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Piove? Chiamate Mimmo! Manca solo che gli appioppino pure il meteo, così che in caso di maltempo il governo si ripari dal malumore popolare. Tra le macerie del Covid-19 ecco s’avanza uno strano ircocervo, oggi Figaro e forse domani Malaussène: poiché questo è il destino degli aggiustatutto italici, prima invocati in ogni dove (perché decidano) e poi capri espiatori (del decisionismo).

Lui, Domenico Arcuri, reggino a forte carica identitaria («sono di Reggio Calabria e a Reggio non cambiamo idea facilmente!», tuona all’occasione), mostra abbastanza considerazione di sé da agguantare le scommesse che il premier Conte gli va lanciando senza tregua: da nuovo Uomo del Fare. A giugno, tra polemiche furiose sulla gestione della pandemia, mascherine e tamponi fantasma, reagenti e forniture introvabili, sostenne papale: «Abbiamo fatto tutto in 85 giorni. Per una volta sarebbe davvero bello se tutti ci accorgessimo che siamo stati straordinari».

 

Non tutti furono d’accordo.
La stampa di destra lo chiama Mister Disastro, quella liberista gli dà dello statalista, una fondazione come Openpolis addirittura lo accusa di operare «col favore delle tenebre» perché può amministrare in autonomia; e comunque, tenebre o meno, è difficile non vedere il rosario di ritardi e mancanze sgranato fin qui (tra banchi a rotelle e/o dimezzati, bandi tardivi, terapie intensive virtuali). Gli hanno appena affibbiato l’ulteriore missione quasi impossibile di distribuire i vaccini anti-Covid senza caos (la distribuzione di quelli per l’influenza è risolta dall’assenza della materia prima). Quando è emerso l’ennesimo incarico – occuparsi della grana Ilva in quanto amministratore delegato di Invitalia – un opinionista garbato come Giorgio Meletti ha esplicitato la domanda che frulla in testa agli italiani tutti: «Ma quante ore dura la giornata di Arcuri?».

Dicono che la sua polverina magica sia l’ambizione e che lui abbia da un pezzo messo nel mirino la prossima (ambitissima) poltrona, quella di Leonardo, ex Finmeccanica. Un premio, certo, ma anche una corsa contro il tempo, perché le rogne da super commissario agli approvvigionamenti per la nostra precaria salute, incarico assunto a metà marzo, sono tali da disegnare sul muro il profilo non proprio fortunato di un altro famoso Mister Wolf nazionale: Guido Bertolaso. Dieci anni fa, era lui il mago del terremoto all’Aquila, poi spedito sul G8 con il principio che ogni ritardo potesse essere curato saltando in emergenza le procedure. Si sa poi com’è andata: solo due anni fa il pupillo di Berlusconi si è liberato da un fardello di accuse e processi che ne aveva cancellato l’immagine pubblica.

Arcuri è autorizzato a riti apotropaici, ma lui per primo pare rendersi conto del problema. In una intervista rivelatrice con Federico Fubini, due mesi prima della pandemia, spiegava così l’attrazione del governo per Invitalia, l’agenzia pubblica per gli investimenti che guida dal 2007: «Abbiamo guadagnato una qualche considerazione… In giro non ce ne sono molti”, a mettere mano in “un Paese che non cresce, sempre più diseguale…».

Carlo Calenda, che usa i tweet come pasquinate, ha scritto l’altro giorno che il Covid-19 «segna la crisi definitiva dello Stato». Se ha ragione, Arcuri è un epifenomeno: beato il Paese che non ha bisogno di Mandrake. Nella sua lotta al nulla che avanza rivela, certo, propensioni politiche assai diverse da Bertolaso. La querelle che più l’ha esposto è, si sa, quella sulle mascherine da lui promesse in misura di diversi milioni di pezzi al prezzo calmierato di 50 centesimi, con l’effetto grottesco di farle scomparire dal mercato. Il nostro se n’è adontato, creando la categoria del radical chic di destra, i liberisti da talk: «Chi critica i 50 cent ha una doppia morale: per quelli che s’indignano in diretta non è mai un problema trovare una mascherina a 5 euro. Per il figlio del loro portiere, sì».

Con rivendicate simpatie «di centrosinistra», Arcuri pare una versione minore di grandi boiardi d’antan, convinto che un’ordinanza possa davvero modificare la realtà. Si dice scoperto da Romano Prodi («chiamò all’Iri dieci di noi ben laureati della Luiss») ma molti sostengono che l’incontro decisivo sia quello con Massimo D’Alema, con cui di sicuro condivide l’avversione per giornalisti e salotti intellò. Poiché al cuore non si comanda, ha condiviso invece un lungo tratto di vita sentimentale con una brava giornalista regina dei salotti, Myrta Merlino, sua ex moglie. La loro figlia diciannovenne guardava in tv gli ospiti del talk materno che massacravano la gestione sanitaria e, cambiando canale, il babbo che la rivendicava in conferenza stampa.

La difesa di Arcuri poggia sullo status quo ante: «Non avete idea di cosa abbiamo trovato», sostengono i suoi collaboratori, rovesciando la sciarada di cifre e accuse. E, guardando all’attuale teatrino dei presidenti di Regione, pare plausibile. A marzo, ragione dell’incarico ad Arcuri è stata del resto la palese difficoltà della Protezione civile, regionalizzata dopo gli anni di Bertolaso e paralizzata da un morbo diffuso negli uffici: la fuga dalle decisioni per timore di conseguenze giudiziarie (Bertolaso docet). Forse così si spiega l’ossessivo ricorso a un ambizioso kamikaze («in giro non ce ne sono molti», ricordate?). Forse, l’altra faccia di protagonismi ed eccessi è questa palude che tutto inghiotte. Insomma non si può escludere che esista un’Italia peggiore di quella con Arcuri. Quella senza.

Sorgente: Domenico Arcuri: Myrta Merlino, Romano Prodi, i ritardi, l’ambizione dell’uomo dai mille incarichi- Corriere.it

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