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Nel Nagorno Karabakh demolita anche la cattedrale di Shusha. Erdogan: il conflitto si risolverà solo con il ritiro delle forze di Erevan

Dall’inviato a Beirut. Dopo giorni di raid incessanti gli ufficiali azeri sul fronte di Jibrail hanno notato che le postazioni avanzate armene erano vuote. È un attimo. Le immagini aeree fornite dalla Turchia danno conferma, le forze nelle retrovie vengono messe in allerta. Una fila di camion e blindati comincia a risalire la valle lunga e stretta che corre nella parte meridionale del Nagorno Karabakh, quasi al confine con l’Iran. Il terreno è boscoso, gli spazi di manovra minimi. Gli armeni hanno nascosto dietro le creste delle colline i loro obici di fabbricazione sovietica da 122 e 152 millimetri. I proiettili piovono sulla colonna, i soldati azeri sono costretti a ritirarsi, a piedi, abbandonano i mezzi. Una manovra da manuale che permette al comando militare armeno di rivendicare la «distruzione di tre brigate». Un video diffuso sui social mostra i camion nemici in fiamme.

L’ampiezza del successo è esagerata, come tutto nella guerra di informazione che accompagna quella vera. Gli armeni usano al meglio la strategia della «difesa in profondità», il terreno li aiuta. Ma sanno anche che possono schierare un quarto degli uomini rispetto agli azeri. L’Azerbaijan ha dieci milioni di abitanti, l’Armenia tre. Gli aiuti russi arrivano con il contagocce, per il calcolo di Putin, che non vuole sbilanciarsi, e perché devono fare un lungo giro sul Caspio e nello spazio aereo iraniano fino a Erevan. A Baku i cargo turchi invece scaricano a rullo continuo nuovi equipaggiamenti, droni d’attacco Bayraktar. Se a Jibrail il collasso delle trincee armene era una finta, in altri settori, come quello del distretto di Fuzuli, è realtà. La guerra di logoramento favorisce chi è meglio fornito. Sul lato armeno decine di pezzi di artiglieria sono andati persi, 350 soldati uccisi, duemila feriti. Baku non comunica le perdite, di sicuro ancora più alte.

 

Scontro tra Armenia e Azerbaigian, le immagini del bombardamento sulle postazioni azere nel Nagorno-Karabakh

 

Nelle retrovie non va meglio. Da tre giorni la capitale della regione contesa, Stepanakert, è sotto il fuoco, razzi e bombe a grappolo. L’intera popolazione vive nelle cantine. Chi non ce la fa più fugge, verso l’Armenia. Le bombe non risparmiano nulla, da una parte e dall’altra. Le vittime civili accertate sono 50, 31 in Azerbaijan. Gli azeri hanno vendicato l’attacco missilistico sulla loro città di Ganja, due morti e una trentina di feriti, con raid indiscriminati, che ieri hanno demolito anche la cattedrale di Shusha. Per il ministero della Difesa armena è stato un attacco «deliberato». Dieci i feriti, compresi tre reporter arrivati a fare le riprese. Baku ha negato.

Il Nagorno Karabakh è un’enclave cristiana nel territorio azero, è stato «riattaccato» alla madrepatria nel conflitto del 1988-1994, al prezzo di trentamila morti. Il diritto internazionale è dalla parte dell’Azerbaijan, anche se quel pezzo di terra gli è stato assegnato da Stalin nel 1921, giusto per spezzettare ancor più il mosaico del Caucaso e dominarlo meglio. Per l’Armenia vale invece «l’autodeterminazione dei popoli», come nel Kosovo o a Timor Est.

A parte la Turchia, le grandi potenze sembrano spiazzate e vorrebbero congelare di nuovo il conflitto. Gli inviati di Stati Uniti, Russia e Francia si sono visti a Ginevra con il capo della diplomazia azera Jeyhun Bayramov. Lunedì alti funzionari statunitensi saranno a Mosca, riferiranno al ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan. Putin ha detto chiaro agli armeni che non interverrà, nonostante la mutua difesa prevista nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto). L’aiuto militare diretto scatterà soltanto se gli azeri invaderanno l’Armenia, ha confermato il capo del Csto, il bielorusso Stanislav Stas. Sull’altro fronte gli Usa hanno convinto il Canada a bloccare le forniture del software che serve ai droni di fabbricazione turca.

Washington teme Mosca ma è diffidente di fronte alla politica espansionista della Turchia. Perdite massicce, come quelle a Jibrail, potrebbero convincere il presidente azero Ihlam Aliyev a trattare. Finora è rimasto irremovibile e ancora ieri ha chiesto «un calendario preciso del ritiro armeno» prima di sedersi a un tavolo. Stesso tono dal suo alleato e protettore Recep Tayyip Erdogan: «L’unica soluzione è il ritiro dell’Armenia dal Nagorno Karabakh». Il premier armeno Nikol Pashinyan appare più provato, sembra temere un crollo davanti a forze preponderanti, rafforzate dall’arrivo al fronte di migliaia di jihadisti siriani, come ha confermato nel suo ultimo rapporto il Centro di studi internazionali.

Sorgente: Civili nelle cantine, imboscate e bombe. È guerra aperta tra armeni e azeri – La Stampa – Ultime notizie di cronaca e news dall’Italia e dal mondo

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