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I meno giovani se le ricordano di certo quelle domeniche degli anni ’70: la riscoperta dell’Arcadia felix ben prima della decrescita di Latouche e del lockdown, con i residenti di Monte Mario che scendevano a valle  griffati Cenci come  country gentlemen  del Devonshire  o i cumenda di San Babila a  pedalare sudando per Corso Vittorio Emanuele atticciati nelle giacche di fustagno  prese da Beretta in Galleria.

Già allora per dare dignità cosmopolita a certe bricconate  si ricorreva all’inglese e infatti anche a Testaccio o al Giambellino l’edificante contributo di tutti al sacrificio nazionale venne denominato “austerity”.

Il padre delle restrizioni penitenziali con blocco della circolazione privata, caloriferi spenti, illuminazione stradale su misura per scippi e furti, passato alla storia appunto come il “profeta dell’austerità”,   fu Ugo la Malfa, leader repubblicano presente in Parlamento ininterrottamente dal 1945 fino alla morte nel 1979, più volte autorevole esponente di governo, incaricatosi già dalla Costituente di farsi arcigno portavoce delle più scomode verità. E in questa veste testimonial della doverosa quanto necessaria pubblica deplorazione delle altrui dissennate dissipatezze, quelle dei sindacati che pretendevano troppo, quelle dei partiti che concedevano troppo, quelle delle istituzioni che, diceva,  “spendono troppo, proprio come i cittadini, molto più di quanto possano permettersi”.

Mentre in casa invitava i Ministri del Tesoro a imporre drastici tagli alle spese dello Stato e regioni comuni province e enti pubblici a fare altrettanto “imprimendo un severissimo calo delle uscite per servizi”, in Europa si prodigava per demolire  l’immagine del Paese, anticipando e consolidando la narrazione di una nazione stracciona, velleitaria, provinciale, intemperante e infiltrata da illegalità e corruzione, affetta da incompetenza e pressapochismo, e che doveva in ragione di ciò essere criminalizzata, penalizzata e punita perché apprendesse a viva forza le regole necessarie all’ammissione tra i Grandi.

E pensare che in tutti quegli anni il suo partito rappresentava non più del  2% dell’elettorato, ciononostante fu un formidabile influencer negativo:  la presa del suo messaggio catastrofista e la risonanza internazionale della sua visione che peroravano l’obbligatorietà di un’autorità di alto profilo con funzione  correzionale e rieducativa collaborò a accreditare l’inaffidabilità di uno stato assistenziale, ingiustificatamente prodigo con i suoi bilanci veri o gonfiati, e a legittimare interventi esterni tesi a limitare la sovranità nazionale, spacciando per pura ingerenza anche quei vincoli imposti dall’Ue ma che  sono stati sollecitati e poi  accettati di buon grado dalla classe dirigente che se ne serve per circoscrivere gli spazi della lotta per i diritti e la piena cittadinanza.

La sindrome del nemico in casa che esalta i vizi italici per conquistarsi la fama di virtuosa estraneità dalla politica non è nuova e da sempre aiuta il crearsi di una falsa coscienza illuminata che raccomanda l’esercizio di un ipocrita distanziamento virtuoso dai vizi popolari.  Precede gli inevitabili effetti, dalla reclamata discesa in campo di tecnici (non consisteva in quello il Governo Ciampi?), alla delega in bianco a organismi commissariali extra e sovraparlamentari e poteri separati con funzione di spauracchi,  grazie all’affermarsi di due potenti “valori” che nella loro applicazione contemporanea si sono dimostrati incompatibili con la pratica democratica: competenza e merito.

Due è meglio di uno e infatti le due retoriche si combinano. A forza di credere che le magnifiche sorti del progresso: istruzione, informazione, tecnologia  permettano a chiunque, senza distinzioni di etnia, genere, e  condizioni socio-economiche di partenza, di avere successo, di arrivare fin dove il proprio talento e l’impegno personale permettono, ci hanno fatto dimenticare che l’ascesa nella scala del successo è inversamente proporzionale alle differenze, che la mobilità   verso l’alto è più bassa proprio dove ci sono maggiori disuguaglianze, come nel Paese che ha creato la saga del self made man e del signor Smith a Washington.

E difatti l’impegno, premiato dall’affermazione, è determinato  da fattori che riguardano la nascita e poi l’appartenenza a cerchie che ne permettono lo sviluppo, dinastia, studi, perfezionamento, buone conoscenze, affiliazione remunerata. E lo slogan dell’immeritato Premio Nobel per la Pace “you can if you try” (se ci provi ce la puoi fare), subito mutuato da altro prestigioso orfano nostrano di altissimo dirigente Rai promosso da praticante a direttore dell’Unità,  rivela un retropensiero infame, che cioè  se non ce la fai è perché non c’hai provato abbastanza, sei uno sfigato condannato alla marginalità.

Altrettanto vale per il concetto di competenza che negli anni ha sempre più significato un cursus studiorum, un curriculum e una carriera finalizzati a esperienze e specializzazioni  funzionali alla conservazione e trasmissione dei principi e delle regole dell’establishment, tali da consentire l’accesso a posizioni inviolabili e sempre più vietate agli “estranei” di una selezione di oligarchi al servizio di oligarchi di più alto grado, la cui reputazione è consolidata grazie alla conformità di censo, istruzione, esperienza professionale e valori rispetto all’ideologia imperiale.

Ovviamente il loro prestigio, la loro autorità si valorizzano e crescono man mano che si afferma l’inferiorità antropologica, sociale, culturale e morale di quelli sui quali eccellono, oggetto del loro supercilioso disprezzo e della loro arrogante riprovazione.  E l’effetto più avvilente di questa pratica di demolizione di identità, dignità, spirito di comunità è che quelli in basso vogliono conquistare l’opportunità di mangiare dalle loro mani, il privilegio di ammirarli e riverirli, l’onore di inchinarsi e uniformarsi alla loro mentalità, accondiscendendo e assoggettandosi per conquistarsi il titolo di sudditi responsabili e eticamente  accettabili.

Chi si ribella viene automaticamente arruolato nelle file populiste e sovraniste grazie ai criteri del politicamente corretto  stabiliti da Landini che confida in Draghi, dai reduci delle liste Tsipras che dopo aver creduto di riformare l’Europa dall’interno adesso pensano di riformare il bancario, dalle patetiche pezze a colori di Leu e simili che invocano vibratamente  il Recovery  Fund per avviare le riforme, come se in questi ultimi venticinque anni non ne avessimo avute fin troppe, dal “Pacchetto Treu” alla 30/2003, dalle leggi e leggine di Sacconi, al “Jobs Act”, dalla Buona Scuola alle semplificazioni, a quelli che pur avendo letto la famosa lettera a 4 mani, l’omelia a Comunione e Liberazione, le interviste esplicite e le ricette del G30, aspettano che il grande timoniere ci porti fuori dalla tempesta, anche  se ci disprezza, ci schifa, ci oltraggia e schernisce.

In fondo ha già vinto il Covid, ammansito la Bestia, conquistato il Riottoso, blandito il Padrone, mica vorrete anche che vi ami, per giunta.

(Anna Lombroso per il Simplicissimus)

Sorgente: Profeti e sacerdoti del Male – infosannio

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