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I «contratti rivoluzionari»? Con la riduzione dell’orario. In Germania si discute di settimana corta. Qui Bonomi vuole invece slegare i salari. Esempi esistono già anche da noi: alla «tedesca» Lamborghini due giorni di riposo

Massimo Franchi

È il grande tabù della Confindustria nostrana. Mentre in Germania il dibattito sulla settimana lavorativa a soli quattro giorni coinvolge tutte le parti sociali e la politica, da noi la riduzione dell’orario di lavoro è l’unico argomento su cui il neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi è rimasto silente. Arrivando invece a proporre l’esatto contrario: slegare i salari dall’orario.

Da maggio invece se ne discute in Germania dove il sasso nello stagno lo ha lanciato Joerg Hofmann, capo della Ig Metall, proponendo per il settore dell’auto la settimana lavorativa di 4 giorni con compensazione dei salari per non impoverire i lavoratori. «La settimana di quattro giorni potrebbe essere una risposta al cambiamento strutturale di settori come l’industria dell’auto. In questo modo si potrebbero mantenere i posti di lavoro, invece di tagliarli», aveva detto Hofmann, aggiungendo di immaginare anche «una certa compensazione dei salari affinché i lavoratori possano permetterselo». Una proposta subito accolta dal ministro del Lavoro, il socialdemocratico Hubertus Heil, secondo il quale «la riduzione del tempo di lavoro potrebbe essere adeguata, con una parziale compensazione salariale – ha affermato – . La condizione necessaria è però che le parti sociali di mettano d’accordo».

NONOSTANTE LE PERPLESSITÀ della Cdu, il dibattito è andato avanti per tutta l’estate corroborato anche da un sondaggio Yougov che ha mostrato come i tedeschi siano favorevoli alla «settimana corta»: il 61% di gradimento è la media tra 65% fra le donne – evidentemente più sensibili al tema della conciliazione dei tempi di vita – e il 58% fra gli uomini.

In Finlandia a fine agosto si è andati addirittura oltre. Qui è stata direttamente la giovane premier socialdemocratica Sanna Marin durante il discorso al partito a lanciare l’idea di una giornata di sei ore. Serve «puntare a una giornata lavorativa più breve e a un miglioramento della qualità della vita dei lavoratori», ha affermato Marin. «Il traguardo di un accorciamento dell’orario di lavoro non è in conflitto con quello di assicurare un tasso occupazionale elevato e la solidità dei conti pubblici – ha aggiunto – : a patto d’impegnarsi come società, come aziende e come dipendenti, a incrementare la produttività che, in base ad alcuni studi, la giornata di sei ore potrebbe addirittura stimolare. Ridurre gli orari e migliorare la condizioni di lavoro è del resto un modo per distribuire più equamente le ricchezze», ha aggiunto la premier finnica. Che ha unito al tema anche l’allungamento dell’obbligo scolastico e il diritto all’istruzione gratuita fino a 20 anni – come proposto dalla ministra dell’Istruzione Li Andrersson di Vasemmistoliitto (Alleanza di sinistra) – in un più generale piano di formazione.

La proposta finlandese dunque è più ampia e contiene perfino la parola magica per Confindustria: «produttività». Ma anche su questa Bonomi e nessun industriale ha mai aperto bocca.
E così arriviamo a domani. Quando alle 16 a viale dell’Astronomia a Roma ci sarà il primo attesissimo faccia a faccia fra il nuovo presidente di Confindustria e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil.

UN INCONTRO ANTICIPATO da un duro attacco di Bonomi che con interviste e un documento interno a tutti i presidenti delle sue organizzazioni di categoria ha anticipato chiaro e tondo che il modello contrattuale vigente – il «Patto della fabbrica» sottoscritto dal suo predecessore Vincenzo Boccia che fissava criteri molto elastici per gli aumenti contrattuali lasciando alle varie categorie l’autonomia dimostrata in contratti molto diversi sottoscritti in questi ultimi due anni – va cambiato lanciando per l’autunno e l’era post Covid un fin troppo aulico «Patto per l’Italia» con «contratti rivoluzionari».

Se per ora è soltanto una suggestione, l’unico modo per discutere di veri «contratti rivoluzionari» è legare i pochi aumenti salariali che Confindustria è disposta a concedere ad una riduzione dell’orario di lavoro dando il via libera allo «scambio» nei tanti rinnovi contrattuali sul tavolo, a partire da quello dei metalmeccanici.

La svolta di Confindustria sui contratti è figlia della arretratezza delle imprese italiane. L’unica possibilità per cambiare il modello è legare i (pochi) aumenti alla riduzione di ore

PROPRIO DA QUESTA CATEGORIA è partita la sfida – la Ig Mettall tedesca – e proprio in questo settore abbiamo esempi virtuosi di riduzione dell’orario di lavoro nella rossa Emilia-Romagna: come alla Lamborghini, non a caso di proprietà della tedesca Audi, dove la settimana è di 30 ore con 3 giorni di lavoro e due di riposo con un «monte ore» di permessi altissimo.

La contrarietà di Bonomi a aumenti contrattuali significativi – a partire dal disconoscimento del contratto dell’industria alimentare e dei suoi 119 euro di aumento – è una novità inaccettabile per i sindacati.

LA SOLA DEFISCALIZZAZIONE degli aumenti salariali dei contratti nazionali – ormai storica richiesta della Fiom fin dai primi tempi della segreteria Landini – non basta per trovare un accordo potabile sui tanti rinnovi che riguardano ormai 10 milioni di lavoratori privati e 3 milioni di lavoratori pubblici col contratto scaduto.

Ecco perché senza aprire il capitolo «orario di lavoro», lo scontro fra la Confindustria di Bonomi e i sindacati sarà inevitabile: i sindacati hanno già annunciato una mobilitazione nazionale per venerdì 18 settembre con manifestazioni a Milano (con Annamaria Furlan), a Roma (Pierpaolo Bombardieri) e Napoli (Maurizio Landini). Un dialogo che andrebbe supportato da un dibattito sociale e politico – c’è una proposta di legge del Pd per 30 ore settimanali – che si alzi rispetto al disco rotto che vuole che «gli aumenti salariali siano legati alla produttività del (solo) lavoratore».

Neanche da parte sindacale la riduzione dell’orario di lavoro è una priorità affermata. La piattaforma unitaria Cgil Cisl Uil non lo prevede. Ma l’ultimo documento congressuale della Cgil sì – «perseguire l’obiettivo della redistribuzione del lavoro, quindi, dell’orario e di una sua riduzione e rimodulazione attraverso una maggiore capacità di crescita economica e produttiva del sistema delle imprese, con massicci investimenti, anche per la formazione e la qualificazione dei lavoratori” – e anche da Cisl e Uil il tema è spesso evocato.

Il tutto poi dovrà fare i conti con le proposte della ministra Nunzia Catalfo sul salario orario minimo e sullo smart working anche per evitare che la riduzione di orario finisca per trasformarsi in un boom di contratti part time: oggi il 65% di questi sono involontari e fanno rima con salari da fame.

Sorgente: I «contratti rivoluzionari»? Con la riduzione dell’orario | il manifesto

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