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Emigrazione. Il 17 marzo di 130 anni fa 600 migranti italiani diretti in America furono inghiottiti dal mare al largo di Gibilterra. Il piroscafo con il quale erano partiti da Napoli si chiamava «Utopia»

Gianni Palumbo

Una traversata transoceanica tra le tante di quel periodo in cui l’emigrazione rappresentava un’opportunità o una necessità tra gli europei che si muovevano verso le Americhe e una feconda attività per le compagnie di navigazione; ma quella del piroscafo Utopia, del 17 marzo del 1891, si concluse prima di varcare le colonne d’Ercole, in un tragico naufragio che costò la vita a quasi 600 persone, emigranti, viaggiatori di terza classe.

DALLE SENTENZE DI QUELLO che fu uno tra i più lunghi processi del XIX secolo, emerge chiaramente che vi fu un difetto nella quantità di carbone che avrebbe costretto il piroscafo a fermarsi quella notte, prima di affrontare l’oceano aperto. Pare che a bordo, alla partenza, ci fossero circa 120 tonnellate di carbone e che all’arrivo in prossimità di Gibilterra il capo macchinista riferì al comandante che vi erano rimaste sette tonnellate e che quindi sarebbe stato indispensabile fermarsi per fare rifornimento.

SECONDO LE LEGGI della navigazione del tempo alla partenza occorreva avere una quantità di carbone superiore di un quinto alle necessità del viaggio più lungo. Tenuto conto che all’Utopia occorreva un tempo medio variabile da 12 a 15 giorni per effettuare un viaggio ordinario da Napoli a New York, e che per ogni giorno di navigazione servivano in media 24 tonnellate di carbone, sarebbero state utili, mediamente dalle 288 alle 360 tonnellate (più un quinto come scorta obbligata).

GLI ATTI PROCESSUALI furono però ben presto arginati dalla cronaca e col passare del tempo è rimasta solo la narrazione, anch’essa labile e discontinua, di una delle più incredibili tragedie del mare.

IN QUELLA TRAVERSATA vi erano a bordo 880 persone, 59 delle quali costituivano l’equipaggio (ufficiali e sottufficiali rigorosamente britannici). Tre i passeggeri di prima classe, tutti gli altri di terza. La seconda era stata tagliata, per far spazio alla terza, dalla politica di navigazione della compagnia britannica Anchor Line alla quale apparteneva il piroscafo Utopia.

IL VIAGGIO DA NAPOLI a Gibilterra durò cinque giorni, mediamente sarebbe bastato un giorno in meno per la traversata del Mediterraneo. Ma in quella fine d’inverno del 1891, per via di forti venti di prua e mare frequentemente in tempesta, si faticò non poco. Sarebbe stato pertanto opportuno fare rifornimento e ancorare nella rada aperta del porto mercantile situato oltre il porto militare riservato alle sole navi della Regia Marina Inglese. Appena il Capitano John McKegue si ritrovò oltre Punta Europa, poco dopo le 18, col buio che divenne sfondo prevalente alla tragedia, s’accorse che all’ingresso del porto la presenza di due corazzate, la Anson e la Rodney, avrebbe reso il cammino appena intrapreso piuttosto pericoloso.

Giornale dell’epoca

ERANO CORAZZATE dell’Ammiraglio Seymour quelle ancorate nel porto militare di Gibilterra, due enormi macchine da guerra. McKegue valutò sufficiente lo spazio tra la Anson e la punta del molo e ordinò di passare rapidamente per cercare ancoraggio dietro la poppa delle navi da guerra. Tutto avvenne mentre lo scroscio della pioggia, intenso e potente, riduceva la visibilità a cui contribuì il disturbo di fasci luminosi di luce elettrica provenienti dai riflettori posti sui ponti delle altre navi ancorate nel porto militare. Pare che l’Utopia oltrepassò senza grandi problemi con la prua la punta dell’Anson ma giunta a tre quarti del passaggio, complice lo sballottamento dei marosi, l’ariete sottomarino della corazzata sventrò il piroscafo con un taglio deciso, ampio, provocando uno squarcio laterale, verso poppa, di alcuni metri. In un primo tempo si pensò che l’urto fosse dovuto all’elica impigliata nelle catene della nave, ma nel giro di pochi minuti la poppa del piroscafo imbarcò tanta acqua che la camera delle macchine risultò subito completamente inondata. La poppa affondò facendo inclinare spaventosamente la nave di oltre 60 gradi, causando un vero e proprio sbandamento. In cinque minuti rimase fuori solo la prua col sartiame.

DA UN RESOCONTO del disastro (apparso sul quotidiano americano Indiana State Sentinel), subito divenuto minoritario tra le cronache del tempo, pare che l’incidente potesse essere attribuito al fatto che la corazzata Anson stesse andando alla deriva prima della burrasca e che – così facendo – speronò l’Utopia a poppa.

DOPO L’URTO CON L’ARIETE metallico sottomarino, sporgente dalla prua, pare che l’Anson abbia invertito i motori, il che l’ha portata a retrocedere dal piroscafo, che subito dopo è affondato sotto le onde amplificate dalla manovra della corazzata imbarcando acqua dallo squarcio di poppa. La manovra di McKegue risultò azzardata e giustificata, probabilmente, solo dalla necessità di scegliere una via breve per ancorare nel porto data la mancanza di carbone. In vista del molo il capitano avrebbe dovuto ben comprendere come «aprire il porto» prima dell’ingresso del piroscafo, studiandone tempi e modalità, probabilmente facendo un giro più lungo rispetto a quello breve scelto per opportunità o per necessità impellente.

LA SCENA DOPO LA COLLISIONE, raccontata dai sopravvissuti, è probabilmente una delle più cruente nella storia dei disastri marittimi. Il piroscafo affondava, gli emigranti facevano riecheggiare, nella tempesta, appelli di aiuto e grida di terrore, presagio della morte che li attendeva nelle acque scure e arrabbiate della baia di Gibilterra. Nuvole basse, cariche d’energia, si muovevano furiosamente, scaricando acqua, spinte dalla forte burrasca di sud-ovest che era stata una concausa della calamità.

IL PEGGIO DOVEVA ANCORA verificarsi: dopo circa quindici minuti dal momento in cui l’Utopia si inclinò paurosamente, non consentendo nemmeno di calare in mare le scialuppe di salvataggio, con un ultimo e forte scossone il castello di prua fu sommerso e affondò con il suo carico umano, in parte ancora negli alloggi vicini alle stive, e in parte aggrappato intorno a tutto ciò che emergeva a prua. Nell’affondare il piroscafo trascinò centinaia di persone vive in fondo al mare. A decine provarono a salvarsi in un ultimo, disperato, tentativo e molti di coloro che si erano tuffati in mare vedendo che il piroscafo non poteva galleggiare, poco dopo furono trascinati nel vortice causato dall’affondamento dell’Utopia.

ALTRI, PIÙ FORTUNATI, riuscirono ad aggrapparsi a pezzi di rottami, longheroni galleggianti, boccaporti, natanti, mantenendosi così a galla fino al salvataggio da parte delle scialuppe calate dalle navi da guerra. Pare che alcuni bambini si aggrapparono ai loro genitori così freneticamente che, in diversi casi, causarono la morte di entrambi. Fortunatamente gli alberi -che prima della trasformazione a vapore montavano le vele- tennero e rimasero alcuni metri sopra l’acqua mentre la nave toccava il fondo. Circa quaranta o cinquanta persone furono salvate dagli alberi. Poco più di 300 i sopravvissuti oltre la metà dei quali rientrarono a Napoli, una settimana circa dopo la permanenza a Gibilterra, gli altri proseguirono per New York con un altro vapore della compagnia britannica.

NELLA CAUSA CIVILE IL POOL di legali a difesa degli armatori e della stessa compagnia Anchor Line comprendeva, tra gli altri, il già Presidente del Consiglio dei Ministri, Francesco Crispi. A difesa delle famiglie dei naufraghi e dei sopravvissuti il deputato lucano, più volte Ministro in vari Governi, Emanuele Gianturco. Uno scontro legale di enorme portata, preceduto da un dibattito diplomatico. Ma la Corona britannica ebbe con ogni evidenza la necessità di non creare un precedente significativo per i disastri marittimi con un elevato numero di vittime. Il risarcimento, dopo tanto tempo, fu come un piatto di lenticchie rispetto all’evidenza delle colpe e delle mancanze della compagnia di navigazione e degli armatori del piroscafo, gli Henderson Brothers.

QUEL NAUFRAGIO dimenticato, quei bambini, quelle donne, quegli uomini inabissati a Gibilterra, anticipavano di molti anni il dramma ben più noto del Titanic. Ma si sa, la terza classe non fa rumore, la memoria s’offusca subito per i diseredati, per gli ultimi di ieri e di oggi, costretti a partire.

Sorgente: 1891, quando i naufraghi eravamo noi | il manifesto

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