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Uno dei ricordi che il primo e ad oggi unico mandato presidenziale di Donald Trump ha lasciato è stata la cosiddetta guerra commerciale con il suo deuteragonista Xi Jinping. Nel tentativo, in parte riuscito, di compensare lo squilibrio negli scambi fra Stati Uniti e Repubblica Popolare cinese, Trump ha coagulato un eteroclito fronte di corifei dell’Occidente di varia estrazione, addirittura bipartisan, come direbbero gli americani. Un fronte unito dal pericolo cinese, ovvero dall’antagonismo complessivo a un modello asiatico nemico dei valori dell’Occidente e ad esso irriducibilmente estraneo. Che vi sia un conflitto aperto fra gli Stati Uniti e la Cina popolare non è solamente attualità, ma drammatica prospettiva per gli anni a venire: il primo vero conflitto della globalizzazione post 1989, e proprio per questo un conflitto ancor più lacerante dei grandi conflitti del passato. Ma che in questo confronto si trovi un Occidente euroamericano contrapposto nei valori a un Oriente asiatico in virtù della propria storia è falsante. Dunque chiedo perdono ai lettori del blog se mi diffonderò in una digressione sull’universo mondo un po’ fuori misura, ma non sopra le righe, per argomentare perché il modello cinese è frutto diretto della cultura politica europea, tradotta in senso antropologico nel contesto asiatico. Dunque l’antagonismo non deriva dalla alterità ma dalla contiguità.

Oriente e Occidente nel pensiero moderno sono denominazioni che derivano dal Grande Scisma del Cristianesimo, inseparabilmente intrecciato alla storia dell’Impero Romano e delle sue due capitali. Le trasformazioni avvenute nel corso dei secoli nell’area che corrispondeva all’Occidente europeo conobbero, all’alba dell’età moderna, una tensione di forma diversa ma non di minor rilievo rispetto allo Scisma d’Oriente. La Riforma protestante si accompagnò all’espansione dell’Europa occidentale, prima la conquista delle Americhe, poi la sottomissione di buona parte dell’Asia e la colonizzazione dell’Africa. In quei secoli intercorsi fra lo scisma protestante e la formazione dei grandi imperi coloniali ottocenteschi si è compiuta la traslazione dell’Occidente come luogo ideale, la cui capitale, immaginata erede di Roma, lascia lo sconfitto mondo cattolico per essere contesa fra il nascente e dinamico impero tedesco e il grande impero britannico. Un immenso impero coloniale al cui interno si era generato il suo lento superamento, ad opera dei coloni americani.

La prima guerra mondiale è stata altresì guerra di imperi coloniali e guerra intestina all’Occidente, come lo era stata la guerra dei Trent’anni che aveva opposto cattolici e protestanti. Il primo dopoguerra segna l’apogeo della cultura di lingua tedesca, che è stata la prima levatrice di quel socialismo marxista destinato rapidamente a prevalere sulle altre idee di socialismo sue coeve. La fine di della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo causarono la crisi della posizione della cultura tedesca nel continente, e allo stesso tempo un profondo ridimensionamento della socialdemocrazia e della lettura riformista del socialismo marxiano. La lettura rivoluzionaria era già stata duramente repressa sia dal nazifascismo che dal trionfo dello stalinismo, conclusione della parabola marxismo russo: un socialismo patriottico che aveva ricondotto l’internazionalismo comunista sotto un nuovo stato con una proiezione imperiale, diverso da tutti quelli sino ad allora visti. Mosca erede di Bisanzio, come volevano gli zar e come la faccia europea del potere sovietico pareva mostrare; ma inseparabilmente la capitale sovietica era proiettata verso le civiltà dell’Asia, che avevano già iniziato una lunga assimilazione del potere degli imperi coloniali e delle loro ideologie. Proprio la traduzione delle idee di Nazione e Repubblica nel contesto asiatico aveva fornito un contesto ricettivo del marxismo sovietico, in particolare nella grande area sinica che già prima della prima guerra mondiale aveva visto la fine dell’impero e l’instaurazione della repubblica di Cina. L’impero giapponese, forte di una rapida ibridazione fra la propria palingenesi nazionale e la téchne europea – a partire da quella istituzionale – aveva caducamente resuscitato l’ultimo imperatore cinese, affrescato nel film di Giuseppe Bertolucci, prima di finire sconfitto nella Seconda Guerra mondiale.

Gli Stati Uniti, artefici della disfatta dei militari al governo in Giappone, erano per la classe dirigente americana gli eredi della tradizione dell’Occidente classico, e si distinguevano dall’anglosfera pur rimanendone parte. L’eccezionalismo statunitense, il suo destino manifesto, erano nati alla fine del diciottesimo secolo all’interno del sistema imperiale britannico tramite una contaminazione con la cultura francese, dando vita a uno stato indubbiamente più simile a quello che di lì a poco avrebbero sperimentato i francesi stessi, rispetto a quello della ex madrepatria e dei suoi dominion. Dell’impero ereditarono lo schiavismo e la concezione razziale, ben diffusa anche nelle altre società europee, che cozzava con le stesse dinamiche innescate dal colonialismo. Dinamiche di traduzione culturale: i primi oppositori indiani al colonialismo britannico lo ritenevano “unbritish”, cioè in contradizione con i valori democratici del Regno Unito. Una democrazia che contemplava la libertà dei sudditi e quindi degli individui come suo fondamento imprescindibile, ma che accoglieva ugualmente la distinzione dell’umanità in razze e la loro gerarchia. È possibile affermare che la gerarchia delle razze non trovi più legittimità nel discorso pubblico, avendo l’Europa sperimentato col nazismo la massima espressione dell’organizzazione razziale della società; bisogna altrettanto riconoscere quanto nel Paese divenuto campione dei valori e delle idee delle democrazie europee, cioè gli Stati Uniti d’America, le razze in quanto tali abbiano un riconoscimento istituzionale, ormai da qualche decennio senza discriminazioni normative.

È dunque difficile definire l’occidente sulla base dei valori, identificare addirittura una civiltà occidentale, perché in questa area geografica sono nate le idee di democrazia e libertà che una eteroclita vulgata ritiene consustanziali all’Occidente stesso, e inseparabilmente la loro negazione. La prima aggregazione nell’età contemporanea dell’Occidente come schieramento politico-ideologico è stata la creazione dell’Unione Sovietica, che ha naturalmente riportato il lessico geografico nella risposta alla sfida comunista, proveniente appunto da oriente; una contrapposizione al leninismo intrapresa dagli Stati Uniti wilsoniani, come analizzava Arno Mayer ormai cinquant’anni fa. Dovettero però passare i vent’anni fra le due guerre, e gli americani dovettero vincere la Seconda guerra mondiale perché i valori statunitensi divenissero i valori dell’Occidente, sconfiggendo l’alternativa ugualmente occidentale del nazifascismo, e conducendo un nuovo genere di conflitto con il comunismo sovietico, che da alleato era tornato ad essere nemico, ma non più così irriducibile come era prima.

La Guerra Fredda è stata un conflitto di compatibilità e di erosione, in cui l’occidente serrava i ranghi per resistere senza mai portare un attacco distruttivo al nemico orientale. Per fortuna, è doveroso aggiungere, l’attacco distruttivo non è mai nemmeno arrivato dall’altra parte della Cortina di ferro. Questo non significa che la contrapposizione non sia stata feroce, per i cuori e le menti, in particolare nel resto del mondo che della Guerra fredda è stato teatro. La dimensione stessa delle superpotenze, edificata sul potere nucleare di potenziale distruzione di buona parte del pianeta, aveva cambiato la fisica del conflitto, portando l’ipertrofia dell’apparato militare a perseguire prioritariamente il fine della deterrenza. Lo scontro fra due attori globali di simile grandezza non poteva più darsi sul classico piano militare per essere veramente vincente. Perciò le ideologie, le loro traduzioni e manifestazioni crebbero di valore come armi privilegiate nel conflitto, e le compatibilità politiche dell’occidente con le dittature nel sud del mondo e le sopravvivenze fasciste della penisola iberica, o dell’oriente con un certo terzomondismo anticomunista e le sinistre radicali ma democratiche europee.

Se il rapporto fra dittatura e democrazia negli stati europei è tema complesso e tutt’altro che risolvibile con una banale antinomia, anche il rapporto fra democrazia e libero mercato non si può ridurre a un’identità fra i due termini, poiché il libero mercato è potenzialmente compatibile con ogni regime che intenda accoglierlo. L’economia di piano era un caposaldo del sistema sovietico, ma l’ultima divergenza fra le due capitali del comunismo mondiale si è data proprio nelle politiche economiche intraprese da Pechino sin dagli anni ottanta del secolo scorso. La rivoluzione cinese del 1949 era stata l’ennesima traduzione asiatica del marxismo, operata da Mao Zedong in un panorama preesistente assai vivace di letture del marxismo ad opera di intellettuali e dirigenti politici, che raccoglieva lo spirito di trasformazione della Cina repubblicana, guardando alla modernizzazione dell’immenso Paese per superare definitivamente il passato imperiale. Il maoismo post rivoluzionario divenne ortodossia marxista leninista contro l’Unione sovietica kruscioviana che dopo la morte di Stalin era divenuta revisionista e nemica del popolo, nel gergo di allora.

Al di là della liturgia maoista, la rottura fra Cina popolare e Unione Sovietica aveva subito un’accelerazione col rifiuto dei russi di condividere con i compagni cinesi le conoscenze nucleari. Quando nel 1963 la Repubblica popolare fece detonare la prima “atomica cinese”, (come recitava una canzone di Francesco Guccini) l’ordigno recava il numero 596, per ricordare il giugno del 1959, data in cui Mosca negò a Pechino l’accesso alla tecnologia promessa. La repubblica popolare era uno stato nuovo, che adattava le formule politiche e istituzionali importate dalla cultura europea alla vastità del Paese e alla sua multiforme disomogeneità. La Cina maoista aveva conosciuto l’intervento in Corea contro gli Stati Uniti, e da quell’esperienza una classe dirigente costantemente impegnata in sanguinose lotte intestine aveva concordato sulla necessità di non subire il potere distruttivo degli armamenti nucleari delle superpotenze, pur scontando l’arretratezza di immense aree del territorio cinese. Anni dopo, ricorda Henry Kissinger, i sovietici lo approcciarono dicendogli che dalla guerra fredda avrebbero finito per beneficiare i cinesi e le “razze non bianche”; non di meno gli Stati Uniti usarono il progressivo avvicinamento alla Cina popolare, culminato con il ripristino delle relazioni diplomatiche nel 1979, per sparigliare il campo anticapitalista e favorendo la ripresa del capitalismo nella Cina continentale.

L’impianto dello Stato cinese rimaneva però quello socialista, e l’idea stessa di progresso tecnologico e scientifico era pienamente mutuata dall’esperienza euroamericana. La dittatura dei contadini e degli operai era la dittatura del Partito comunista cinese secondo i dettami del marxismo-leninismo, e il socialismo con caratteristiche cinesi del presidente cinese Xi Jinping è il proseguimento di quella traduzione ideologica e della sua costante revisione, con un capitalismo sui generis che non è distante dalle esperienze totalitarie europee dei vent’anni fra le due guerre. Indubbiamente la prassi democratica è stata assai marginale nella storia della Repubblica di Cina, prima che la rivoluzione del 1949 stabilisse la dittatura del Partito, ma lo stato totalitario contemporaneo non deriva della tradizione imoperiale cinese, bensì dell’importazione di un modello di dittatura pienamente occidentale. Molto più occidentale dell’autoritarismo sperimentato dal quel mondo arabo su cui si era esercitata la teoria huntingtoniana dello scontro di civiltà, una civilizzazione islamica che – nonostante le mille luci dello skyline delle capitali del Golfo – non ha conosciuto una traduzione di modelli, linguaggi e ideologie comparabile con quella in Asia.

Allora è piuttosto antistorico opporre i classici greco-latini alla tradizione confuciana o il monoteismo abramitico al taoismo, per ricercare le radici di un occidente alternativo a un atavismo asiatico ormai scomparso. Perciò il pop coreano furoreggia anche in Europa. Avrebbe più senso, per i destini ormai inestricabili dei popoli nel villaggio globale, guardare all’universalità dei diritti umani che le democrazie cercano, talvolta malamente, di difendere, e capire che fra Pechino, Hong Kong e Taipei si prospettano opzioni di cultura sì, ma di cultura politica: non oriente o occidente, ma una scelta fra dittatura o democrazia che, ad ovest come ad est, non può prescindere dal sostrato di ineguaglianze sociali ereditate dalla storia e che la pandemia inevitabilmente acuirà. Per entrambi i cieli.

Sorgente: Se la Cina è occidentale | L’HuffPost

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