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Il presidente del Consiglio ha innervosito tutti con la sua decisione di affidare a sei manager la gestione del Recovery Fund, e anche il ruolo dei ministri Gualtieri e Patuanelli, percepiti dai partiti della maggioranza come troppo vicini al premier, crea malumori. In Parlamento ci si prepara a sei mesi molto complicati, in cui nessuno vuol far davvero cadere il governo, ma l’incidente può arrivare in qualunque momento. E portare a nuove elezioni

Era probabilmente inevitabile, in un governo di coalizione con quattro partiti, che i 209 miliardi garantiti dall’Unione europea provocassero una sorta di “assalto alla diligenza” che prefigura tempi difficili per l’esecutivo di Giuseppe Conte.

Le critiche all’idea del presidente del Consiglio di far gestire il Recovery fund a una struttura esterna guidata da sei manager, a loro volta aiutati da circa 300 consiglieri, nascondono una frattura più profonda tra Giuseppe Conte e i partiti che lo sostengono.

Una parte delle tensioni sono causate da questioni di potere interne alle amministrazioni: «Il punto non è dove allocare le risorse che arriveranno, perché parliamo di un’enorme quantità di denaro che riuscirà a soddisfare tutte le richieste. Il tema vero è la gestione dei progetti, chi avrà la responsabilità sugli appalti, chi sceglierà i funzionari, chi decreterà le assunzioni. Insomma si discute sulla regia politica e amministrativa del Recovery fund», analizza un consigliere del governo.

La bozza del decreto fatta filtrare nel pomeriggio di lunedì definisce i compiti dei manager esterni all’esecutivo, che si occuperanno di dare «impulso e coordinamento operativo» alle varie decisioni, «vigilanza e monitoraggio» sui progetti, ma soprattutto «segnalazione e pubblicazione» dei ritardi con «poteri sostitutivi».

Di fatto dei commissari straordinari che esautorano i ministri: «È evidente che in questo modo i ministri non potranno rivendicare eventuali risultati politici, potrebbero vedersi ritirare le competenze senza preavviso dai manager nominati dal presidente del Consiglio, e potrebbero non riuscire a incidere politicamente su progetti pensati e scritti dai loro uffici. Anche i vertici delle loro amministrazioni potrebbero avere qualcosa da ridire: l’idea di Conte non piace affatto ai dirigenti apicali», continua il funzionario interrogato da Linkiesta.

A questo si aggiunge il malumore per la cabina di regia voluta da Conte che controllerà i sei super manager. In teoria affidare il coordinamento del Recovery fund al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e al ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli è comprensibile: il primo ha in mano la finanza pubblica, il secondo regge l’amministrazione che più di ogni altra dovrà spendere le risorse europee.

In pratica l’eventuale nomina di Gualtieri e Patuanelli non piace quasi a nessuno. Non piace a Italia viva e Liberi e uguali, che si troverebbero in questo modo completamente al di fuori delle decisioni della maggioranza, ma nemmeno ai rispettivi partiti, tutt’altro che uniti nel sostegno ai ministri.

Roberto Gualtieri è percepito come troppo vicino a Giuseppe Conte, e non viene più considerato come un nome che unisce dietro di sé tutto il partito; Stefano Patuanelli non rappresenta completamente il Movimento, ed è piuttosto malvisto dall’ala radicale.

Le fibrillazioni interne al governo si sommano alle richieste del Parlamento e dei partiti che compongono la coalizione, visto che i tre leader che hanno dato alla luce l’esecutivo hanno agende diverse.

«Avere due dei tre leader dei principali partiti, Renzi e Zingaretti, fuori dall’esecutivo e un terzo, Luigi Di Maio, che ha come principale obiettivo politico riprendere il controllo del suo partito, non aiuta l’esecutivo», analizza un parlamentare della maggioranza, che aggiunge: «Il gioco del leader di Italia viva è abbastanza chiaro, vuole entrare in prima persona nel governo e contare di più, quello del segretario dem è più difficile da leggere, perché personalmente non ha nessun interesse a diventare ministro o vicepremier e in realtà, se si va a votare, ci guadagna, perché sceglie lui i prossimi parlamentari e inverte i rapporti di forza con il Movimento 5 stelle, oggi almeno 5 punti percentuali dietro al Partito democratico».

Secondo il nostro parlamentare, «L’instabilità perdurerà fino a luglio», quando entreremo nel semestre bianco e Sergio Mattarella non potrà più sciogliere le camere. Il Movimento 5 Stelle esclude categoricamente, almeno a microfoni accesi, il ritorno alle urne: «In questo momento mi sembra una follia pensare che una parte della maggioranza pensi di andare a votare», dice a Linkiesta la deputata Valentina Corneli. «Oggi la maggioranza deve lavorare compatta per superare questa fase di crisi. E se c’è qualcuno che non sta apprezzando il lavoro di Conte sicuramente non è nel Movimento 5 stelle, con tutto quello che ha ottenuto, a partire dai 209 miliardi del Next Generation. Se cerca un’opinione diversa deve chiedere, non so, forse a un esponente di Italia viva».

E però Italia viva è probabilmente ancor meno tentata dal voto: il partito di Matteo Renzi è sotto la soglia del 3%, e in caso di elezioni rischia seriamente di restare fuori dal prossimo Parlamento. Ecco perché la minaccia far saltare tutto è poco temuta: «Quando fai casino rischi di finire al Papeete, non si sa mai bene come si evolvono le crisi nel Parlamento italiano» sorride un dirigente dem.

Matteo Renzi e Nicola Zingaretti condividono tuttavia l’analisi sull’immobilismo del presidente del Consiglio: «Conte deve cominciare a prendere delle decisioni politiche su dossier che non si capisce come mai sono ancora fermi: perché non riusciamo ad andare avanti sulla legge elettorale, sulle riforme dei regolamenti parlamentari e su altri temi fondamentali come la cybersecurity? Quando Zingaretti dice che “tirare a campare” non ci interessa vuole dire a Conte che guidare il governo implica fare delle scelte politiche. Non ci serve a niente un semplice garante del contratto» continua lo stesso dirigente.

Il ruolo di Conte è l’ultimo pezzo del puzzle. Il presidente del Consiglio ha avuto una funzione storica abbastanza definita: è diventato capo del governo per fungere da mediatore, prima tra Salvini e Di Maio, poi tra Partito democratico, Movimento 5 Stelle, Italia viva e Liberi e uguali. Ora però questa funzione sembra superata: i leader dei partiti di maggioranza parlano tra loro, Movimento 5 stelle e Partito democratico in particolare hanno superato le diffidenze reciproche, l’alleanza è «inesorabile» come dice Dario Franceschini. Il premier, dal canto suo, continua a essere il politico più apprezzato dagli italiani, una popolarità che senza dubbio lo aiuta a restare in sella e che tuttavia a un certo punto andrà capitalizzata politicamente.

Ecco perché, fino a fine luglio, ogni incidente di percorso potrebbe aumentare la tentazione di far saltare il governo, o meglio chi lo presiede. Si comincia domani con il voto sul Mes.

(Ha collaborato Alessandro Cappelli)

 

Sorgente: La nuova normalità del governo Conte è la crisi permanente – Linkiesta.it

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