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(di Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano)

Ricordate la scena dei parlamentari sculacciati da Giorgio Napolitano come scolaretti (“sordi”, “inconcludenti”, “irresponsabili”) eppure felici e plaudenti davanti alla ramanzina presidenziale?

Era il 23 aprile 2013, giorno dell’irrituale (e incomprensibile) insediamento bis di Giorgio Napolitano, chiamato a salvare la patria dalle forze politiche incappate nel cortocircuito dell’elezione quirinalizia. Quel momento, uno dei più tristi della nostra recente storia, ci è tornato in mente in questa ultima settimana di crisi di governo, a causa delle parole di un altro presidente della Repubblica. Sergio Mattarella ha chiesto ai partiti di sostenere il tentativo di Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo: “Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.

L’ora è grave. Non per Mario Draghi in sé, ma per la nostra democrazia, mai così maltrattata. Le parole di Mattarella (che come quelle del suo predecessore possono, e anzi devono, essere oggetto di analisi critica anche se non sembra più possibile farlo) suggeriscono che “l’alto profilo” sia in contrapposizione con la “formula politica”. La qual cosa si traduce in una delegittimazione, non priva di pericoli, della democrazia rappresentativa. Senza dire che l’idea di un governo tecnico, inteso come neutrale, è una pia illusione. Ogni scelta è politica (lo è stata, eccome, anche quella del whatever it takes) e nessun governo può prevedere quale realtà dovrà affrontare. Per fare un esempio, una pandemia di queste proporzioni non era in alcun modo preventivabile. Dunque i governi decidono e incidono sulla realtà sociale, per come si manifesta in quel momento. Un’altra idea tossica è quella della tecnica neutra (su cui Emanuele Severino, pur non riferendosi certo alla politica, ha speso parole sagge e previdenti): una bugia divenuta incontrovertibile verità. Le forze politiche di forte non hanno più nulla, visto il sollievo con cui hanno accolto un “governo senza colore” (nell’Italia dei colori pandemici!). Non dimentichiamo che gli esecutivi svincolati dal consenso popolare hanno lasciato segni poco popolari e per nulla neutri.

L’implicita contrapposizione tra competenza e politica ha già fatto danni incalcolabili: il dibattito pubblico è ostaggio di un revanscismo livoroso e pericoloso verso i rappresentanti del popolo (dunque, del popolo) che si specchia nell’estasi con cui ci riferisce ai nuovi salvatori della patria. Come se il popolo non fossimo noi tutti, destinatari di una serie di diritti e doveri politici, protagonisti dell’autodeterminazione che si esprime con il voto.

Il popolo viene citato solo nell’accezione dispregiativa (il “populismo” dei talk show). Arrivano “i migliori”: ma migliori di chi? Del popolo e dei populisti, di elettori ed eletti. Siamo sicuri che sia un bene far passare l’idea che ci può salvare solo un’aristocrazia affrancata dal popolo? Mentre i leader dei partiti si affannano a invocare il governo dei migliori sembra non si rendano conto che l’altro termine della comparazione sono loro: i peggiori. Abbiamo dovuto leggere che gli ottimati sono una reazione “all’uno vale uno”. È vero, la democrazia è esattamente questo: una testa un voto, non ci sono voti che valgono di più. La nostra Costituzione è tutta fondata sul principio di uguaglianza che ora si rinnega senza imbarazzi. Perché “non c’è alternativa”, perché “sennò vince Salvini”. Non è vero: un’alternativa c’è sempre. Magari non è la “migliore”, ma è di tutti, anche di quelli che sono peggiori e di quelli che si sentono, inspiegabilmente, migliori (per lo più scrivono sui giornali). La democrazia ha bisogno di tutti, e va difesa whatever it takes.

Sorgente: Viva la democrazia, abbasso l’aristocrazia (“whatever it takes”) – infosannio

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