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In Tunisia la rivoluzione ha sgombrato la via ad un susseguirsi di proteste che ricordano l’urgenza di implementare non solo i diritti civili, ma anche quelli sociali ed economici, tallone d’Achille dei governi post 2011. E se il bilancio delle primavere arabe a distanza di un decennio viene spesso ridotto ad una lista di successi o fallimenti, diversi intellettuali della regione concordano nel considerarle un processo storico ancora in divenire

di Arianna Poletti

In Tunisia la rivoluzione ha sgombrato la via ad un susseguirsi di proteste che ricordano l’urgenza di implementare non solo i diritti civili, ma anche quelli sociali ed economici, tallone d’Achille dei governi post 2011. E mentre chi si immola in piazza non fa più notizia – l’ultimo caso risale al 1° dicembre, quando un uomo si è dato fuoco a Zaghouan dopo aver scoperto di non esser stato assunto come operaio – la giustizia di transizione fa il suo corso. Il paese che ha cacciato il dittatore Zine el-Abidine Ben Ali è riuscito ad intraprendere un lungo e tortuoso percorso verso uno Stato di diritto. Un processo non ancora terminato: sebbene i riflettori non siano più puntati sui tribunali tunisini, molte vittime di crimini e violazioni commessi durante i sessant’anni di dittatura attendono ancora giustizia. A seguito di più di 50mila audizioni private, l’Istanza Verità e Dignità (IDV), una commissione istituita per far luce su violazioni dei diritti umani e crimini di Stato commessi tra il 1955 e il 2013, ha reso pubblico il suo rapporto finale ad inizio 2019. 174 sono i dossier in attesa, trasmessi a tribunali speciali. Si contano più di 1700 responsabili, tra cui molti membri dell’attuale apparato securitario, incluso l’ex presidente Béji Caïd Essebsi deceduto l’anno scorso. Ma gli accusati, spesso ancora in carica, non assistono alle udienze.

Una stagione in divenire – “Dal 2014 siamo dotati di una costituzione democratica e di un nuovo sistema di governo. È un passo avanti considerabile, ma non ancora sufficiente”, avverte lo scrittore tunisino Aziz Krichen nel suo libro La promessa della primavera (Script Éditions). La generazione che dieci anni fa occupava Avenue Bourguiba, oggi vittima della più grave crisi economica dai tempi dell’indipendenza, condivide un generale sentimento di disillusione, se non di delusione. Ma vista con gli occhi degli altri, la Tunisia resta l’eccezione nord africana: “Quando sono arrivato a Tunisi nel 2016 ho assistito ad uno sciopero e quasi non riuscivo a crederci: sono stato trasportato indietro nel tempo”, racconta un attivista egiziano al fatto.it. Mentre il bilancio delle primavere arabe a distanza di un decennio viene spesso ridotto ad una lista di successi o fallimenti, diversi intellettuali della regione concordano nel considerarle un processo storico ancora in divenire. “Due anni fa non avremmo discusso di rivoluzioni in Nord Africa e Medio Oriente come lo facciamo oggi dopo l’avvento di nuovi movimenti di protesta in Libano, Iraq, Algeria e Sudan”, conferma al fatto.it Ziad Majed, autore franco-libanese e studioso dei processi di transizione democratica.

“Gli eventi del 2019 sono la prova che la storia deve ancora fare il suo corso, e che potrebbe essere prematuro trarre conclusioni. Possiamo però affermare che le condizioni di oggi sono certamente meno favorevoli per i manifestanti rispetto a dieci anni fa, anche a seguito della violentissima repressione che si è abbattuta sulla popolazione di certi paesi, come in Siria. I regimi hanno imparato la lezione del 2011”, osserva il professore dell’Università americana di Parigi. In Nord Africa, l’esempio algerino illustra una logica ormai chiara: l’estromissione simbolica del presidente non sempre corrisponde ad un ribaltamento reale del sistema. In Algeria infatti l’apparato del potere resta ben saldo a quasi due anni dalle dimissioni di Bouteflika. “I regimi adottano diverse strategie per mantenersi al potere. L’ultima potrebbe essere la normalizzazione dei rapporti con Israele, un modo per garantirsi la protezione statunitense”, ipotizza ancora Majed. All’espressione “primavere arabe” il ricercatore preferisce un semplice “rivoluzioni arabe”, non solo per evitare di romanzare i fatti storici, ma anche per evidenziare l’altro aspetto delle proteste: la controrivoluzione. In Nord Africa, impossibile non far riferimento al caso dell’Egitto, dove il generale Abdel Fattah Al-Sisi, sostenuto da un apparato militare tentacolare, guida il paese con il pugno di ferro dai tempi del colpo di stato che nel 2013 ha destituito il presidente Mohamed Morsi.

“La controrivoluzione è sostenuta politicamente, economicamente e mediaticamente dagli Emirati e dall’Arabia Saudita, che infatti sono alleati di Al-Sisi in Egitto o di Haftar in Libia”, ricorda Ziad Majed. Anche per questo in Sudan, dopo l’estromissione di Omar El-Bechir nel 2019, il movimento di protesta ha scelto di scendere a patti con i militari: “Ormai la forza di chi opera per una contro rivoluzione è chiara anche ai manifestanti”, specialmente in assenza di una presa di posizione da parte occidentale, spesso in nome del ricatto della “stabilità regionale”. Il termine istiqrar – stabilità in arabo – ricorre per esempio nei discorsi del presidente egiziano Al-Sisi. “I regimi si sono resi conto che l’Europa è sensibile a due argomenti: l’arrivo di nuovi migranti e la minaccia islamista. Li usano per legittimarsi”, ricorda Majed. Per lui, dal 2011 ad oggi qualcosa è cambiato anche tra i manifestanti: “Nel 2019 abbiamo visto che i giovani scesi in piazza non si identificano più nella propria comunità, religiosa o etnica che sia, ma si riconoscono e si uniscono innanzitutto perché cittadini algerini, sudanesi, libanesi. Proprio da questa idea potrebbero nascere in futuro progetti più precisi, capaci di oltrepassare il grande scoglio delle rivoluzioni: trasformare un movimento di piazza in alternativa politica”.

 

Sorgente: Primavere arabe dieci anni dopo: il filo rosso dalle fiamme in Tunisia alla controrivoluzione dei regimi, che si legittimano agli occhi dell’Europa usando terrorismo e migranti – Il Fatto Quotidiano

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