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Vincenzo Muccioli ha avuto una storia piena di macabre ombre, e proprio per questo può a buon diritto essere incluso tra i beati, tra i benefattori, tra coloro cui si “perdona” ogni nefandezza, in piena sintonia con l’italica tradizione fascista e patriarcale, autoritaria e violenta.
Carla Corsetti
La narrazione corrente vuole salvarlo a tutti i costi perché, grazie alla sua comunità, che definire terapeutica è un abominio, molti giovani sono usciti dalla tossicodipendenza.
Le storie, invero, sono altre.
Ma il focus dell’analisi non è su fatti criminosi che, per quanto abbiano avuto risvolti penali variegati, restano pur sempre fatti storici sui quali la riflessione politica resta aperta.
Ci sono domande che ancora non hanno risposta.
Di sicuro c’è stata l’incapacità della classe politica dell’epoca di comprendere le ragioni del perché una quantità incontrollata di eroina era entrata in Italia negli anni 80, con tanta speditezza, e stava falcidiando una intera generazione.
L’approccio all’eroina, ad un certo punto, era diventata una risposta diffusa dei giovani alle proprie famiglie inconsapevolmente disfunzionali, patogene e induttrici alla tossicodipendenza.
E la classe politica non aveva voluto gestire la tossicodipendenza sotto il profilo sanitario e sociale, né con approcci clinici, né terapeutici, mentre avrebbe dovuto, doverosamente, farsi carico di un problema enorme, lasciato invece sulle spalle di famiglie impreparate e impaurite di fronte a “mostri” aggressivi e ormai incapaci di autodeterminarsi al recupero.
Il problema veniva marginalizzato con la complicità di un moralismo imperante che già qualificava i tossicodipendenti come persone senza diritti.
Negare diritti ai tossicodipendenti rendeva più facile non doversi preoccupare di tutelarli, e in questo paradigma criminogeno, si inserivano le improvvisazioni violente, autoritarie e sconcertanti di Muccioli e la sua azienda a San Patrignano.
In quella fattoria non c’era distinzione tra maiali e drogati, né gli uni né gli altri avevano diritti, ed entrambi erano funzionali all’ego del “Nuovo Cristo”, come usava autodefinirsi il fondatore.
L’attualità di un documentario su quelle vicende, riapre domande alle quali oggi è doveroso dare risposte.
Qualunque approccio terapeutico richiede un consenso informato, ora come allora, e nessuno può essere sottoposto a trattamenti degradanti e contrari al senso di umanità.
I calci, i pugni, la rottura delle ossa, l’incatenamento, il digiuno, il freddo, la segregazione tra gli escrementi, l’umiliazione in pubblico, sono trattamenti disumani e degradanti e non erano giustificati dalle finalità che si intendevano conseguire, posto che metodologie terapeutiche più civili erano già disponibili nella letteratura e nella prassi dell’epoca.
Se simili trattamenti sono stati ritenuti “salvifici” da genitori disperati, non potevano del pari essere ritenuti tali da chi aveva la responsabilità di valutarli nel loro disvalore come condotte riprovevoli.
Chi entrava in una comunità terapeutica doveva essere reso edotto dei metodi che sarebbero stati utilizzati e non poteva subirli senza un preventivo consenso, ma doveva liberamente aderirvi.
E quandanche, ma non è così, il tossicodipendente non fosse stato in grado di intendere e volere, a maggior ragione le decisioni su di lui non potevano essere diverse da quelle che con la legge sulla riforma dei manicomi avevamo già adottato.
Con la Legge Basaglia del 13 maggio 1978, n. 180, in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, in tema di malattia mentale, avevamo superato e condannato prassi che negavano dignità umana e che ora invece si riproponevano per i tossicodipendenti.
Non c’era esperto di metodologie sulle tossicodipendenze che già all’ora non sostenesse come la privazione della libertà, la reclusione coatta, dovessero essere combattute, privilegiando piuttosto approcci terapeutici che prevedevano una adesione motivata, e non un annientamento della persona.
Quanto alla posizione dei tossicodipendenti/lavoratori, ancora oggi non si può tacere sulla responsabilità del Muccioli di aver usato la forza lavoro dei ragazzi senza alcuna copertura assicurativa e previdenziale.
Ancora oggi risuonano imbarazzanti e vergognose le parole dell’allora Segretario Generale della UIL Benvenuto che nel processo Muccioli arrivò finanche a negare che le norme allora vigenti escludevano qualsiasi responsabilità in tal senso nei laboratori di San Patrignano.
Invece la dirigenza di quella comunità lager se ne era resa conto a tal punto che tre giorni prima del processo a Muccioli, centinaia di tossicodipendenti furono iscritti come soci della cooperativa proprio per ovviare al buco nero dello sfruttamento.
Il giudizio negativo per i datori di lavoro che sfruttano non dovrebbe avere deroghe, quantomeno tra chi si colloca nelle formazioni politiche che fanno della tutela dei lavoratori un punto non negoziabile, ma per i lavoratori tossicodipendenti non è stato e non è così, ancora oggi tutto viene giustificato dietro il paravento del loro recupero.
Il giudizio negativo per i trattamenti degradanti, sanitari o carcerari, non dovrebbe avere deroghe, ma se le vittime sono tossicodipendenti, allora tutto è giustificato, perché viene fatto “per il loro bene”.
I ragazzi sono sopravvissuti ai pestaggi, alle umiliazioni, alle mortificazioni, alle crisi di astinenza senza assistenza sanitaria, ai collassi senza protocolli farmacologici, alla paura di essere uccisi dai secondini, alla paura di essere legati con catene tra escrementi di cani e di maiali, alla paura di essere chiusi in una botte di cemento per giorni senza cibo e al freddo, alla paura di “cadere” da una finestra, o di finire cadaveri in una discarica.
Si sono salvati dall’orrore di chi esportava centinaia di milioni di lire all’estero per comprare cavalli e cani di razza, milioni accumulati con il loro lavoro senza diritti.
Sono sopravvissuti allo sfruttamento all’interno di un lager in cui la dignità umana è annegata nel disprezzo delirante di chi faceva sedute spiritiche e si lesionava le mani per recitare la pantomima di Gesù rincarnato.
Quei ragazzi si sono salvati dai pestaggi della squadra punitiva del settore macelleria, e quelle ragazze si sono salvate dagli “angeli custodi” del settore manutenzione, a cui, oltre ai pestaggi, seguivano altri “approcci” perché tanto, visto che fuori da lì si erano già prostituite per la droga, un “giretto” di punizione e correzione, non avrebbe fatto la differenza.
San Patrignano era un autobus sul quale quei ragazzi sono saliti perché non c’era altro, e si sono salvati da soli, dalla droga e da Muccioli.

Sorgente: SANPA

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