0 16 minuti 3 anni

Fine della rappresentanza, territori muti, distanza dalle persone. Sono le ragioni profonde del disastro dei dem, le stesse che hanno messo in crisi il sistema. E ora serve una rigenerazione

Ventuno aprile, Natale di Roma, i seggi non si sono ancora chiusi e nel quartier generale dei vincitori già si festeggia. I militanti sono stati convocati in una strada troppo piccola, meglio cambiare, meglio andare in piazza Santi Apostoli. A quell’ora la piazza è già piena di gente, inattesa: sarà sempre così. C’è anche il regista Nanni Moretti, doppiamente felice, è appena diventato padre, inserirà la scena nel suo film di due anni dopo: “Aprile”. Con le bandiere rosse, bianche che sventolavano separate e che ora – finalmente – in questa notte possono incontrarsi, mescolarsi, per dare una vita a un’identità, tutta da costruire, simboleggiata dalle bandiere più numerose, quelle verdi dell’Ulivo. «Governeremo noi. Ma faremo le riforme con gli altri. Non può bastare una maggioranza semplice, a questi cambiamenti deve partecipare tutto il Paese. L’Ulivo è la vera proposta nuova per il Paese», sul palco saluta il vincitore, Romano Prodi. Partono, di nuovo, le cornamuse dell’inno scelto per la campagna elettorale, l’attacco corale, la voce di Ivano Fossati: «Alzati che si sta alzando la Canzone popolare…».

Ventuno aprile 1996. Sono passati venticinque anni, un quarto di secolo, dall’ultima vittoria elettorale del centro-sinistra italiano, l’unica, perché nel 2006 la seconda volta assomigliò a una sconfitta. La vittoria dell’Ulivo fu qualcosa di più di una semplice affermazione elettorale. Fu la nascita di un nuovo soggetto politico, imprevisto perfino per i vincitori. Con un mito fondativo, l’Ulivo, che andava oltre i singoli partiti che lo componevano, li assorbiva, li superava, con un progetto per il Paese: politico, istituzionale, culturale. La ricostruzione delle fondamenta civili della Repubblica, che nel 1996 festeggiava i suoi cinquanta anni di vita e in questo 2021 i settantacinque.

Tutto quello che sta succedendo in questi giorni misura la distanza da quel tempo. Le vittorie, le sconfitte, le cadute, le resurrezioni e le rese dei conti tra i capi del centrosinistra. E poi traslochi, transumanze, porte sbattute, palchi smontati e rimontati, scissioni, addii, tradimenti, vendette, come in una tragedia, o in una commedia. Le piazze sono vuote, non soltanto per il divieto di assembramento effetto della pandemia. Le passioni politiche sembrano spente. Il Partito democratico, erede dell’Ulivo, è finito intrappolato nella crisi del sistema politico che ha provocato la nascita del governo di Mario Draghi. E dunque di questo converrà parlare, prima che dall’abbandono a freddo di Nicola Zingaretti, scioccante per la modalità e per l’esito (il Boh della nostra copertina, che lo aveva fatto tanto arrabbiare, si è risolto in un Vaffa, un sentimento di vergogna per il proprio partito), l’8 settembre del Pd (di nuovo? Di nuovo) con la fuga dei dirigenti che lascia indifese le truppe sui territori, le sardine che occupano, Beppe Grillo che si candida, il senso del ridicolo perduto, la caccia al successore con l’inseguimento della donna alla segreteria e poi del padre nobile, del fratello maggiore, del Draghi del Pd, individuato infine in Enrico Letta, che fu il più vecchio dei giovani e e il più giovane dei vecchi, erede di un antico progetto di democrazia compiuta, in Italia e oggi in Europa.

 

L’emergenza del Paese è oggi interrompere la spirale della paura da Covid-19. Di più: spezzare l’espansione dell’incertezza che imprigiona ogni attività, economica, sociale, culturale, perfino esistenziale, l’impossibilità di fare progetti e previsioni di tempo lungo che in questo anno ha schiacciato tutti sull’orizzonte breve della sopravvivenza. Il governo Draghi non è la soluzione, è l’inizio di una risposta. Ma perché abbia possibilità di riuscita serve un sostegno organizzato nel Paese. Un sostegno critico di quella parte di società che ha a cuore le ragioni della stabilità e dell’innovazione, ma anche della solidarietà, della coesione sociale, del bene pubblico. Servono partiti immersi nella realtà di ogni giorno, mancati in tutti questi anni.

La Costituzione repubblicana assegnava ai partiti questo ruolo: portare la società nelle istituzioni dello Stato, e viceversa. La neonata democrazia italiana si è fondata sui partiti di cui parla l’articolo 49 della Costituzione. Un meccanismo perfetto: ma senza i partiti si sarebbe bloccato tutto l’ingranaggio. È quello che è successo con la crisi della Repubblica dei partiti, trent’anni fa, prima delle inchieste di Mani Pulite, e dopo il rapimento e all’omicidio di Aldo Moro che ricorderemo il 16 marzo. «Il problema non è quello di far nascere una “seconda repubblica”, bensì quello molto più complesso del passaggio da una “repubblica dei partiti” a una “repubblica dei cittadini”: tanto più arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo istituzionali», scriveva lo storico Pietro Scoppola nel suo libro “La Repubblica dei partiti”, pubblicato dal Mulino nel 1991. Senza questo cambiamento, aggiungeva, la Seconda Repubblica sarebbe stata «un travestimento del vecchio ordine, più che una premessa di una nuova realtà». Parole profetiche.

L’Ulivo, nella versione originale 1995-96, fu il tentativo originale di sciogliere i nodi più urgenti, che l’alba del berlusconismo aveva ancor di più aggrovigliato. Ricostruire. Riscrivere il rapporto tra i partiti e la società civile, con il modello organizzativo delle primarie, tra il governo nazionale e l’Europa, con una classe dirigente europea ma forte del consenso popolare, tra le culture antiche del riformismo e la necessità di rinnovarsi, tra i laici e i cattolici, con la costruzione di una identità e di un linguaggio comune. Quel tentativo fu stroncato, con una certa violenza politica. E quando nel 2007 nacque il Partito democratico di Walter Veltroni l’operazione era ormai tardiva. «Crisi di identità e questione democratica, determinismo e libertà, paura e speranza di futuro, solitudine e amicizia, sono le dicotomie su cui il partito nuovo dovrebbe costruire la sua identità», consigliava Scoppola, in una delle relazione introduttive del convegno di Orvieto, il 7 ottobre 2006, la genesi del Pd, denunciando il ritardo del progetto rispetto al vento crescente dell’antipolitica: il Vaffa day di Beppe Grillo era arrivato un mese prima, nessuno ne aveva capito la portata. «È in crisi anche la democrazia americana. Ha radici profonde, ma il suo disagio è evidente e sintomatico», avvertiva Scoppola, dieci anni prima dell’elezione di Donald Trump.

Qualche mese dopo, poco prima di morire, la sua delusione era già profonda: «Non credo alla formuletta dei riformismi che si incontrano perché di riformismo in questo paese ce ne è stato poco per decenni. Il riformismo italiano più che una espressione di grandi e forti tradizioni politiche è stato un fatto di élites illuminate. Il Pd ha radici profonde nella storia del Paese o è una invenzione estemporanea, senza radici e perciò senza futuro?».

A questa domanda i capi del Pd che si sono alternati alla guida hanno dato la risposta più rassicurante (per loro). Gli eredi del Pci hanno abbandonato la società e si sono rifugiati nel governo, dopo decenni di opposizione. Gli eredi della sinistra democristiana si sono ricollocati nel notabilitato, al punto di passaggio di qualsiasi manovra: Dario Franceschini è l’unico ex segretario del Pd rimasto nel partito su sette (di Zingaretti ancora non si sa), decisivo anche in questo passaggio. Governare a tutti i costi, con qualsiasi formula, di qualunque colore. Senza vincere le elezioni, senza un corpo a corpo con la società. In ottima compagnia nel resto del sistema politico: alla crisi dei partiti i nuovi leader hanno replicato o con il sincretismo, siamo tutti uguali, non c’è più destra né sinistra, tutti possono stare con tutti indistintamente, oppure al contrario, con il tenere in vita, per comodità di collocazione, le schegge deteriorate della vecchie appartenenze: gli ex comunisti, gli ex democristiani, ma anche i liberali immaginari, i padani, i sovranisti, i post-fascisti. Ancora, sperimentare il nuovo, nelle sue varie versioni.

La versione tecnocratica, figlia del pensiero unico mercatista, la più subdola delle ideologie perché travestita da pragmatismo. La versione populista e sovranista, siamo tutti uguali perché rinchiusi negli stessi confini nazionali, chi li vuole oltrepassare è un nemico del popolo. La versione direttista, la democrazia diretta della Rete che trasforma le persone in api in un alveare, secondo i dettami del capitalismo della sorveglianza (Shoshana Zuboff). Sembrano strade opposte, ma non lo sono. Perché sono ideologie, senza linfa democratica, senza partito.

Arrivati a questo punto, alla legislatura più folle della storia repubblicana, il sistema ha fatto crack. E a crollare è stato il partito più partito di tutti, il Pd. Nella cui biografia accidentata c’è il riassunto di tutti i mali di cui soffre la democrazia italiana. Fine della rappresentanza. Impossibilità per i territori di far sentire la loro voce. Disprezzo per i deboli. Assenza di voce per i non tutelati, i non garantiti, in crescita esponenziale. L’illusione che basti la comunicazione a sostituire il rapporto perduto con la società e con il popolo: da questo punto di vista, la scomposta comparsata di Zingaretti da Barbara D’Urso e l’occupazione studentesca delle Sardine in largo del Nazareno a favore di telecamere sono una velleità speculare, un inseguimento dello spirito del tempo, un conformismo travestito da rottura. L’ego dei leader (tutti maschi) che pretende di sostituire la fatica delle costruzioni politiche: il culto della celebrità, l’ansia di imbucarsi nel ristretto club mondiale di ricchi e potenti per diventare uno di loro, è la ragione profonda dei viaggi negli Emirati Arabi di Matteo Renzi, prima ancora che le consulenze e gli affari. La confusione tra la fine e il fine, di cui parla padre Francesco Occhetta: se perdi il fine del tuo agire, prepari le ragioni della tua fine.

Il governo Draghi è un potente acceleratore dei processi di decomposizione in atto da tempo, perché l’unità nazionale mette tutti i partiti di fronte alla necessità del loro cambiamento. Le sfide sono le stesse di venticinque anni fa. Il rapporto tra società, partiti e Stato, il vecchio Stato nazionale, il nuovo Stato che si chiama Europa. L’innovazione e la coesione. Le riforme e il consenso, perché le riforme non sono un affare delle élites ma del popolo, così si caratterizza il riformismo di sinistra.

Si può dare a questa spinta una soluzione trasformistica e di arrocco sui propri territori, come ha fatto la Lega, o riconfigurare la propria presenza come si fa con una app, come sta facendo Beppe Grillo con il Movimento 5 Stelle. Oppure ricominciare da capo. La Rigenerazione.

Il destino di Enrico Letta è circolare. Ha studiato una vita per diventare premier, nel 2014 fu estromesso da Palazzo Chigi dopo nove mesi con un colpo di Palazzo architettato dai suoi compagni di partito e dai suoi amici. Dal tweet con l’hashtag #enricostaisereno alla defenestrazione del governo non passò neppure un mese. Renzi si intestò un capolavoro di slealtà politica e personale, incontrando sulla sua strada come unico ostacolo al momento di comunicare la cacciata a Letta una macchina che usciva in senso contrario dal retro di Palazzo Chigi e che costrinse a fare retromarcia la Smart blu guidata dal deputato Ernesto Carbone, per inciso un ex fedelissimo di Letta. Nessuno lo difese: nella direzione del Pd l’unico a votare in sostegno del premier uscente fu Pippo Civati, tutti gli altri lo mollarono e si schierarono con Renzi. I renziani con Lorenzo Guerini, certo, e poi i dalemiani, i bersaniani, con il capogruppo alla Camera Roberto Speranza. In prima fila, Andrea Orlando a nome della Ditta e l’amico personale Dario Franceschini. Furono gli unici due ministri del Pd a essere confermati nel passaggio dal governo Letta al governo Renzi, anzi, promossi: dall’Ambiente alla Giustizia Orlando, dai Rapporti con il Parlamento alla Cultura Franceschini. Sono ancora oggi entrambi ministri, con Draghi. E sono tornati a sponsorizzare Letta, questa volta contro Renzi… è il cerchio della vita.

Tutto questo Letta lo sa bene, una consapevolezza che ha contato sulle sue esitazioni e sulla sua scelta. Nel suo percorso ci sono la sinistra democristiana, Beniamino Andreatta e i suoi amici Leopoldo Elia e Sergio Mattarella, Romano Prodi, l’addio alla politica e l’insegnamento a Parigi, a Sciences Po.

Sintonizzato su un Pd modello Ulivo. Ma Letta sa anche che al Paese non serve un nuovo, segretario del Pd, l’ennesimo, ma un nuovo partito per una nuova Italia e una nuova Europa. Un partito che vada oltre l’attuale Pd, ormai esausto, logoro, irrecuperabile. Un partito fuori dal sinedrio asfittico dei capicorrente che governa largo del Nazareno. Con le molte energie mortificate all’interno: i territori, gli amministratori locali, i quarantenni formati e cresciuti alla politica negli anni dell’Ulivo, per il cui coinvolgimento Zingaretti non si è speso, così come le donne, ancora una volta utilizzate dagli uomini del partito per fare da supplemento d’anima e poi tradite. E molte altre energie esterne: i trentenni e i ventenni che frequentano la Scuola di Politiche nella summer school di Cesenatico e nel resto dell’anno, talmente funzionante da essere imitata perfino da Renzi. I movimenti all’esterno del Palazzo, di accoglienza, di autogoverno, di tenuta sociale. I giovani esclusi che non sono rappresentati da nessuno. Le nuove imprese. L’ambientalismo, di cui parla Rossella Muroni sull’Espresso.

Nella battaglia contro la pandemia e per l’approvazione del Piano di Ripresa c’è un Paese privo delle infrastrutture, delle interconnessioni della democrazia. Una sfida che investe in pieno il Pd o quel che verrà. Si gioca su questo il passaggio dei 75 anni della Repubblica italiana, fondata sulla partecipazione e sui partiti e poi, dunque, su nulla.

Chiamiamo il nuovo partito Aprile o Due giugno o come vi pare. Importante che sia plurale, non subalterno al presente e ai poteri che ne sono espressione, non appiattito sul governo perché la società è più larga dei ministeri. Che sia riformista e di sinistra, come l’Ulivo di venticinque anni fa. Serve una nuova Canzone. Popolare.

Sorgente: Al Paese non serve un nuovo segretario del Pd. Serve un nuovo partito. Plurale e aperto – L’Espresso

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20