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Una storia italiana. La famiglia veneta non ha speso un euro per Autostrade, ma incassato una fortuna grazie a governi complici.

(di Carlo Di Foggia – Il Fatto Quotidiano) –

“La famiglia Benetton ha sempre rispettato le istituzioni, quando in passato è stata sollecitata ad entrare in diverse società…”. In questa frase sibillina fatta filtrare ieri da Ponzano Veneto è riassunta l’epopea della famiglia dei maglioncini. L’Italia è piena di regalie pubbliche a rentier privati, ma la storia di Autostrade per l’Italia (Aspi) è forse il caso più clamoroso della storia repubblicana. I Benetton rispettano le istituzioni, o meglio i governi, perché queste hanno fatto la fortuna dei Benetton, che poi hanno ricambiato facendo la loro parte su richiamo della politica. Quella di Aspi non ha nulla della storia imprenditoriale. I Benetton entrarono nella società agli inizi del 2000 rilevandone – attraverso la holding Schemaventotto – il 30% dall’Iri. Tre anni dopo erano già saliti al 50% recuperando metà di quanto avevano pagato. Il debito fatto per prendere l’intero capitale, circa 7 miliardi, fu scaricato su Autostrade. La famiglia veneta non ha speso né investito un euro, ma Aspi dal 2005 al 2018 ha distribuito dividendi per 9 miliardi alla controllante Atlantia, di cui i Benetton hanno il 30%: oggi, nonostante tutto, vale in Borsa più del doppio di quanto incassato dallo Stato dalla privatizzazione.

Come ha ricostruito l’economista Giorgio Ragazzi (da ultimo in La svendita di autostrade, Paper First), la fortuna dei Benetton è stato il IV atto aggiuntivo del 2002 – governo Berlusconi, ministro Pietro Lunardi – che dava un’interpretazione assai generosa della formula tariffaria prevista dalla convenzione del 1997 siglata con l’Anas (già di per sé generosa, e in quanto tale dichiarata “illegittima” dalla Corte dei conti). Prevedeva ingenti investimenti per la realizzazione di terze e quarte corsie. Aspi avrebbe potuto ripagarsi gli investimenti con la crescita del traffico, invece furono pagati attraverso gli incrementi tariffari assumendo che non ci sarebbe stato aumento del traffico (che invece è salito, facendo incassare due volte i Benetton). Lo Stato ha remunerato – usando i soldi degli automobilisti – a tasso elevato investimenti che la società dichiarava non dare alcun reddito. Incredibile, ma possibile se il privato cattura il regolatore. A presiedere l’Iri nel 1999, per dire, c’erano Gian Maria Gros Pietro (presidente) e Pietro Ciucci (direttore). Pochi anni dopo li ritroviamo il primo a presiedere Aspi e l’altro l’Anas, la società che affidava le autostrade in concessione ai privati. Berlusconi blindò per legge l’atto aggiuntivo, mossa che fece decollare il valore di Aspi e far partire l’assalto finale dei Benetton e che si è ripetuta pochi anni dopo. La buona sorte di Benetton è continuata con la convenzione del 2007, governo Prodi, ministro Antonio Di Pietro. Un anno prima i Benetton avevano festeggiato le elezioni (vinte dall’Ulivo) finanziando con oltre un milione quasi l’intero arco parlamentare: Prodi, Margherita, Ds, An, Forza Italia, Lega Nord e Udc (solo 50 mila euro all’Udeur di Mastella). Quell’anno Di Pietro bloccò il progetto di fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis (nel cui cda è entrato anni dopo l’ex premier Enrico Letta, allora sottosegretario).

Con la nuova concessione viene eliminato qualsiasi rischio per il concessionario di vedersi ridurre la tariffa in caso di aumento del traffico (dalla formula di calcolo sparì proprio il segno meno). Non è l’unica mostruosità. Nell’atto furono inseriti due articoli (9 e 9bis) che impongono allo Stato un indennizzo spaventoso (il valore attuale netto dei ricavi previsto fino al 2038) anche in caso di revoca della concessione per “grave inadempimento”. Una norma che per la Corte dei conti e per la commissione di giuristi del ministero delle Infrastrutture istituita nel 2019 è illegittima perché contraria al codice civile. Contro si erano anche pronunciati gli esperti del Nars, il Nucleo per la regolazione dei servizi di pubblica utilità della presidenza del Consiglio. Caduto Prodi, il governo Berlusconi superò le critiche degli esperti tecnici blindando (di nuovo) la concessione per decreto: in questo modo veniva dato valore di legge a un atto di natura privatistica. Un testo votato senza che ai deputati fossero messi a disposizione gli atti perché le concessioni furono secretate (scandalo a cui ha messo fine il ministro Toninelli solo nel 2018, dopo il crollo del Morandi). I Benetton ricambiarono il regalo di Berlusconi partecipando alla cordata dei “capitani coraggiosi” a cui venne consegnata l’Alitalia. È proprio a questo “rispetto delle istituzioni” che alludevano da Ponzano Veneto.

Quando una società genera profitti stellari grazie a un monopolio naturale senza concorrenza o rischi grazie a una concessione intoccabile, cessa di essere un’attività d’impresa e diviene un bancomat. Dopo il crollo del Morandi, i Benetton hanno prima difeso Castellucci, il manager che li ha resi ricchi spremendo utili da Aspi anche a spese della manutenzione, salvo poi cacciarlo per salvare la baracca. E senza mai assumersi un briciolo di responsabilità. Morto Gilberto, l’artefice della trasformazione finanziaria, il fratello Luciano spiegò a Repubblica che “Nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade”. Nessuno s’è mai chiesto come mai fosse più redditizia di Google ma coi ponti che cascano.

Sorgente: Tutti ai piedi dei Benetton: così la politica li fece ricchi – infosannio

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