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25 April 2024
0 9 minuti 4 anni

Le regioni compiono 50 anni: l’autonomia doveva ridurre il divario, la pandemia ha dimostrato il fallimento di questo progetto: sistemi sanitari e aspettative di vita diverse da zona a zona 

ISAIA SALES

  • Una delle conseguenze più rilevanti del regionalismo all’italiana è che in un’unica nazione abbiamo costruito venti diversi sistemi sanitari.
  • Oggi di fronte alle stesse esigenze di cura e di prevenzione (fare i tamponi per il Covid-19, vaccinarsi contro l’influenza, avere a disposizione un numero sufficiente di terapie intensive, essere seguiti e monitorati dai servizi territoriali o dal medico di base) registriamo venti risposte diverse.
  • E’ compatibile il valore della comune cittadinanza italiana con strutture, cure  e capacità che cambiano drasticamente a seconda del territorio in cui si vive e si risiede?

Sono passati esattamente 50 anni dalla nascita delle Regioni nel 1970. L’anniversario capita nel pieno cioè di una pandemia che ha sì unito tutti gli italiani alle prese con le stesse fragilità, ma al tempo stesso li ha nettamente differenziati (e li differenzierà ancora di più nei prossimi mesi) per la diversa efficacia nei farvi fronte.

Se questo è il momento della massima visibilità dei presidenti delle Regioni italiane e della massima presenza nel dibattito politico e mediatico dell’istituto regionale, è al tempo stesso il frangente storico in cui le Regioni hanno dimostrato enormi limiti e ambizioni non sorrette da capacità adeguate. Alcuni “governatori” hanno usato il potere delle ordinanze per sfidare le competenze nazionali e comportarsi come padroni, più che come amministratori del loro territorio.

Il caso della partita Juventus-Napoli e della chiusura totale delle scuole solo in Campania (contro il parere del governo centrale) rivelano una dilatazione di poteri non disciplinati da una comune visione delle priorità e degli interessi nazionali.

Una delle conseguenze più rilevanti del regionalismo all’italiana è che in un’unica nazione abbiamo costruito venti diversi sistemi sanitari, e oggi di fronte alle stesse esigenze di cura e di prevenzione (fare i tamponi per il Covid-19, vaccinarsi contro l’influenza, avere a disposizione un numero sufficiente di terapie intensive, essere seguiti e monitorati dai servizi territoriali o dal medico di base) registriamo venti risposte diverse.

E’ compatibile il valore della comune cittadinanza italiana con strutture, cure  e capacità che cambiano drasticamente a seconda del territorio in cui si vive e si risiede?

La domanda che ci poniamo oggi è la stessa che tanti meridionali si ponevano prima della pandemia: le Regioni sono state utili a farci superare le differenze economiche che avevamo con il Centro-Nord prima della loro nascita? No, nessuna delle 8 regioni meridionali negli ultimi 50 anni ha superato per reddito e attività produttive una regione del Centro-Nord.

Le Regioni sono servite almeno a ridurre le differenze tra le due Italie nel campo dei servizi ai cittadini? No, il divario in questi campi (asili nido, assistenza domiciliare ad anziani e disabili, trasporti, strutture sanitarie e scolastiche) si è anch’esso accentuato. Si sono esasperate sul piano della salute e dei servizi sociali quelle differenze che già esistevano sul piano della ricchezza.

LA VITA PIÙ BREVE

Partiamo dalle aspettative di vita: come conciliare il fatto di vivere nella stessa nazione e morire 3 o 4 anni prima a seconda se risiedi nel Trentino o a Canicattì? In uno dei suoi libri più acuti e controversi (L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988) lo storico Silvio Lanaro  ricordava che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento la speranza di vita di chi risiedeva nel Nord era in media di quasi due anni inferiore rispetto a chi, invece, viveva al Sud. Attribuiva quella disparità alla “mortalità da progresso”, cioè al fatto che lo sviluppo industriale e lo stress da benessere causavano più tumori e infarti.

Nel giro di poco più di 30 anni, la situazione si è totalmente capovolta. Le statistiche sanitarie ci dicono che, oggi, chi vive nel Sud muore in media due anni e mezzo prima di chi risiede al Nord. Certo, si vive in genere molto di più rispetto a 50 anni fa, ma questa condizione non è omogenea e ha degli sbalzi impressionanti non solo a seconda di quanto si guadagna e del titolo di studio che si possiede ma anche a seconda dei territori in cui si risiede e delle strutture sanitarie in cui si è curati.

Poter acquistare tutti i farmaci necessari, godere delle cure prescritte senza preoccupazioni economiche, alimentarsi in maniera adeguata, seguire uno stile di vita più salutare: sono queste le condizioni minime per allungare la vita, avere minori acciacchi nella vecchiaia e sopravvivere più a lungo a una malattia potenzialmente mortale.

Anche andarsi a curare al Nord, cioè ricorrere all’emigrazione sanitaria, impone un costo elevato per i viaggi e dunque non sempre è consentita ai possessori di redditi minimi. E poiché ci sono più poveri e più indigenti al Sud, ciò influenza sicuramente il fatto che la Campania sia il territorio con il più alto tasso di mortalità (seguita dalla Sicilia) secondo l’Osservatorio nazionale della salute nelle regioni italiane.

E se a Napoli e Caserta la speranza di vita si ferma a 80 anni e sei mesi, a Rimini e a Firenze si arriva a 84 anni.  La media in tutte le regioni del Mezzogiorno è di 79,8 anni per gli uomini e di 84,1 per le donne, nella provincia autonoma di Trento invece è di 81 anni e mezzo per i maschi e di ben 86 anni e 3 mesi per le femmine.

E’ evidente, dunque, che i maggiori poteri in materia sanitaria alle Regioni coincidono temporalmente con la radicale trasformazione della durata media della vita degli italiani. La disuguaglianza delle prestazioni sanitarie sembra incidere sulle aspettative di vita almeno (se non più) delle condizioni economiche o di istruzione. La regionalizzazione della sanità ci ha resi e ci rende diversi di fronte alla vita e alla morte.

MORTALITÀ DIFFERENZIATE

L’Italia è una nazione a mortalità differenziate. Campiamo di più o moriamo prima non solo per scelte soggettive (mangiare male, fumare, bere alcolici, fare lavori pesanti, possedere meno soldi, andare di meno in vacanza, etc.) ma per condizioni oggettive dei territori in cui risiediamo e in cui sorgono le strutture sanitarie (cure sbagliate o non adeguate, incapacità di diagnosticare rapidamente le patologie mortali o di aggredirle in tempo). Dal 2009 al 2016 le quattro più grandi regioni meridionali hanno pagato oltre 7 miliardi di euro alle regioni del Nord a causa della migrazione sanitaria. Quante strutture di eccellenza il ministero poteva costruire nel Sud (e gestire direttamente) con quelle risorse e quante terapie intensive in più si potevano costruire?

L’andamento della pandemia nella prima fase ha fatto passare in secondo piano questa situazione. Gli errori compiuti in Lombardia hanno permesso a qualche “governatore” meridionale di vantarsi di successi inesistenti. Ora che il covid-19 comincia a colpire di più anche sotto il Garigliano, sta venendo fuori quello che le statistiche sanitarie indicavano all’inizio del 2020: tutto il Sud ha un sistema sanitario in grande difficoltà e incomparabile rispetto al Centro-Nord.

Certo, ci sono le eccezioni, ospedali di primo livello, reparti all’avanguardia, medici e ricercatori di talento. Ma non possiamo vantare in nessuna regione del Sud un sistema sanitario migliore di una regione del Centro- Nord. Questa è la realtà.

Nei mesi scorsi forse bisognava avere il coraggio di guidare centralmente un rapido allineamento dei servizi per fare fronte al Covid-19 e avviare una rapida perequazione nei servizi sanitari.

Per esempio, si potevano comprare centralmente i vaccini antinfluenzali senza questa assurdità di farli a settimane di distanza nell’una o nell’altra  regione e a costi così differenziati. E riflettere su questa contraddizione palese: costituzionalmente viene prima il diritto alla salute e ad essere curati allo stesso modo dovunque si risieda, o l’autonomia regionale anche quando questa contrasta con l’esigenza di garantire uguali servizi a tutti gli italiani? Se le competenze regionali sono un ostacolo a questo diritto, lo si faccia valere dal centro.

Sorgente: Le regioni italiane fanno male alla salute (anche prima del Covid)

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