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di Chiara Cruciati

Roma, 7 settembre 2020, Nena News – Sabato sera l’annuncio, ieri la protesta: medici e laureati in medicina da diverse città dell’Iraq si sono ritrovati davanti al ministero della Salute a Baghdad per protestare contro la disoccupazione, a fronte di un’emergenza sanitaria con pochi precedenti, e le violenze subite negli ospedali. Vestiti con i camici bianchi, in piedi nella calura estiva che ancora avvolge il paese, dottori e dottoresse hanno annunciato il prosieguo della protesta, se mancheranno risposte concrete: uno sciopero entro la fine della settimana, che avrebbe effetti importanti su un paese alle prese con una crescente epidemia di Covid-19.

Perché, nonostante l’emergenza sia palese (ieri 3.651 casi in più e 90 decessi, venerdì il record di 5mila contagi registrati in un giorno), le promesse di assunzione di nuovi medici negli ospedali iracheni da parte del governo sono rimaste lettera morta. Si parlava di 31mila assunzioni di laureati delle facoltà di medicina, così aveva deciso una commissione ministeriale a luglio, voluta dal governo, ma la mancanza di fondi – questa la risposta del ministero della Finanze – avrebbe impedito di procedere.

Le conseguenze sono palesi: chi lavora è costretto a turni massacranti all’interno di strutture che non mancano solo di lavoratori ma anche di equipaggiamento e medicinali. E sono centinaia i medici che hanno contratto il coronavirus, vista la carenza cronica di protezioni individuali: secondo quanto riportato ad al Jazeera dal capo dell’Associazione dei medici iracheni, Abdul-Ameer Muhsin Hussein, 44 medici sono morti e oltre 1.500 si sono ammalati. Il governo di Baghdad prova a metterci una pezza autorizzando i neolaureati a entrare subito al lavoro, ma dettagli sul pagamento dei salari non ne ha dati. E chi ha terminato l’università non può nemmeno rivolgersi al settore privato: per poter esercitare sono necessari prima sette anni di pratica in quello pubblico.

La protesta di ieri, che prosegue, si inserisce all’interno di una più ampia mobilitazione popolare che dal primo ottobre 2019 sta attraversando il paese e che ha vissuto una pausa forzosa solo durante i mesi caldi dell’epidemia. Gli iracheni, di ogni età ed estrazione sociale, chiedono servizi e lavoro ma soprattutto la fine del sistema settario che governa il paese con metodi clientelari e corruzione e la nascita di un sistema politico trasparente e laico, giusto.

La richiesta di servizi decenti è centrale, la loro strutturale assenza è l’humus su cui prospera la diseguaglianza sociale che ha reso il 60% degli iracheni poveri o poverissimi, costretti a vivere con sei dollari al giorno e senza la possibilità di accedere a una sanità gratuita ed efficiente. Le ragioni di tale gap, in un paese con le quinte riserve al mondo di petrolio, vanno ricercate negli anni successivi all’invasione statunitense del 2003 quando lo Stato iracheno fu fatto deliberatamente in pezzi per poter essere “ricostruito”.

In pezzi è andato anche il sistema sanitario iracheno, negli anni ’70 considerato un’avanguardia nella regione mediorientale, addirittura con una propria industria farmaceutica, man mano smembrato dall’embargo Usa e dalle guerre del Golfo prima e poi dalla corruzione: i tanti soldi della ricostruzione sono scomparsi tra le pieghe di una politica vorace, lasciando la popolazione povera e abbandonata a se stessa.

Gli effetti sul sistema sanitario sono visibilissimi. Nel 2013 la Mezzaluna rossa irachena denunciava la fuga dei medici iracheni all’estero: 52mila specialisti (il 70% del totale) e 20mila medici di base (il 50%) si è rifugiato in Europa e negli Stati Uniti. Chi resta guadagna 700 dollari al mese, una miseria, ed è costretto a lavorare in turni prolungati e senza strumenti, se si considera che l’85% dei medicinali fondamentali non è disponibile. Nena News

Sorgente: IRAQ. La protesta dei medici contro la disoccupazione

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