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La morte fisica è possibile solo dove sono già state consentite tutte le negazioni di dignità fisica, psichica e morale rivolte alle singole donne in quanto tali e alle donne tutte nella loro appartenenza di genere

di Michela Murgia

Femminicidio è una parola che solo dieci anni fa in Italia non pronunciava nessuno al di fuori degli ambiti di attivismo contro la violenza alle donne. “Non serve, l’omicidio comprende tutto” era la risposta che andava per la maggiore quando si cercava di far capire che le donne uccise dentro a dinamiche tossiche di relazione erano un fenomeno che non aveva niente a che fare con quelle morte per criminalità comune, anche perché, mentre queste ultime diminuivano di anno in anno, le donne uccise per possessività rimanevano numericamente stabili.

 

La ragione della resistenza di forze politiche e mezzi di informazione a usare una parola apposita era comprensibile: accettare di nominare diversamente il fenomeno significava doversene occupare con leggi e linguaggi specifici che andassero alla radice culturale del problema. C’è voluto un decennio di donne morte per mano di mariti ed ex mariti, compagni ed ex compagni, fratelli, padri, fidanzati lasciati o mai voluti per rendersi conto che la questione richiedeva un approccio mirato. Su quale debba essere però questo approccio, ancora si discute.

 

Milano, corteo dell’8 marzo

 

Negli anni scorsi ha prevalso quello securitario, con leggi apposite che intervengono però solo quando la violenza si manifesta in modo fisico o persecutorio. Al centro di questa visione c’è l’omicida o lo stalker e questo significa che, quando lo Stato comincia a occuparsene, la donna è già diventata una vittima. Nessuna o pochissime sono invece le azioni messe in atto per disinnescare alla base la cultura maschilista e patriarcale, quella che porta gli uomini a considerare le donne una loro proprietà e le donne a scambiarlo per amore. Agire sull’educazione dei bambini e delle bambine – la sola politica realmente rivoluzionaria – entrerebbe infatti in conflitto più o meno aperto con il modello socio-culturale di moltissime famiglie italiane, ancora costruite intorno all’attribuzione dei ruoli patriarcali di genere che sono alla base della discriminazione che sfocia in violenza.

 

Occuparsi della violenza e non della discriminazione significa però sempre arrivare troppo tardi. Per questa ragione nei luoghi in cui si lotta contro la violenza alle donne il termine femminicidio non definisce solo la morte, ma anche la mortificazione delle donne. La morte fisica è infatti possibile solo dove è già stata consentita la mortificazione civile, cioè tutte le negazioni di dignità fisica, psichica e morale rivolte alle singole donne in quanto tali e alle donne tutte nella loro appartenenza di genere.

 

Michela Murgia lancia #permeviolenzaè – Parole, gesti, divieti: ecco quello che le donne non sopportano più

se non riesci a vedere il video, clicca il link in fondo all’articolo

 

In quest’ottica è definibile femminicidio anche la morte professionale delle donne attraverso la negazione della parità di salario e di prospettive di crescita. È femminicidio l’assenza di una prospettiva di genere nelle pratiche mediche, che fa sì che le donne muoiano di più per mancanza di protocolli mirati per il loro corpo, per pregiudizi che portano a sottovalutare il loro dolore o per la mancata informazione sui loro specifici sintomi. È femminicidio la quantità di rinunce lavorative legate alla gravidanza e alla nascita dei figli e in questo senso appare femminicida anche uno Stato che non agisce per la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione delle donne – come costituzionalmente stabilito – ma fa campagne colpevolizzanti sulla pelle di quelle che di fronte agli ostacoli socio-economici scelgono di non generare o di farlo dopo aver raggiunto una sempre più tardiva stabilità lavorativa.

 

È femminicida anche il giudizio estetico e morale sui corpi e sulle scelte delle donne, che condiziona la qualità della vita di tutte noi, ma soprattutto le più giovani e fragili. Il femminicidio, prima e più di una morte, è un processo di negazione e controllo. “Ti ammazzo” è la sua conclusione e diventa qualcosa di più di una minaccia solo quando tutte le altre parole e azioni sono già state agite. Ecco perché la nascita di un osservatorio specifico dentro un organo di informazione è un importante passo avanti nella presa in carico del femminicidio come fenomeno culturale.

Sorgente: Morte o mortificazione: che cos’è un femminicidio – la Repubblica

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