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Non dimenticheremo il 2020: dodici mesi segnati dal contagio, dalla paura e dalla solitudine. Ma anche dalla consapevolezza che se cambiamo ripartiremo

di Marco Damilano

Quello che state leggendo è l’ultimo numero dell’Espresso datato 2020, il prossimo uscirà domenica 27 dicembre e sarà il primo del 2021. L’ultimo numero dell’anno più orribile, in edicola mentre il governo dispone nuove misure di chiusura nelle case per le feste di Natale e il tragico conteggio dei morti da Covid si avvia verso le 70mila vittime riconosciute, come se la popolazione di un capoluogo di provincia fosse interamente azzerata.

Ci siamo a lungo interrogati su come raccontare questo anno, con una intensità che va ben al di là dell’ordinario. Sul piano personale, mi sono lasciato interrogare dai dubbi e anche dalle critiche dei lettori. Ne cito due arrivate nelle ultime settimane. La lettrice Marta Bonomo di Roma: «Io e mio marito siamo abbonati all’Espresso da trent’anni, ci accompagna settimanalmente nella conoscenza del mondo attraverso le sue pagine e i suoi redattori. Recentemente, le dico la verità, quasi temo il suo arrivo, di solito il venerdì nella cassetta della posta». La lettrice Marisa Vergani di Gallarate: «La situazione del nostro paese è sì drammatica, ma ha anche tante risorse, c’è sempre una luce in fondo e siamo noi cittadini ed elettori che la teniamo viva».

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Persone dell’anno: la Morte

L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest’ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi

A loro ho risposto in privato, come faccio sempre, soprattutto quando c’è una critica cui rispondere. In questo caso, poi, le domande delle lettrici sono le stesse che mi sono fatto anch’io, uguale la paura. C’è il rischio di esagerare con i toni cupi: nella prima settimana della pandemia italiana non fu facile dedicare una copertina alla sanità pubblica distrutta dai tagli degli anni precedenti e affermare che questo contesto avrebbe purtroppo reso ancora più tragica la diffusione del contagio. Ma c’è anche la paura di conoscere il bollettino quotidiano dei decessi che ci accompagna da venerdì 21 febbraio, quando il Covid è sbarcato ufficialmente nelle nostre vite, dico ufficialmente perché in realtà era già entrato nelle città, nelle case, negli ospedali, ma non ce ne eravamo accorti. Girare per le strade vuote, tra serrande abbassate che non riapriranno più. Restare ancora attoniti di fronte alle immagini che non passano. Le terapie intensive. I corpi estenuati. E i camion militari che partono da Bergamo con le bare a bordo: una foto che oltrepassa il tempo e che resta nella storia, a fare da spartiacque tra il prima che abbiamo conosciuto e il d.C., il dopo Covid, che ancora non sappiamo.

In mezzo, c’è il 2020. L’Istat ha stimato che in questi dodici mesi gli italiani morti saranno più di 700mila per la prima volta dal 1944, l’anno più duro della guerra mondiale, con il territorio nazionale spezzato e percorso da eserciti stranieri. Un dato per nulla neutrale che da solo giustifica la retorica del Paese in guerra che abbiamo sempre rifiutato. Oggi l’Italia appare invecchiata e spopolata, deserta non solo per effetto del lockdown. Con la crisi economica che si aggiunge a quella sanitaria e fa paura. È stato Carlo Messina, amministratore delegato del più importante istituto italiano, Banca Intesa SanPaolo, intervistato da Massimo Giannini (La Stampa, 16 dicembre) a segnalare le file per le mense come un problema più grave dell’affollamento per lo shopping di Natale. La Caritas romana ha calcolato 7500 persone in più nei centri di ascolto, mai viste prima. A Milano, al centro del Pane quotidiano, gli italiani che vanno a ritirare il cibo erano un anno fa il 15 per cento dei bisognosi, oggi sono quasi la metà.

Sono numeri tetri, soffocanti, rispetto ai quali ci siamo chiesti anche noi, tante volte, se non fosse necessario dare un messaggio diverso, più rassicurante. Un grande settimanale americano, Time, ha fatto una scelta radicale, ha messo in copertina il 2020, definendolo «l’anno peggiore di sempre» e l’ha sbarrato con una croce. Un anno maledetto. Da rimuovere, cancellare, eliminare. Da saltare sul calendario come un errore, un incidente, un’anomalia. Io credo che sia vero il contrario: il 2020 è un anno da ricordare. Un anno che ha svelato la fragilità del nostro corpo individuale e collettivo. Un anno che ci ha tolto la possibilità di essere vicini, che ci ha strappato il respiro, letteralmente, ma che ci ha insegnato a combattere per quanto ci sembrava scontato. A riscoprire la cura e la pietà, come quella che ha scattato Fabio Bucciarelli in una casa di Bergamo , in una delle nostre copertine. La possibilità di resistenza al male che ha sorretto Giorgio Allori, deportato nei campi di concentramento tedeschi nel 1943, a lui abbiamo dedicato un’altra copertina per il 25 aprile del lockdown , il 2 febbraio 2022 compirà 99 anni e finalmente la Repubblica gli ha consegnato la medaglia d’onore. La redenzione. La morte e la vita.

La morte è stata per decenni la grande rimossa della nostra cultura. È tornata a segnare le nostre giornate, perché non del virus abbiamo paura, ma della morte e di questa morte solitaria, senza un accompagnamento. È stato quello che non abbiamo visto e che non siamo riusciti a raccontare in questi mesi. Abbiamo tante volte provato, in passato, a dare un nome alle vittime del traffico di uomini e donne nel Mediterraneo o degli incidenti nei cantieri. Erano loro gli invisibili. In questo 2020 invisibile è lo smarrimento di chi se n’è andato in una solitudine totale, non soltanto per il Covid. Invisibile è il dolore di chi ha perso un anziano o un’anziana, il papà o la mamma, il nonno o la nonna, in un ospedale o in una residenza, senza un ultimo abbraccio, con il senso di colpa e di mancanza che non sarà mai colmato per quell’ultima carezza sui capelli bianchi che non c’è stata.

La paura della morte, più che il virus, ha stravolto i nostri sistemi politici, ha abbattuto poteri che sembravano invincibili, come quello di Donal Trump che nel 2020 era entrato da dominatore, ha spinto Angela Merkel a lacerarsi il cuore nel Bundestag e papa Francesco ad alzare un grido più che una preghiera in una piazza San Pietro che sembrava un sepolcro. Ha costretto a ripensare il modello economico degli ultimi quaranta anni. Ha ridisegnato il nostro modo di lavorare, studiare, produrre, consumare. E i comportamenti della nostra quotidianità: uscire di casa, incontrare uno sconosciuto, tutelare la salute di una persona cara, mangiare, innamorarsi. È il guardare in faccia la morte, il convivere con la fine, che restituisce alla esistenza un fine, un senso: l o scrive con la sua intelligenza dell’umano Massimo Cacciari , lo raccontano Filippo Ceccarelli straordinario cronista del nostro tempo e Giuseppe Genna che poeticamente restituisce la voce a chi se n’è andato ma è sempre rimasto.

La copertina di Time
La copertina di Time

È la vita che vincerà la partita a scacchi. Nella nostra copertina di fine anno, nella scena del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman reinterpretata da Emanuele Fucecchi, la morte gioca con un bambino. Susanna Turco ripercorre il 2020 con gli occhi di Diego, il primo nato in Italia, alla mezzanotte del 01.01.2020, a Napoli , con il nome del genio del pallone e della gioia che ci avrebbe lasciato. Vince Diego, va avanti la vita. Lui che ci rappresenta tutti. Nell’anno maledetto è una benedizione.

Floriana Bulfon ha fatto parlare i rinati, i guariti del Covid, con le loro ferite e i loro incubi. La vita è biologia, ma è anche un organismo sociale, economico, politico, spirituale. La vita per cui combattono i medici, gli infermieri, tutte le persone che lavorano negli avamposti di umanità che sono gli ospedali e le residenze sanitarie. La vita per cui gli scienziati hanno cercato a tempo di record un vaccino. La vita per cui si muovono gli insegnanti e gli studenti che tra mille difficoltà hanno mandato avanti le nostre scuole. La vita di un sistema produttivo, di imprenditori, commercianti, lavoratori in grado di reggere il sistema nonostante mille spinte disgregatrici. La vita di chi fa politica, soprattutto sul territorio dove le macerie sociali sono più evidenti, e di chi elabora per il futuro una società più giusta e uguale. La vita di chi, anche in questo anno di chiusura, non ha smesso di pensare per parole, musiche, immagini, scrivere, suonare, recitare. La vita, da ultimo, che spinge i giornalisti a ostinarsi a raccontare, perché si passano le ore a sfiorare la morte per parlare della vita. La vita che unisce e che divide, come il virus, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il testimone di questo anno italiano e mondiale.

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Persone dell’anno: la Vita. Ricominciamo da Diego, il primo nato del 2020

L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Diego rappresenta la vita: è il primo bimbo nato in Italia, a Napoli, con il nome di Maradona. All’alba della nuova era piena di incognite e di speranze. Sua mamma dice: «È il nostro nuovo inizio». Ed è anche il simbolo di quello di tutti noi

La Morte e la Vita sono le persone dell’anno, siamo noi, nella perdita e nella rinascita. Per questo del 2020 potremo cancellare tutto, ma non loro, i nostri fratelli e sorelle di Nembro, di Vo’ Euganeo, di Modena, di ogni angolo di Italia e di ogni età: non li possiamo dimenticare, li vogliamo chiamare per nome uno a uno, volto per volto. «Alla fine, mi domando, come poter dire: alla fine. Dare a un posto un uomo, degli occhi, un cuore, un respiro». È un verso del poeta Mario Benedetti, che il Covid ha portato via il 27 marzo. Con intatto stupore.

Sorgente: La morte e la vita sono le persone dell’anno del 2020 per l’Espresso – l’Espresso

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