0 8 minuti 3 anni

 

Poche reazioni e sconforto dopo che il Tar ha deciso la chiusura dell’area a caldo

TARANTO – “Riva boia”. “Tumori e disoccupazione made in Ilva”. “Salute vince lavoro”. “Diossina ti odio”.  Parlano i muri di Taranto. Ma anche loro hanno la voce rauca del tempo e della malattia: sono rosa come la polvere dei minerali che volano (volavano) dalle montagne del siderurgico.

Scrostati da dieci anni di battaglie, indeboliti dal tempo, anche i murales sembrano aver preso la forma di quello che sta succedendo a una città che sembra non aver più voglia di tifare, e forse nemmeno di lottare: c’erano gli operai che campavano grazie all’acciaio e quelli che morivano per colpa dell’acciaio, sembrava che la dicotomia tra due diritti, la salute e il lavoro, fosse destinata a rompere tutto, e non a caso qui era nato il primo re dei populisti, Mario Cito.

C’era la frase che sentivi ovunque, a Roma e a Bari, “Taranto sta per scoppiare”. C’era rabbia e paura. E invece ora tutto questo non c’è più. Che c’è ora? «Rassegnazione, disincanto» dice Giuseppe Romano, operaio e delegato della Fiom, una delle menti pensanti della fabbrica. «Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i nostri parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell’azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa».

 

«Oggi – spiega un uomo della polizia giudiziaria che sta contribuendo a scrivere la storia di questa città – mi ha chiamato un mio amico, che è un operaio dell’Ilva: “Che altro è successo?” Mi ha chiesto. Gli ho detto, “eh, Enzo, forse succede qualcosa questa volta”. Mi ha risposto: “Ancora, qui non succede mai un ca..o”. Silenzio. “Oggi per la prima volta ho pensato che, forse, tiene ragione».

 

Era l’estate del 2012 quando sembrava che tutto dovesse cambiare. I Riva furono arrestati, gli impianti messi sotto sequestro. Per la prima volta un giudice aveva messo nero su bianco che Taranto era nera – nel senso del cielo, inquinato – e lo era per colpa delle emissioni del siderurgico. Nero era anche il presente e il futuro dei suoi cittadini: si ammalavano più del resto dei pugliesi, e sarebbe accaduto ancora per chissà quanto. “Danno sanitario” si chiama. Sembrava dovesse cambiare tutto.

E in effetti tutto è cambiato: via i Riva e dentro lo Stato. Via lo Stato e dentro Arcelor Mittal, anzi no, ora di nuovo dentro lo Stato. Si sono alternati alcuni dei più importanti “capitani coraggiosi” italiani, il prefetto Bruno Ferrante, manager come Enrico Bondi, Enrico Laghi, Piero Gnudi, ora Lucia Morselli. Sono passati governi come automobili su un’autostrada – Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II, ora Draghi. I Presidenti del consiglio (Conte) hanno partecipato ai consigli di fabbrica o sono scappati (Renzi) davanti ai contestatori.

 

È stato detto: «Se vinciamo, chiuderemo il mostro» (Di Battista) e «Abbiamo vinto, ma non possiamo farlo» (Di Maio) . Hanno arrestato un procuratore della Repubblica, Carlo Maria Capristo, ora in pensione e sotto processo; mentre quello precedente, Franco Sebastio, dopo la pensione si è invece candidato alle elezioni, senza fortuna.

 

Un processo, anzi IL PROCESSO, quello sul disastro ambientale, è cominciato ma non si è arrivati ancora alle richieste di condanna. In primo grado. Nove anni dopo. Per concludere, è bene annotare che tutto questo è costato 23 miliardi di Pil secondo un calcolo del “Sole 24 ore”, l’1,35 per cento della ricchezza nazionale; si è speso quasi un miliardo di euro, tra opere di ambientalizzazione (come la mastodontica copertura dei parchi minerari), ammortizzatori sociali, compensi agli amministratori. E altri 400 di soldi pubblici sono pronti a essere investiti perché Invitalia sta per entrare nel capitale e affiancare Arcelor Mittal: il provvedimento è alla firma del Mef, ma ora chissà cosa accadrà.

Sì, perché in questi nove anni è successo tutto questo. Ma quando si è partiti c’era una fabbrica che inquinava e ventimila operai che rischiavano il posto di lavoro. E oggi c’è sempre una fabbrica che inquina e quindicimila operai (gli altri nel frattempo sono in pensione, hanno un altro lavoro, molti se ne sono andati, e basta) che rischiano il posto di lavoro. «Il futuro vorremmo scriverlo in maniera diversa» dice però il sindaco, Rinaldo Melucci, con una buona dose di ottimismo.

Melucci ha firmato il 27 febbraio, dopo la segnalazione di puzza immonda da centinaia di cittadini – anche in questo caso nello scetticismo e il silenzio generale – un’ordinanza che chiudeva l’area a caldo dell’Ilva. Tempo fa sarebbe venuto giù tutto.

E invece quasi non se n’è accorto nessuno. Arcelor l’ha impugnata al Tar sostenendo, con l’appoggio di Ministero e Ispra, che odori ed emissioni non erano loro riconducibili. E tutti erano convinti che sarebbe finita nell’ennesima palude. E invece no: il tribunale amministrativo ha dato ragione al Comune ma soprattutto piazzato schiaffi a tutti.

Ad Arcelor, al vecchio governo, agli organi di controllo (Ispra), dando 60 giorni di tempo per spegnere tutto. L’azienda ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Spiegando che «la fermata dell’area a caldo comporterebbe in ogni caso un totale blocco della produzione dello stabilimento, la cui produzione, a norma di legge, è invece assolutamente necessaria a mantenere e salvaguardare l’unico impianto sul territorio nazionale a “ciclo integrato” per la produzione di acciaio».

Tradotto, se spegniamo, chiudiamo. E mandiamo a mare mezza industria italiana. Anche in questo caso, silenzio. Non un ministro, non una manifestazione, qualche voce preoccupata di Confindustria e sindacato, qualche ambientalista incavolato. «Se succede? Succede», dice Marco De Giorgio, fuori dai cancelli, ci sono quattro gradi e molto vento. «Ci daranno la cassa integrazione, magari è meglio di questo limbo».

Il Comune ha pronto un piano di transizione verso i forni elettrici, la Procura si è mossa ufficialmente e potrebbe chiedere la revoca della facoltà d’uso (la cokeria è sotto sequestro), Massimo Bray, l’ex ministro della Cultura, che è venuto in Puglia a fare l’assessore di Michele Emiliano con Taranto nella testa e l’Europa all’orizzonte, ragiona: «Non si può pensare al futuro senza essere convinti di non essere soli. Taranto è una città che ha bisogno di innovazione e di prevenzione, che sono parole che possono sembrare diverse ma in realtà si assomigliano».

Ecco, la maledizione di Taranto è diventata quella di non credere più alle parole. «Ci avete rotto le cozze» è scritto verso il porto. La verità è sempre sui muri

Sorgente: Ilva, dieci anni dopo Taranto è senza speranze – la Repubblica

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20