi morte proviene dai disastri delle periferie di alcune delle grandi città europee (e Napoli è tra queste) e va alla ricerca di un elemento catalizzatore della collera sociale.

Emanuele Sibillo in una comunità di recupero a 16 anni

Nelle retrovie delle città si sono accumulati giacimenti di violenza che trovano sbocco con strumenti e modalità diversi. In alcune parti con il terrorismo, in altre con le baby-gang, a Napoli con la presenza di giovanissimi nei clan di camorra. Sulla cosiddetta “Paranza dei bambini” (la banda di giovanissimi del centro storico di Napoli che per un breve lasso di tempo è arrivata a sfidare i clan più strutturati della camorra) molto si è discusso. Il merito, però, di averne segnalato le caratteristiche originali e dirompenti (e di vicinanza con il terrorismo islamico e con le bande criminali latino-americane) spetta al giudice Nicola Quatrano che così ha scritto in una sentenza:

Sono un gruppo di giovani e giovanissimi, animati da una forte aspirazione di ricambio generazionale negli assetti delinquenziali e, per usare un’espressione oggi in voga, da un progetto di ‘rottamazione’ dei vecchi esponenti di vertice. Essi si mostrano indifferenti al tradizionale concetto di ‘prestigio’, scaturente soprattutto da una lunga permanenza in carcere (magari al 41 bis), dall’appartenenza a famiglie tradizionalmente camorriste e dall’esperienza di vita. Perfino il ‘look’ si distingue da quello del classico camorrista, e assomiglia piuttosto ai modelli che i media sociali hanno reso ‘virali’ in tutte le periferie del globo, quelli – per intenderci – delle gang giovanili o dei cartelli sudamericani della droga. Modelli e stili di comportamento che hanno preso qualcosa anche dall’emergere impetuoso dell’estremismo islamico, sebbene si tratti di una influenza che si è manifestata solo nell’aspetto esteriore (diversi imputati per un certo periodo hanno esibito una folta barba ‘alla talebana’), non certo sul terreno dell’ideologia e della religione. Frutto anche questo, probabilmente, del lavoro dei media sociali, seppure non possa forse escludersi un qualche filo più sottile ed esistenziale, che lega i giovani che scorrono in armi nelle vie del centro storico di Napoli (le ‘stese’), per uccidere e farsi uccidere, e i militanti del jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l’unica chance per dare un senso alla propria vita e per vivere in eterno. È stato il destino di Sibillo Emanuele, la vera mente del gruppo, dotato di intelligenza e di vero carisma, morto ammazzato in un agguato all’età di 19 anni dopo una vita breve e intensissima”.

Emanuele Sibillo nel carcere di Nisida (e poi nella Comunità per minori che lo aveva avuto ospite) dimostrava notevoli capacità di scrittura e aveva più volte manifestato l’intenzione di fare il giornalista. Tornato nel suo quartiere aveva dato vita ad una pericolosissima banda di giovani assassini. In altre condizioni forse avrebbe fatto il giornalista, o forse lo scrittore.


L’autore di questo longform Isaia Sales insegna ‘Storia delle mafie’ all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo primo libro, del 1988, è “La camorra le camorre” (Editori Riuniti). Seguono “Leghisti e sudisti” (Laterza 1993), “Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli” (L’ancora del Mediterraneo 2006). Per Rubbettino ha pubblicato “Storia dell’Italia mafiosa” (2015), “I preti e i mafiosi” (2016) e Storia dell’Italia corrotta” scritto con Simona Melorio (2019). Sempre per Rubbettino ha curato insieme a Enzo Ciconte e Francesco Forgione “l’Atlante delle mafie”. Sua la voce “camorra” per l’enciclopedia Treccani

(tutti i video cliccando il link sotto riportato)

Sorgente: Nella testa della camorra | Rep

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