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La metafora andante è quella della «luce in fondo al tunnel». Metafora nitida ma impropria, perché indica un percorso — per quanto lento — troppo lineare; una separazione netta, manichea, tra un prima (un «dentro») e un dopo (un «fuori») che rimuove dall’orizzonte sia la fase finale del «corpo a corpo» che ci attende con Covid-19, sia quella di una lunga convalescenza, in cui le ferite non verranno miracolosamente sanate e levigate, ma si cicatrizzeranno in segni estesi su tutto il corpo sociale. E questo a ogni livello: di sistema sanitario, di devastazione economica, di disagio psichico collettivo e individuale. Ma un atteggiamento realistico non può tradursi in impasse: non serve a nulla rispondere all’incoscienza, all’ottimismo fatuo e/o al cinismo con prospettive apocalittiche da Walking Dead.

È vero, prima di uno scenario vagamente decompresso (comunque lontano da un «abbracci e baci» senza mascherina) ci aspettano diversi mesi, forse qualcosa di più, in cui l’attrito esercitato dall’agente patogeno (la sua resistenza) continuerà a condizionare istinti e movimenti, ad allungare la sua ombra nella quotidianità, nella veglia come nel sonno (succede pesino nelle teste dei negazionisti).

Ma prefigurare — più che una possibile uscita — un progressivo alleggerimento della pressione, un allentarsi di quell’attrito (un ritrarsi dell’ombra dal paesaggio, magari per chiazze successive) è più di un esorcismo: è una necessità psicologica e — insieme — un «tagliando» della situazione come tentativo di ridisegnare in prospettiva questa cattività senza fine. Il tutto passando per altre metafore/analogie ormai diventate di impiego ordinario, tutte più o meno utili, tutte più o meno ambigue o discutibili.

Sorgente: Quando finirà il Covid? Le tappe (e gli ostacoli) per uscire dall’incubo

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