04 Settembre 2020
di FRANCO LORENZONI
Nel gran discutere di mascherine, distanziamenti e trasporti bambini e ragazzi in carne e ossa che ruolo avranno una volta che saranno riusciti a rientrare a scuola? Sono migliaia le insegnanti e i docenti che in questi giorni, oltre ad attaccare al pavimento chilometri di scotch a terra, si interrogano su come accogliere i loro allievi in un anno dominato da molteplici incertezze. Oltre a quelle sanitarie, infatti, ci sono altre preoccupazioni che tengono svegli la notte i docenti più sensibili.
È possibile fare scuola coinvolgendo tutti mantenendo le posizioni reciproche congelate? È possibile sviluppare didattiche sensate in scuole che sono state costrette a chiudere laboratori e aule dedicate ad attività scientifiche o espressive, che ora ospiteranno gli alunni delle classi troppo numerose? E poi, come comportarsi con i numerosissimi ragazzi affetti da disturbi del comportamento che popolano la maggioranza delle nostre classi? Li si emargina? Li si allontana?
Immaginiamo lo scenario horror di un ragazzo che per le più diverse ragioni sia instabile emotivamente, agitato fisicamente e attratto da comportamenti trasgressivi. Che facciamo? Lo additiamo al pubblico disprezzo perché potenziale portatore di contagio? Lo sospendiamo? Inauguriamo nuove cacce all’untore? Il rischio del crescere dell’intolleranza è concreto. Lo sanno bene le centinaia di insegnanti che accorrono ogniqualvolta si organizzano corsi che affrontano i nodi dei più vari disturbi del comportamento di ragazze e ragazzi, tra cui quelli che nel lessico scolastico vengono chiamati Adhd, che sta per Attention Deficit Hyperactivity Disorder.
L’esperienza ci dice che per tenere dentro tutti c’è bisogno del contributo di tutti. Il problema non è del ragazzo, non è nel ragazzo, ma nell’insieme di relazioni che si stabiliscono in classe, nello spazio che si abita, nella varietà e qualità delle attività che si propongono, nella moltiplicazione dei linguaggi, nella flessibilità di cui è capace chi educa e insegna. Un ragazzo iperattivo, in un’escursione nella natura sarà probabilmente il più abile nel trovare e aprire la strada. E questa sua capacità, una volta riconosciuta da compagni e insegnanti, potrà contribuire a modificare almeno un po’ la percezione che gli altri hanno del suo modo di stare al mondo. Cambiando radicalmente ottica possiamo arrivare ad affermare che la “disabilità” non è in lui, ma nel contesto che genera e cristallizza una scala rigida di abilità.
Ora, in classi surgelate, in cui ogni movimento anomalo può essere guardato e vissuto con sospetto, il rischio di allontanare e magari affidare all’insegnante di sostegno o ad altri operatori chi attenta al precario equilibrio delle nuove regole è molto forte. Ma accettare questa separazione costituirebbe una sconfitta per tutti introducendo e amplificando nuove forme di apartheid educativa. La questione è molto delicata perché il tema dell’accoglienza e dell’inclusione riguarda tutti, anche chi è spiazzato dalla nuova situazione o ha legittimamente paura. Tra insegnanti curricolari, insegnanti di sostegno e operatori c’è bisogno di una collaborazione attiva e creativa come mai prima. Nessun insegnante può rintanarsi dentro la sua disciplina e non assumersi responsabilità che debbono essere riviste e condivise tra tutti, dai dirigenti ai collaboratori scolastici.
Teniamo conto anche che alle spalle di ogni bambino e ragazzo c’è una famiglia con le sue convinzioni e preoccupazioni, con scelte e comportamenti che possono essere i più diversi. Mai come oggi la scuola deve assumersi la responsabilità di costruire cultura e ricostruire, passo passo, attraverso forme di dialogo, ricerche e approfondimenti, quel minimo di sentire comune che è alla base di ogni regola che funzioni. Sarà una ricerca difficile che chiama a un esercizio straordinario di democrazia e partecipazione, capace di alimentare la curiosità di ragazze e ragazzi a indagare e sapere di più, scoprendo che le discipline si ravvivino quando entrano in attrito con le domande poste dalla realtà.
Ci vogliono infatti matematica e statistica, conoscenze scientifiche, tanta storia e letteratura per osservare attraverso lo specchio della cultura ciò che sta accadendo con sguardo sghembo, capace di dar luogo a un confronto di largo respiro tra le emozioni e i ragionamenti di ciascuno. Siamo tutti obbligati a un incontro ravvicinato con l’incertezza riguardo a un tema delicatissimo come quello della salute e della salvaguardia della vita di tutti. Quale occasione migliore per avvicinarci con bambini e ragazzi alla scienza nel suo farsi pieno di contraddizioni. Quale allenamento più efficace per imparare tutti, compresi noi adulti, a porci domande legittime, sviluppando la vitale tolleranza del non capire.
L’autore, insegnante, ha fondato la Casa-laboratorio di Cenci
Sorgente: E primo venne lo studente | Rep
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