0 5 minuti 3 anni

Nel 2005 l’omicidio del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. La vedova: “Aveva denunciato la collusione. Gli risposero col piombo”

REGGIO CALABRIA –  “A Locri l’azienda sanitaria ha continuato a versare lo stipendio a un dipendente che non prestava servizio perché detenuto”. Bastano due righe nascoste dentro un documento per capire come siamo arrivati allo sfascio, alla bancarotta della Calabria. Nel 2006, una commissione timbrò quello che tutti sapevano: studi medici, centri di ricerca cardiovascolare, laboratori di analisi erano di proprietà diretta o via prestanome delle famiglie storiche di ‘ndrangheta della jonica, i Nirta, gli Ursino, i Morabito. E i figli dei boss erano diventati medici, specialisti, dentisti nelle strutture pubbliche. Promossi senza incarico, premiati per paura.

Era lo scenario in cui fu ucciso nel 2005 Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale, dirigente della Margherita. “Aveva denunciato tutto al Tribunale di Locri con nomi e cognomi, fogli ritrovati in un armadio a venti giorni dalla prescrizione. Intanto è arrivata la risposta, di piombo”. La vedova Maria Grazia Laganà, anche lei medico ospedaliero, ha la voce rotta. Da tre anni sta al ministero della Salute, a Roma. “Mi è stato suggerito e consigliato di stare lontana da ambienti ostili. Vedere di nuovo la Calabria in prima pagina mi avvilisce, ho vissuto tutto questo sulla mia pelle. Mio marito non si occupò soltanto dell’ospedale di Locri, ma di un sistema regionale che favoriva il malaffare”.

Morti ammazzati, morti di malasanità, non è forse la stessa cosa? All’ospedale di Vibo, l’unico oggi rimasto in un’area di 50 comuni, Federica Monteleone morì per un black-out in sala operatoria: aveva appena 16 anni e voleva fare la giornalista. La città aspetta da anni un nuovo, più moderno edificio. I boss intercettati da Gratteri si dicono: “Lo dobbiamo fare noi”. A Bovalino, l’altro ieri, un’ambulanza è arrivata dopo un’ora: troppo tardi per una donna di 95 anni. “E ora ammazzateci tutti” fu lo slogan dei giovani calabresi dopo l’omicidio Fortugno, in un certo senso potrebbe valere anche adesso. La rabbia è qui: strutture che non funzionavano già prima del Covid, soldi a pioggia senza gare, “per la continuità del servizio”. Ascensori guasti, cardiopatici portati in braccio. Maria Grazia Laganà aggiunge: “E’ anche una questione politica: è stato il centrodestra a chiudere gli ospedali, a tagliare il personale”.
Ma dagli appalti per le pulizie alla scelta dei primari, i boss hanno sempre cercato di dire la loro. Molto spesso hanno vinto. Nel documento di scioglimento della Asp di Reggio nel 2019 (tutti gli ospedali della provincia, escluso il più grande) si legge che l’azienda ha omesso di chiedere alle ditte il certificato antimafia. Non ha presentato bilanci dal 2013, molte ditte sono state pagate due-tre volte. La spesa è stata costantemente superata. Secondo Transparency International, il 70% dei casi di corruzione nella sanità si verifica in 4 regioni: oltre alla Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.

Nella Piana di Gioia Tauro, per esempio, l’intreccio salute-‘ndrangheta è letteratura. C’era una volta un boss che si chiamava Francesco Macrì, detto Ciccio “Mazzetta”. Era professore di francese e girava in Rolls Royce. Dominava la Usl 27, elargiva favori e assumeva a chiamata. Il suo impero finì grazie a un grande cronista, Joe Marrazzo, alla fine degli anni ’90. La chiamavano l’Onorata Sanità, come ha scritto la ricercatrice Adelia Pantano. Ma anche oggi certe domande e certe assegnazioni sconfinano nel grottesco: ma guarda, in questa cooperativa sociale sono tutti parenti.

Come uscirne? Rubens Curia, ora messo a capo della task-force anti Covid a Reggio, agli inizi della carriera era l’unico iscritto alla Cgil dell’ospedale di Palmi. Ha scritto un libro per Città del Sole Edizioni in cui ha raccontato non solo lo sfascio, ma la strada per uscirne. “Contro la criminalità servono competenza, trasparenza, partecipazione. Il commissario deve essere affiancato da una squadra nuova, che superi gli interessi di chi sta da anni nell’azienda sotto esame. Trasparenza è anche far conoscere le strutture che funzionano, non far scappare i pazienti. La partecipazione? Il Consultorio di Melito Porto Salvo funziona bene, è pubblico, e quindi dà fastidio: è nata una associazione di donne per proteggerlo. I pazienti cronici creano comitati di lotta. A San Giovanni in Fiore le associazioni hanno portato una unità mobile per le mammografie. Queste risposte non placano la mia rabbia, ma mi danno speranza”. La Mafia sulla salute può cadere.

In quella relazione del 2006 a Locri, fu esaminata anche la posizione di 366 medici. Di questi, ventiquattro avevano precedenti penali significativi e relazioni pericolose. Grazie oggi a quei 342 che in tutti questi anni hanno lavorato in una cornice maledetta.

Sorgente: La mano delle cosche sull’onorata sanità – la Repubblica

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20