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Quattro avvistamenti e quattro alert inviati da Seabird. Ma le guardie costiere di Italia, Libia e Malta li hanno ignorati. Il corpo del migrante è ancora in acqua, alla deriva. L’ong: “Una foto che non avremmo mai voluto dovervi mostrare”

di Alessandra Ziniti

ROMA – Chissà chi è quest’uomo cui il destino ha riservato una fine così orribile. Morto di stenti, arso dal sole e dalla sete durante una traversata senza soccorsi. O forse ultimo superstite di un naufragio, rimasto inesorabilmente intrappolato con la testa tra i due tubolari di un gommone mezzo affondato chiusi a tenaglia attorno al suo collo. Rimasto solo dopo aver visto morire prima di lui i suoi compagni di viaggio. Chissà se da qualche parte del mondo c’è qualcuno che aspetta sue notizie, che sa che si era imbarcato nel tentativo di raggiungere l’Europa. O se invece una moglie, una madre, un padre, un fratello, una sorella, dei figli magari lo immaginano ancora chiuso in un lager libico. E interpretano questo silenzio che dura ormai da settimane come una impossibilità a comunicare.

Chissà se qualcuno sarebbe mai in grado di riconoscerlo questo corpo martoriato oltraggiato dai pesci, dal sole, dal mare, che vaga nel Mediterraneo prigioniero del gommone-sudario e dell’indifferenza di chi in quel mare dovrebbe salvare vite umane. E avere pietà per chi muore e per le loro famiglie. La stessa pietà che Alì Bib, il marittimo siriano del mercantile Talia, ha avuto per quel giovane eritreo soccorso e portato a braccia verso la salvezza.

Il commento: Quel corpo che ci offende

Per quattro volte in due settimane, increduli, i piloti di Seabird, l’aereo della Ong tedesca Sea Watch, hanno avvistato e fotografato il gommone grigio con quel corpo senza vita. Carnagione chiara, prono, le gambe penzoloni divaricate, quelli che sembrano pantaloncini macchiati dal micidiale mix di acqua di mare e benzina che brucia il fondoschiena dei migranti durante le traversate, il torace nudo, una maglietta scura alzata sul collo, la testa incastrata tra i due tubolari del gommone che dalla prua sgonfia deve aver fatto scivolare verso l’abisso altre vite umane. Quattro avvistamenti, quattro fotografie, quattro alert con le coordinate, acque internazionali, zona Sar libica, fornite ai centri di coordinamento delle guardie costiere di Tripoli, Malta, Roma. Mai nessun intervento. Non vanno a salvare i vivi, figuriamoci se vanno a recuperare i morti.

Neeske Beckmann, giovane pilota tedesca coordinatrice delle operazioni di Seabird, racconta: “Lo stesso corpo senza vita è stato individuato dall’equipaggio del nostro aereo per quattro volte in due settimane. Quel corpo deve essere recuperato e identificato in modo che possa essere sepolto, che i familiari possano essere informati e piangerlo. È una foto che non avremmo mai voluto essere costretti a mostrarvi”.

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Ricostruiamo: è il 29 giugno, un lunedì, quando all’ora di pranzo, il Seabird, alla sua prima missione, avvista il gommone: 34d1 012d25E, zona Sar libica. Le coordinate vengono girate al centro di ricerca e soccorso di Tripoli (quello, per intenderci, al cui numero rispondono gli italiani), ma nessuno va a cercare l’imbarcazione. Sono giornate di fuoco le ultime due di giugno: lo stesso aereo avvista quattro imbarcazioni in 24 ore, una in zona Sar italiana viene soccorsa dalla guardia costiera, una viene riportata indietro dai libici, due si perdono in Sar maltese. In quelle stesse ore al centralino Alarm phone arrivano una serie di chiamate di barche in difficoltà e segnalazioni di naufragi. Il giorno dopo l’avvistamento del gommone, Seabird fotografa un altro corpo in mare, questa volta ha il giubbino arancione ma non è bastato a salvargli la vita. Seconda segnalazione, ancora silenzio. E così nei giorni successivi, quando in un Mediterraneo ormai del tutto svuotato di navi umanitarie alla Ong del cielo non resta altro da fare che segnalare le imbarcazioni alle autorità italiane, maltesi e libiche. Quasi sempre ricevendo silenzi quando non dinieghi di informazioni.

“Abbiamo più volte fornito alle autorità le coordinate chiedendo il recupero di quel corpo e la verifica delle circostanze – racconta ancora Neeske -, non sappiamo cosa sia accaduto e cosa sia accaduto ad altre persone. Da allora non è successo nulla. Quando i corpi di chi muore non vengono recuperati e i familiari non vengono informati, con loro muore anche l’ultimo briciolo di dignità dell’Unione europea”.

Sorgente: Quell’uomo in mare da 15 giorni che nessuno ha voluto salvare | Rep

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