Recovery Fund, l’incontro Conte- Rutte non è andato bene, ora l’Italia è davanti a un bivio | Rep
Restano le distanze con i Paesi frugali. Il governo deve decidere se rinunciare a una parte dei 750 miliardi o cedere sulle condizionalità.di ALBERTO D’ARGENIO
L’Aia. Nella notte, in una saletta dell’ambasciata italiana a L’Aia, Giuseppe Conte spiega che con Mark Rutte «non c’è piena convergenza» sul Recovery Fund. Al netto dell’eccellente cena offerta dal ristorante italiano “Impero Romano”, dei sorrisi e dei toni amichevoli, l’incontro con il primo ministro olandese non è andato bene. Anzi, è stato scontro. Il capo del governo dei Paesi Bassi si prepara a una difficile corsa elettorale, ancora una volta insidiato a destra dai partiti anti europei che vedono nell’Unione una sorta di bancomat sempre attivo in favore degli scrocconi del Sud. Ecco perché Rutte si deve coprire a destra, chiedendo condizioni stringenti per dare il via libera al Piano di rinascita europeo da 750 miliardi, 172 dei quali destinati all’Italia.
I “frugali” hanno già dovuto digerire la sterzata di Angela Merkel, che a maggio accodandosi a Macron ha dato il via libera alla svolta epocale grazie alla quale la Commissione europea con l’emissione di eurobond raccoglierà sui mercati i fondi per un piano di rilancio economico che segna la fine dell’austerità. Messi nell’angolo, ora i nordici cercano di portare a casa qualcosa da poter rivendere alle proprie opinioni pubbliche e ai propri parlamenti, chiamati a ratificare il Recovery. Si può giustamente obiettare che un’Europa in cui manca visione, solidarietà e che viene misurata solo in base all’interesse immediato non sia perfetta. Ma fino a quando non si faranno passi avanti nell’integrazione, è quella che abbiamo.
Dietro le quinte gli sherpa segnalano un ammorbidimento di Austria, dove i Verdi stanno lavorando ai fianchi il capo della coalizione di governo, il conservatore Sebastian Kurz, Svezia e Danimarca, i cui leader sono pressati dal Partito socialista europeo del quale sono partner. Ma questo non significa che i giochi siano fatti. Vuoi perché comunque continuano a frenare, vuoi perché Olanda e Finlandia non mollano di un centimetro.
In questi giorni le istituzioni europee, Merkel e ovviamente Macron, continuano a tener duro, difendono la proposta da 750 miliardi sfornata a maggio su impulso franco-tedesco dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, per salvare Italia e Spagna dal tracollo finanziario post Covid. Per ora hanno concesso ai nordici un leggero taglio del bilancio Ue 2021-2027 (collegato al Recovery), il mantenimento degli sconti ai loro versamenti al budget (rebates) e un po’ più di controllo su come i singoli governi spenderanno i fondi del piano di rilancio. Ma è chiaro che si deve cedere qualcosa di più per un compromesso che salvi la faccia a tutti. Non a caso si vaticina che il vertice europeo di venerdì e sabato prossimo a un certo punto verrà sospeso per lasciare tempo a Rutte, Marin, Kurz, Frederiksen e Loefven di tornare a casa e ottenere dai propri parlamenti un via libera preliminare all’accordo. Ma per arrivarci, sul piatto dovrà esserci una pietanza commestibile anche a quelle latitudini.
Italia, Spagna e Portogallo si trovano davanti a un bivio, hanno due strade per arrivare all’accordo. Dare l’ok a tagliare in parte l’ammontare, magari portandolo a 600-650 miliardi, oppure salvare l’assegno ma cedere su maggiori condizionalità per intascare i soldi. Nel primo caso il danno di immagine sarebbe immediato, perché i loro leader sarebbero subito accusati di avere ceduto. Tuttavia nella sostanza la perdita sarebbe minima. Per l’Italia, ad esempio, si passerebbe da un incasso di 172 miliardi a uno di 140-150 miliardi. Comunque una montagna di soldi che se ben spesi, e questo resta il vero problema a prescindere dalla somma finale, permetterebbero di rifare il Paese rilanciandone l’economia per i prossimi decenni.
La seconda alternativa, invece, costerebbe meno critiche immediate ai leader mediterranei, che di rientro da Bruxelles potrebbero sventolare la vittoria sulle cifre (mentre i nordici potrebbero rivendicare di avere finalmente imposto le riforme al Club Med). Ma nel lungo termine per il Sud potrebbe essere più insidiosa. Rutte, ad esempio, ha chiesto a Conte «garanzie» sulle riforme, puntando dritto su pensioni, lavoro e risanamento dei conti pubblici. Il premier ha sentito odore di Troika e si è ribellato, spiegando poi in conferenza stampa che non permetterà che il Recovery venga «imbrigliato» dalla burocrazia. Un modo elegante per dire l’Italia non accetta condizionalità troppo stringenti per l’accesso ai fondi. Insomma, va bene indicare riforme e progetti di investimento credibili per intascare i soldi, giusto puntare su clima e digitalizzazione, ma no a vincoli troppo duri imposti dall’esterno.
Eppure il rischio resta perché proprio in queste ore sembra emergere che Conte, Sanchez e Costa abbiano scelta la prima strada, ovvero quella dell’apparenza privilegiando il mantenimento dei 750 miliardi a scapito dei meccanismi che regoleranno il Recovery. Una mossa mediatica, ma nella sostanza rischiosa. La partita comunque non è ancora chiusa, i negoziati saranno ancora lunghi e complessi e non è detto che per salvare la faccia i mediterranei cedano (o cedano troppo) sulla sostanza. Il rischio, però, c’è.
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