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Due aziende, con sedi a una ventina di km, hanno annunciato a distanza di poche ore due vaccini basati sulla stessa tecnologia, rivoluzionaria e mai usata nella storia, contro il Covid. Come funziona, quella tecnologia? Chi sono i protagonisti – meglio: le protagoniste – della sua invenzione? E quali dubbi restano, dopo gli annunci?

di Sandro Modeo

Il prologo.
Massachusetts, aprile 1721. Arriva anche a Boston l’epidemia di vaiolo, o meglio la pandemia, una delle tante in un secolo che vedrà uccise da quella malattia infettiva 75 milioni di persone, un decimo della popolazione globale. Come se oggi il Covid-19 provocasse, da qui a fine secolo, tra 800 milioni e 1 miliardo di morti. All’aumentare dei casi e dei decessi, il reverendo protestante e medico Cotton Mather — figura carismatica e controversa, più tardi coinvolta nella conduzione dei processi per stregoneria a Salem — prova a convincere le autorità a ricorrere alla pratica dell’«inoculazione», scatenando, secondo le sue stesse parole, «un orrido clamore». L’opposizione della comunità è pressoché totale, al punto che a novembre arriverà una granata sulla casa del reverendo. Eppure, studi recenti mostrano dati interessanti: dei 244 individui sottoposti alla pratica ne muoiono 6 (2,5%), mentre dei 5980 che contraggono la malattia in modo «naturale» ne muoiono 844 (14%).

Massachusetts, novembre 2020. A distanza di tre secoli, nello stesso Stato che è stato teatro della «battaglia per il vaiolo», due aziende con sedi distanti poco più di 20 chilometri si contendono l’annuncio per il primo vaccino efficace contro il Covid-19: da una parte la Pfizer, che ha una delle sue sedi principali nella «cittadella» di Andover; dall’altra Moderna, coi suoi tre edifici bio-tech nel quartiere industriale di Kendall Square, Cambridge. Il giorno 9 la Pfizer (in sinergia con l’azienda tedesca BioNTech, che pure ha una sua sede a Cambridge) presenta un vaccino con efficacia al 90%; una settimana dopo, Moderna presenta il proprio, con efficacia al 94,5%, percentuale sopravanzata dal rilancio di Pfizer poco dopo, che ritocca l’efficacia del proprio vaccino al 95. E a distanza di tre secoli, il Massachusetts è ancora al centro di una controversia immunoterapica; anche se, va detto con chiarezza a misura dell’oggettivo «progresso» biomedico ed etico intercorso, quella settecentesca verteva su una pratica ad alto rischio, fondata su antiche conoscenze empiriche e altrettante incognite.

Ora, tutto dipende soprattutto dal tratto comune dei due vaccini proposti: il fatto di essere i primi a RNA messaggero o mRNA: cioè l’RNA, ricordiamo, che trasporta l’informazione genica del DNA dal nucleo al citoplasma cellulare, in particolare ai ribosomi, per la sintesi delle proteine.

Anzi, i primi farmaci a mRNA tout court a essere in procinto di autorizzazione. È un aspetto che ha innescato scetticismi e sospetti di ogni genere non solo nell’opinione pubblica, ma in molti addetti ai lavori: in America, per esempio, in Peter Hotez del Texas Children’s Hospital, tra le massime autorità vaccinali mondiali; da noi, com’è ormai arcinoto, nel microbiologo-parassitologo Andrea Crisanti. Tra i capi d’imputazione generali: la velocità di messa a punto dei vaccini e i consistenti rialzi azionari delle imprese a ogni annuncio (la procedura «speculativa»); tra quelli specifici, la carenza di dati trasparenti sulle fasi dei trials e sul biotech utilizzato. Sempre, nella storia dei vaccini, a partire dalle antiche «variolazioni», si sono accavallate aspettative e diffidenza, «la speranza e la paura» (come recita l’ultimo libro di Michael Kinch dedicato al tema); ma quella in corso è particolarmente acuta per la consistenza della novità. Per cercare di rispondere adeguatamente ai dubbi (o almeno provarci, perché qualcosa d’inevaso resta sempre) bisogna immergersi in un intreccio complesso, in cui aspetti scientifici e caratteriali dei soggetti coinvolti si sovrappongono, restituendo una ricostruzione tra il feuilleton e la sfida intellettuale, la competizione sana e quella patologica.

Alla sorgente del fiume: Katalin Karikó e (An)Drew Weissmann

Per avvicinare i vaccini (e molte altre tipologie di farmaci) del futuro quali quelli a mRNA, bisogna cominciare dal passato, con la figura centrale della storia, la biochimica ungherese Katalin Karikó (KK). Perché lì è la sorgente del fiume che sfocerà nel delta di Pfizer-BioNTech, Moderna e tante alte company analoghe. Oggi — anzi: in queste ore — in tanti la candidano al Nobel e la magnificano, e lei stessa parla di «redenzione», abbandonandosi in modo quasi toccante «sono così felice che ho quasi paura di morire»; specificando, subito dopo: «nel senso che ho sempre sperato di vivere abbastanza per vedere approvati farmaci come quelli che ho contribuito a creare».

Ma il tardivo riconoscimento — probabilmente impossibile senza la paradossale «serendipity» pandemica — è l’esito di un’emersione lentissima, dopo anni di stasi nell’opacità e nello sconforto, non certo rari nel mondo accademico.

Al punto che fino a qualche giorno fa era molto più nota di lei la figlia Zsuzsanna «Susan» Francia, una walchiria (188 cm. per 80 kg.) che vince due ori olimpici (2008 -2012) nell’8con di canoa.

Nata nel ’55 in un paesino di 12.000 abitanti della Grande Pianura a nordest (Kisujszallas), noto solo per la Casa del Merletto (testimonianza di una locale, inconfondibile tecnica di ricamo all’ago), KK completa gli studi nella vicina Szeged, città magnifica con un bellissimo quartiere universitario e una maestosa sinagoga. Lì, dal ’78 all’85, si fa le ossa nel centro di Ricerca Biologica, cominciando a sintetizzare l’RNA; poi, a 30 anni, accetta un invito della Temple di Philadelphia, mettendosi in viaggio col marito ingegnere, la bambina di due anni e un gruzzolo di 900 sterline ottenuto vendendo l’auto usata sul mercato nero e stipato in un orsetto di peluche.

 

Scienziate, miliardi, intrighi e rivoluzioni: dentro la battaglia Pfizer-Moderna per il vaccino Covid

 

In questa prima tappa americana, studia i pazienti di AIDS, le malattie ematologiche e la sindrome da fatica cronica, trattati con la tecnica dell’RNA a doppio filamento o dsRNA: ricerca pionieristica anche a livello oncologico, dato che il dsRNA incide sulla produzione di interferone, decisivo nel contrasto ai tumori.

Approdando dall’89 alla Pennsylvania University, KK comincia a concentrarsi sulla terapia genica a base di mRNA, ovvero sulla possibilità di utilizzarlo per istruire i ribosomi nella produzione di ogni tipo di proteine: «enzimi per ridurre gli effetti di una patologia, fattori di crescita per rigenerare funzioni compromesse del sistema nervoso, anticorpi per immunizzare da patogeni di ogni genere».

Da subito, però, emerge il problema principale: l’introduzione di mRNA artificiale nell’organismo può indurre il sistema immunitario a valutarlo come «not-self» molecolare e quindi ad attaccarlo, con un doppio blowback: l’interrompersi dell’istruzione per l’espressione proteica desiderata e una forte reazione infiammatoria. Problema emerso, del resto, anche in esperimenti di quel tempo (sui topi) all’Università del Wisconsin.

Sono anni in cui lavora sempre, compreso il Capodanno, spesso dormendo in ufficio, anche se le applicazioni terapeutiche che intravede (ora soprattutto nel trattamento di ictus e fibrosi cistica) vengono frustrate da una cronica penuria di finanziamenti.

Anche per questi dinieghi continui e penalizzanti (i «no no, no» che sente ancora echeggiare nella testa a distanza di decenni) nel ’95, in prossimità di ottenere la cattedra, viene invece «retrocessa ai ranghi più basi dell’Accademia».

Umiliata e avvilita, allarmata da una possibile diagnosi di tumore, il marito bloccato in Ungheria per problemi di visto, ha la tentazione di cedere, come succede spesso in parabole simili: «Andare altrove, o dedicarmi ad altro». Fino a dubitare di sé stessa, «di non essere abbastanza dotata, né abbastanza intelligente».

E come spesso in parabole simili, la differenza la fanno la tenacia e la fortuna. La tenacia di conservare la tensione creativa («immaginare esperimenti migliori», specie in rapporto al problema del «rigetto»); la fortuna di un incontro-break risolutivo: quello, nel ’98, con (An)Drew Weissman, un talentuoso immunologo laureatosi a Boston, ma di formazione biochimico, come KK (alla Brandeis di Waltham sotto un gigante come Gerald Fasman).

Davanti a una fotocopiatrice Xerox, Weissman spiega a KK che sta lavorando a un vaccino per l’HIV; e lei gli prospetta la possibilità di arrivare col tempo a prepararne uno «a mRNA», proprio la via che Weisman ha cominciato a esplorare l’anno prima. Inizia così, per i due nuovi colleghi, un «corpo a corpo» col problema del «rigetto»: e dopo sette anni ossessivi di tentativi ed errori, arrivano, nel 2005, a pubblicare uno studio rivoluzionario, in cui Karikó e Weissman descrivono la possibile soluzione.

Ogni filamento di mRNA è costituito da 4 composti chimici o mattoncini chiamati nucleosidi (adenosina, citidina, uridina, guanosina), la cui combinazione determina il tipo di istruzione proteica destinata ai ribosomi; ed è proprio uno di loro (l’uridina) a sollecitare nel sistema immunitario una risposta contro le molecole aliene dell’mRNA modificato. Ora, assemblando quest’ultimo con la pseudouridina al posto dell’uridina (cioè con una variante che circola naturalmente nel corpo umano), si riesce a «inibire fortemente» — aggirandola — la risposta delle sentinelle immunitarie. Con una metafora efficace, il comportamento dell’uridina è stato paragonato a quello di una «ruota disallineata» in un’auto: riallineandola con la pseudouridina, la configurazione molecolare non risulta più «sospetta». È una forma di «inganno», per inciso, per certi versi simile a quella escogitata proprio da alcuni agenti patogeni, come il Men B del meningococco, un batterio che per entrare nel nostro organismo si «traveste» dentro una molecola di zucchero ordinaria, non valutata dalla sorveglianza immunitaria come estranea.

Il sentiero per la messa a punto di un vaccino a mRNA è tracciato, ma il percorso è ancora (molto) lungo.

3. Moderna, fase prima: Derrick Rossi e gli «squali»

Negli anni successivi a quei risultati-spartiacque, KK e Weissman non riusciranno a sbloccare davvero l’impasse di finanziamenti per la loro ricerca.

A un certo punto proveranno a fondare una loro azienda, ottenendo dal governo un milione di dollari destinati a «sovvenzioni per piccole imprese». Meglio di niente. Ma subito dopo, la «Penn» venderà la licenza dei loro studi decisivi a Gary Dahl, il capo di un laboratorio di forniture mediche, Cellscript.

La loro scoperta-invenzione si svilupperà altrove, grazie alla percettività di due osservatori, gli unici a coglierne la portata in un panorama di indifferenza e disattenzione.

Due medici-scienziati di origini proletarie, quasi comuni; il canadese Derrick Rossi, figlio di un carrozziere (professione praticata per 50 anni); e il turco di Alessandretta Ugur Sahin, il cui padre emigra a Colonia quando lui ha 4 anni e lì mantiene la famiglia come operaio della Ford.

Si tratta delle due figure all’origine di Moderna e BioNTech.

Alla pubblicazione dello studio- spartiacque di KK e Weissman, Rossi non ha ancora 40 anni e sta concludendo un post-dottorato sulle staminali a Stanford. Folgorato da quel contributo, ne vede subito le implicazioni nel suo settore e cerca di svilupparle un paio d’anni dopo all’Harvard Medical School di Boston (dove ora è Ordinario), utilizzando l’mRNA nella versione «silenziata» della pseudouridina per istruire cellule staminali adulte a «riprogrammarsi» in embrionali totipotenti. In cellule, cioè, che possono poi diventare epatiche, muscolari, neurali, a seconda del loro impiego terapeutico ovvero rigenerativo. In questo modo, spera di aggirare in un colpo solo due ostacoli di quell’ambito: gli effetti collaterali di altre «riconversioni» simili (le IPS di Shinya Yamanaka, che sviluppano complicanze tumorali) e le resistenze etiche sullo stesso utilizzo degli embrioni. Dato che i risultati diventano più che promettenti, Rossi ne informa il collega Timothy Springer, che è anche imprenditore biotech; e questi informa a sua volta una figura leggendaria (ma ambigua) come Robert Langer, professore di ingegneria biomedica al MIT e inventore così prolifico da esser collegato a 400 brevetti tra farmaci e dispositivi medici.

Così, un pomeriggio di maggio del 2010 — nel momento di maggior fortuna di Rossi, infilato da Time nella top ten degli scienziati emergenti — i due colleghi di Harvard visitano Langer nel suo sancta sactorum a Cambridge, foderato da 250 attestati sui Premi vinti, tra cui il Charles Stark Draper Prize, il Nobel del biotech.

L’oggetto di quelle due ore di conversazione è ormai «materiale da leggenda».

L’unica certezza è che Langer intravede a sua volta nella tecnica ideata da KK e Weissmann un numero «sconcertante» di possibili applicazioni (di farmaci: vaccini inclusi) e torna a casa dalla moglie talmente euforico da abbandonarsi a una frase visionaria, quasi delirante: «Potrebbe essere il più grande successo dell’azienda». Peccato solo che quell’azienda (Moderna) ancora non esista.

Tre giorni dopo, Rossi si rivolge a un’altra company, Flagship Ventures (ora Pioneering), fondata e condotta da Noubar Afeyan, un imprenditore libanese di origini armene con molti meriti (ha sponsorizzato decine di startup biotech) ma, se possibile, molto più amorale e aggressivo di Langer. Anche lui si entusiasma, intravedendo benefici per l’umanità e profitti per sé (in ordine invertito).

Pochi mesi dopo, Rossi crede così di fondare con Moderna (acronimo di «Modified RNA») la propria company; in realtà, con quei due soci, sembra Pinocchio al campo dei miracoli col Gatto e la Volpe.

In breve, tutti guadagnano centinaia di milioni, dal suo collega Springer (il primo a investire) ai due dioscuri scienziati-manager, che ottengono fondi (e più tardi rialzi azionari del titolo) coi soli annunci di farmaci rivoluzionari. Decisivo, in questo ruolo, l’ingresso nel 2011 di Stéphane Bancel (ora CEO dell’azienda), artefice del finanziamento «astonishing» del 2013: 240 milioni di dollari per 40 farmaci potenziali da parte di AstraZeneca, altra potente Big Pharma (Cambridge inglese), in questi giorni alla ribalta a sua volta per il vaccino oxfordiano-italiano.

È un passaggio esemplare. Il neuroscienzato di origine greca Mene Pangalos plana da una Cambridge all’altra per avere lumi sulla seconda «grande questione» dei farmaci a mRNA (oltre al «rischio rigetto»): la stabilità molecolare, che vedremo tornare come decisiva nell’ambito dei vaccini. Bancel, per rassicurarlo, gli sottopone alcuni esperimenti-break, in particolare quello condotto da un altro dei co-fondatori di Moderna, Kenneth Chien, che mostra come tra un gruppo di topi sotto attacco cardiaco indotto vivano molto più a lungo (e con «cuori più forti») quelli curati con mRNA codificante, una proteina deputata allo sviluppo dei vasi sanguigni (VEGF). Il tutto eseguito in modo impeccabile con la tecnica della pseudouridina ideata da KK e Weissman.

Secondo Jason Schrum, un chimico uscito da Moderna poco prima di quel capolavoro di persuasione, la fase iniziale dell’azienda è connotata proprio da una non comune capacità di suggestione commerciale, esercitata prefigurando «panacee biofarmacologiche» sulla base di «molti dati generici» e «nessun allegato specifico». Tutto si tiene: nel 2014 Rossi, «imbarazzato» per il duo Langer-Afeyan (che l’avrebbe più volte calunniato, descrivendolo come interessato solo alle staminali e sordo alle altre implicazioni della medicina a mRNA), Rossi lascia per sempre la «sua» azienda.

4. BioNTech: i coniugi Sahin

È come per Katalin Karikó: a vederli ora, nelle foto celebrative di questi giorni, i coniugi Sahin (Ureg e la moglie, Özlem Tureci) sembrano sorridenti e sicuri come dei predestinati.

Invece, anche qui, si distende una storia complessa, tra opportunità offerte da un Paese occidentale e un mix unico di talento e tenacia nel coglierle da parte di migranti preparati e ambiziosi.

Sahin — che scopre la vocazione di medico già da bambino — ha un iter accademico-professionale in costante, paziente crescendo: laurea a Colonia e pratica nell’ospedale universitario (ematologia e oncologia); passaggi prima a Homburg, Università del Saarland, al seguito del suo supervisore di dottorato (dove studia il metodo Serex per l’identificazione di antigeni tumorali) e poi a Zurigo, dove lavora con due medici che entreranno nel comitato scientifico di BioNTech; e approdo a Mainz, la città di Gutenberg e oggi ricca di eccellenze tecnoscientifiche (oltre alla medicina, chimica e neuroscienze.), dove nel 2006 diventa Associato di oncologia sperimentale.

L’incontro con Özlem avviene nella tappa di Homburg: figlia di un chirurgo di Istanbul, la ragazza si sta laureando in immunologia. Fondendo le loro competenze, si dedicano così all’immunofarmacologia oncologica, accomunati da una ossessione stakanovista (altro parallelo con KK) che fa loro trascorrere il giorno del matrimonio (nel 2002) in laboratorio.

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Ma l’altra vocazione comune è quella imprenditoriale: già nel 2001 fondano Ganymed Pharmaceuticals, che li porterà a produrre l’anticorpo monoclonale zolbetuximab (specifico per tumori esofageo, gastrico e pancreatico) e che venderanno nel 2016 alla giapponese Astrellas per 1,4 miliardi di dollari.

Nel 2008, a Mainz, fondano invece BioNTech (Biopharmaceutical New Technolgies), dove iniziano a sperimentare farmaci a mRNA, ovviamente stimolati anche — se non soprattutto — dallo studio-spartiacque di Karikó e Weissman.

Fin dall’inizio, la strategia operativa e lo stile sono opposti a quelli di Moderna: per i primi 5 anni, Sahin decide di operare — secondo le sue stesse parole — in «modalità sottomarino», concentrandosi sulla ricerca pura, coordinata col suo laboratorio universitario e senza particolari promesse o proclami.

In coerenza con questo stile austero, Sahin mantiene abitudini quotidiane sottotraccia, dalla semplice mail universitaria al transito casa-azienda e viceversa con una mountain bike vecchia di 20 anni, anche perché non munito di patente.

Terminato il quinquennio, tutto cambia: l’impresa comincia a pubblicare i suoi risultati (150 papers in 7 anni) e Sahin annuncia per il trattamento immunologico del cancro una partnership con 8 aziende farmaceutiche e l’allestimento di 13 complessi specifici per i trials chimici.

Il tutto completato e corredato — come in un disegno circolare — dall’assunzione di Katalin Karikó (diventata ora Senior Vice President), «soffiata» proprio a Moderna.

Un acquisto fondamentale, va da sé: perché se anche KK, al momento, è impegnata soprattutto sul fronte delle malattie rare (come l’epydermolysis bullosa, un severo disordine della pelle che causa vesciche dolorose, specie nei bambini), la sua presenza non può non esser stata determinante nella messa a punto del vaccino a mRNA di questi mesi.

In questi ultimi 7 anni, BioNTech è cresciuta così fino all’assetto attuale (1500 dipendenti); accordi e partnership si sono moltiplicati (come quello dell’anno scorso con la Bill e Melinda Gates Foundation per la ricerca su tubercolosi e HIV), e il valore dell’azienda dopo la pubblicazione del vaccino in partnership con Pfizer, è salito da 3,4 miliardi di dollari a 25.

Ma il quadro è davvero così ruvidamente manicheo? Davvero BioNTech sta a Moderna come un’azienda virtuosa e trasparente a una composta da «squali», eticamente opaca? E se così fosse, come avrebbe fatto Moderna ad arrivare a un vaccino così sofisticato, per diversi aspetti migliore di quello di Pfizer-BioNTech?

5. Moderna, fase seconda: Melissa Moore

Non c’è dubbio che Moderna continui a restare, non solo in superficie, un’azienda glamour, legata alla mistica delle «esibizioni» di Bancel, coi suoi completi firmati e la sua intonazione suadente e impostata; e una location cool anche negli interni di Kendall Square, dove i 430 dipendenti distinguono le stanze dei superiori dalle foto in biancoenero sulle porte.

Così come non c’è dubbio che dietro i proclami si siano accumulati i flop (tecno) scientifici: da un lato il fallimento di trials come quello (in sinergia con Alexion) proprio sulle malattie rare come la Crigler-Najjar; dall’altro il «ripiegare» sui vaccini in quanto unico farmaco a mRNA a necessitare di dosaggio basso (quello alto, necessario in altre patologie, comporta ancora rischi di risposta immunitario-infiammatoria). E a cornice, l’accusa formale di Nature, nel 2016, di non fornire mai paper «peer-review» (a revisione paritaria tra scienziati) sulle sue biotecnologie.

Però, soprattutto a partire dal 2016, la company muta nel profondo.

Il break è dovuto soprattutto all’arrivo di Melissa Moore, una sorta di Kathy Bates (non in versione Misery) posta al vertice della gerarchia scientifica.

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Nata a New Market (Virginia), studi di biochimica e biologia molecolare tra MIT, Brandeis e Worcester, la Moore ha trascorso 20 anni a studiare (quasi) solo «come l’RNA nascente si giunta al nucleo e si lega alle proteine per diventare un complesso denominato ribonucleoproteina messaggera o mRNP». In sostanza, una «sequenza» molto specifica nell’attività dell’mRNA.

Ne conosce i segreti al punto da rivendicarlo con forza («sono la più grande esperta al mondo») quando Tony De Fougerolles, al tempo responsabile scientifico di Moderna, prova a contattarla; e oggi, rievocando quell’atteggiamento sfrontato e per lei «inusuale», lo giustifica come conseguenza dell’esasperazione nel vedere le compagnie biotech monopolizzate da «scienziati».

Una battaglia da «parità di genere» molto poco in linea col board di Moderna.

Fatto sta che arriva ai vertici dell’azienda, pur con qualche esitazione: l’anno scorso, diventando Chief Scientific Officer, dichiara che magari a 80 o 90 anni potrebbe guardare indietro e pentirsi di non aver pubblicato più paper o formato più studenti. Ma in quel momento, il Covid è ancora lontano.

Grazie soprattutto a lei, Moderna diventa la company biotech leader nella medicina a mRNA.

E qui i dettagli, per quanto tecnici, sono decisivi, perché spiegheranno anche le differenze tra i vaccini anti-Covid.

Su un versante, Moore e Moderna approfondiscono gli studi spartiacque di Karikó e Weissman.

Si accorgono, infatti, di come le modifiche ai nucleosidi (uridina in primis) per rendere l’mRNA più elusivo del sistema immunitario possano renderlo allo stesso tempo meno riconoscibile al ribosoma. Secondo un’acquisizione specifica della Moore, sembra cioè che le pieghe e gli anelli creati dai legami «artificiali» tra i nucleosidi nel filamento possano intralciare la produzione di proteine: «troppa struttura» potrebbe costringere il ribosoma a fare più lavoro per districare il filamento e arrivare addirittura a bloccare la «traduzione» di informazione.

E esperimenti ulteriori mostrano come — al contrario — filamenti di mRNA con nucleosidi che tendono a formare «legami stretti» siano più facili da tradurre per il ribosoma.

E qui entrano in scena i bioinformatici, grazie ai cui studi si riesce a capire come frequenza e posizione dei nucleosidi modificati mutino proprio il loro modo di piegarsi e quindi di interagire col ribosoma, facilitandone e contrastandone il compito; e siccome ogni proteina — cioè ogni «farmaco» — può essere codificata da trilioni e trilioni di sequenze di nucleosidi, si tratta di selezionare quelle più efficienti.

Il contributo decisivo viene fornito da una chimica quantistico-computazionale, Michelle Lynn Hall (Ely Lilly e Columbia University), i cui calcoli individuano un algoritmo in grado di predire appunto, per una data proteina da produrre, la sequenza nucleosidica più adatta, «la struttura più appetibile» per il ribosoma.

In questo modo, il limite dello studio di Karikó-Weissman (la «coperta corta» tra sistema immunitario e ribosoma) viene colmato.

Su un altro versante, Moderna progredisce anche rispetto al problema già accennato della stabilità molecolare dell’mRNA, composto che tende a degradarsi velocemente per la sua altissima instabilità, dovuta all’ingente quantità di enzimi presenti, e quindi all’incessante brulichio di reazioni chimiche; una tendenza che espone un farmaco a mRNA al rischio di frantumarsi prima di arrivare al citoplasma e al ribosoma.

Pare sia stato lo stesso Weissman a intervenire per primo «impacchettando» la molecola in nanoparticelle lipidiche, pratica poi imitata da tutti.

Il punto-chiave è che siccome l’mRNA è molto più largo, ad esempio, dell’RNA usato nelle «terapie da interferenza» (vedi certe sindromi neurodegenerative), l’involucro è difficile da stabilizzare e da far smaltire all’organismo, con relativi rischi di tossicità, al fegato in primis. Lo sforzo di Moderna, in questo senso, è stato ed è quello di arrivare a involucri meno tossici cioè a nanoparticelle lipidiche più biodegradabili o anche a involucri «non-lipidici» come certi polimeri, strutture porose «intervallate» dall’ mRNA desiderato.

Questo doppio livello di acquisizioni potrebbe in prospettiva, per inciso, facilitare anche l’impiego di mRNA a maggior dosaggio e per tempi prolungati, e quindi la cura di varie altre patologie, dalle distrofie muscolari alle malattie epidermiche studiate da Karikó.

Ma già ora è probabilmente la chiave della differenza principale tra il vaccino a mRNA di Pfizer-BionNTech (BNT162b2) e quello di Moderna (mRNA1273): perché e proprio la diversa stabilità strutturale a richiedere nel primo una temperatura di conservazione molto più bassa (tra -80° e -70°) con le conseguenti difficoltà di stoccaggio e trasporto (nonostante container a materiale isolante e ghiaccio secco). E lo stesso vale per la conservazione, col primo che degrada dopo 5 giorni a refrigerazione normale, l’altro che può durare fino a 6 mesi, restando attivo fino a 30 giorni dopo lo scongelamento (fino a 4 gradi). Non a caso, Pfizer sta studiando una versione del vaccino «in polvere» proprio per ovviare a inconvenienti così penalizzanti.

6. Il delta del fiume: i vaccini a confronto e la morale della storia

Com’è noto — anche ai complottisti, che ne fanno un cardine dei loro sospetti — la sequenza genica di Sars CoV-2 è già disponibile il 10 gennaio, data in cui subito si attivano sia BioNTech (poco dopo in sinergia con il «colosso» Pfizer, con cui ha già collaborato per progetti a mRNA) che Moderna, ugualmente e diversamente preparate.

La differenza operativa di fondo consiste nei rapporti col governo americano: Moderna ha beneficiato di sovvenzioni, Pfizer ha preferito smarcarsene, promettendo di coprire interamente eventuali perdite da fallimento della fase 3 dei trials; anche se tutte e due hanno ricevuto prenotazioni generose: 100 milioni di dosi ciascuna, Pfizer-BioNTech per 1,95 miliardi, Moderna (dose singola più costosa: 25 $) per 2,48.

Il che si riverbera anche su un diverso approccio di gestione dell’azionariato, con Moderna che ha monetizzato nel corso dell’anno — con diversi annunci nel suo «stile». Ripetuti «rialzi» su cui avrebbero guadagnato azionisti stessi dell’azienda come Bancel o il responsabile scientifico Tal Zaks.

Pfizer e BioNTech, come abbiamo visto, si sono limitate a incassare il macro-rialzo all’annuncio del vaccino.

Quanto alla risposta biotecnologica, tutto si svolge invece su un terreno comune. Tutte e due le company non necessitano del virus «fisico» (una cui variazione «attenuata» è invece la prassi per i vaccini tradizionali), ma basta loro la semplice sequenza genomica. E tutte e due — come abbiamo appreso in questo viaggio innescato dalle intuizioni di KK e Weissman — ricorrono alla stessa «manipolazione»: inseriscono nell’mRNA un «frammento critico» del genoma virale, quello che andrà a esprimere, via ribosoma, una specifica proteina (in questo caso la famosa «s» o «spyke» che Sars-CoV-2 utilizza per agganciarsi ai recettori ACE2 delle nostre cellule e colonizzarle), in modo da allertare il sistema immunitario, fargli «memorizzare» i tratti molecolari del virus e produrre gli anticorpi adeguati.

Istruito da questa «anteprima», il sistema immunitario — all’ingresso del virus vero e proprio — sarà pronto a scatenare le difese.

In tutto questo, si coglierà un piccolo paradosso: il sistema immunitario deve essere prima «ingannato» affinché non attacchi l’mRNA artificiale (secondo la tecnica di KK e Weissmann), poi adeguatamente sollecitato.

Sul piano strettamente farmacologico-clinico, i due vaccini variano infine leggermente per gli effetti collaterali (dai pochi dati attuali costituiti da un set esteso dalla spossatezza all’emicrania, passando per gli eritemi) e per la distanza tra le due somministrazioni (tre settimane per Pfizer; un mese per Moderna); mentre le incognite da chiarire sono sulla durata dell’immunità, sulla capacità di proteggere da complicanze gravi e di essere attivi nelle persone anziane (due requisiti che Moderna sembra possedere) e, su tutto, se il vaccinato possa essere portatore sano o no, contribuendo, nel secondo caso, all’immunità di gregge.

Tutti snodi che verranno chiariti in comunicati o paper imminenti (annunciati da Pfizer; più elusiva, al solito, Moderna).

Ricordando a scettici di ogni tipologia — razionali o complottisti — che nel caso in cui non fossero garantite efficacia e sicurezza, nessuna agenzia del farmaco (dalla FDA all’AIFA) autorizzerà la somministrazione.

Non a caso — al momento — vaccini prodotti per via più tradizionale e di messa a punto più lenta (col patogeno «attenuato») potrebbero offrire maggiori garanzie complessive.

Le cinque lezioni di una «battaglia»

La prima «lezione» della «battaglia» tra Pfizer-BioNTech e Moderna è quindi sulla matrice altamente innovativa, diciamo pure rivoluzionaria, dei farmaci a mRNA (di cui i vaccini sono solo una costellazione minore) e nello stesso tempo sul fatto che — come ogni rivoluzione in fase di avvio — ci vorrà un assestamento.

La seconda lezione — quasi tautologica — è sull’incidenza delle scienziate: la storia della (tecno)scienza e della medicina è marcata da tanti talenti al femminile (da Barbara Mc Clintock a Rita Levi Montalcini, tacendo di Marie Curie), ma quella dell’emersione della medicina a mRNA, come abbiamo visto, lo è più di altre, con le figure-chiave di Katalin Karikó e Melissa Moore.

La terza è sull’importanza della competizione, in questo caso un acceleratore ulteriore nella risposta già rapidissima con cui abbiamo adattato conoscenze pregresse (quelle sull’mRNA) alla sfida di un patogeno nuovo; anche se Weissman definisce tale risposta come «relativamente facile», specie rispetto alle difficoltà di trovare un vaccino contro l’HIV o— come lui già prefigura — un vaccino universale contro tutti i coronavirus.

La quarta lezione — corollario della terza — è che la competizione può persino contemplare la partecipazione di concorrenti «amorali» come Moderna. Certo, la loro latitanza sui dati è stata a lungo irritante-inquietante: ma se non si vuole credere al loro «diabolico» Ceo (che ha giustificato quella latitanza con la finalità di non «incasellare» l’azienda in un settore specifico, impoverendone obiettivi e valore), non si può ignorare come molti ricercatori (per esempio Daniel Anderson, genetista molecolare al MIT) trovino legittimo, in un ambito fitto di competitors come quello biotech, che un’azienda comunichi i propri dati e risultati solo ai propri finanziatori o partner. E comunque Stephen Hoge — presidente di Moderna —negli ultimi mesi ha cominciato ad aumentare la trasparenza di dati medico-farmacologici, consapevole che in una fase di farmaci in approvazione certe elusività non sono più consentite.

L’ultima lezione — brutale — è più che altro un memento: non dimenticare il contrappunto d’apertura tra il Massachusetts di oggi e quello di inizio ‘700; tra due pandemie così diverse per l’impatto (non solo demografico) e per la distanza tra le due discussioni immunofarmacologiche, con quella attuale sui vaccini che fa assomigliare quella sull’inoculazione del vaiolo a una valutazione sulla roulette russa.

FONTI
Il libro: Michael Kinch, «Between Hope and Fear: a History of Vaccines and Human Immunity», Pegasus Books, 2018.

Studi e articoli principali:

Damian Garde-Jonathan Saltzman, The Story of mRNA: How a once-dismissed idea became a leading technology in the Covid vaccine race, STAT, 10 novembre 2020;

Julia Kollewe, Covid vaccine technology pioneer…, The Guardian, 21 novembre 2020;

Kelly Servick, The mysterious $2 billions biotech is revealing the secrets behind its new drugs and vaccines, Science, 25 marzo 2020;

Sanjai Mishra, How mRNA vaccines from Pfizer and Moderna work.…, The Conversation , 18 novembre

Sorgente: Vaccino Covid, la guerra Pfizer-Moderna per la rivoluzione dell’mRna- Corriere.it

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