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«Hanno licenziato il direttore! Sciopero! Sciopero!». Il grido riecheggia nei corridoi dell’antico palazzo del Messaggero. E’ il pomeriggio del 2 luglio 1973.
Sono davanti al grande Gianni Melidoni, capo della redazione sport, che mi ha appena comperato un servizio. Ci guardiamo increduli. Licenziato il direttore?
Scendiamo di corsa nell’ufficio grafico, il cuore pulsante del  giornale (oggi si chiama desk). C’è trambusto. Si discute, si disegnano manifesti. E’ pronto un cartello con la scritta “Barzini” disegnata come un fascio littorio. Che cosa è successo?

E’ successo che Ferdinando Perrone, presidente e proprietario con le due sorelle del 50 per cento della casa editrice, ha venduto la sua quota all’editore Rusconi e licenziato il direttore, il cugino Alessandro. Questi, a sua volta con due sorelle, è proprietario dell’altra metà. E da diversi anni fa un giornale innovativo, bellissimo, decisamente orientato a sinistra. Mentre Ferdinando e l’acquirente Rusconi sono campioni della destra.
Rusconi ha nominato direttore il noto giornalista Luigi Barzini iunior. E Barzini si è presentato all’ingresso del palazzo di via del Tritone per insediarsi sulla poltrona di direttore, scortato dal celebre avvocato Pietro Nuvolone.

Ma Barzini non riesce neanche a raggiungere la redazione, al secondo piano. Alessandro Perrone lo riceve, con la sua impeccabile cortesia, negli uffici della pubblicità, al piano terra. Due stanze più in là, l’avvocato Fabrizio Menghini, capo della cronaca giudiziaria, coordina la controffensiva legale.
(Nella foto, da sinistra, il capo della pagina politica Felice La Rocca, al telefono Fabrizio Menghini e a destra il grafico Piergiorgio Maoloni).

Il contesto: incombe il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio. Il Messaggero appoggia il fronte divorzista, il fronte del “NO”. E’ un giornale molto seguito, una spina nel fianco della Democrazia Cristiana e della destra antidivorzista.
Il licenziamento del direttore è l’ultimo atto di un dissidio che dura da anni. La redazione è divisa in due: da una parte i sostenitori di Ferdinando, (detto “l’Ingegnere”) che è presidente della società, dall’altra i fedelissimi di Alessandro, che sono la maggioranza. Sono questi che si mobilitano in difesa del direttore, insieme ai poligrafici. Si raccolgono nell’atrio, attaccano cartelli. Altri restano alle scrivanie, molti aspettano di capire chi vincerà.

Nell’atrio c’è attesa, aria di cospirazione, toni bellicosi. Toni che ricordano il ’68, come quel “BARZINI GO HOME” che riecheggia le scritte “YANKEE GO HOME” contro la guerra in Viet Nam (che nel 1973 non è finita e durerà ancora due anni).
Si difende non solo l’indipendenza, ma anche un modello unico di giornale. Alessandro Perrone (“Sandrino” per gli amici, “il Duca” per la redazione) dirige un quotidiano che dal 1968 ha rivoluzionato il modello tradizionale, fatto di colonne di piombo e qualche foto qua e là.

L’art director Pasquale Prunas e i grafici capeggiati da Piergiorgio Maoloni disegnano pagine che comunicano per immagini prima che con le parole scritte. Al Messaggero collaborano i migliori fotografi italiani. Il giornale supera la dimensione locale, fa concorrenza ai grandi quotidiani nazionali.

La notizia della crisi al Messaggero corre tra le redazioni (Momento Sera è a un passo, Il Tempo poco più in là). Una piccola folla si assiepa davanti all’ingresso, insieme ai redattori e ai poligrafici in sciopero.
È chiaro a tutti che non  si tratta di una semplice lite tra due ricchi cugini. È una partita molto più grossa. Sono gli anni ’70, anni di passioni politiche e di grande crescita civile: c’è lo Statuto dei lavoratori, c’è la legge sul divorzio, all’orizzonte si profila quella sull’aborto. Ma sono anche gli anni delle Brigate Rosse.
Li chiameremo poi “anni di piombo”, ma non furono solo piombo.

Molti fotografi accorrono in via del Tritone e riprendono i fatti (qui a destra Sandro Becchetti, reporter e ritrattista straordinario, uno dei migliori fotografi di quel periodo). Ma nessuna immagine sarà pubblicata nei giorni successivi, perché viene esercitata una stretta censura. Il capo-archivista del giornale chiama i reporter e acquista senza badare a spese tutte le fotografie scattate in quelle ore, negativi compresi. E’ facile capire che la nuova (mezza) proprietà non vuole che la vicenda del Messaggero diventi un “caso” che può minare la credibilità del giornale. E non solo: le foto potranno essere utili in vista di probabili processi.

La trattativa è lunga. Dagli uffici della pubblicità filtrano poche notizie.
Scende la sera e in via del Tritone la folla è cresciuta, blocca il traffico.

Finalmente arriva la voce che la trattativa è finita e Barzini è sconfitto. Risuonano applausi. Ma la tensione resta. Si capisce che la vendita di metà del Messaggero a un editore di destra non può restare senza conseguenze per il giornale e per la redazione.
Ma non è il momento delle riflessioni, si aspetta l’uscita degli “invasori” respinti.

Luigi Barzini esce al braccio del suo avvocato ed è coperto di insulti. Forse nella calca riceve qualche spintone.
Come altri fotografi, scatto qualche istantanea alla cieca, con la macchina alta sopra la testa. Solo dopo avere stampato le foto scopro che cosa ho ripreso nella bolgia: sembra che Ruggero Guarini, capo delle pagine culturali e fedelissimo di Alessandro Perrone, cerchi di aggredire il direttore mancato. Qualcuno lo trattiene.

(Non ricordo chi è il barbuto che placca Guarini. E, a quasi mezzo secolo di distanza, potrei ricordare male qualche dettaglio o confondere qualche nome. Sarò grato a chi voglia correggere o completare i miei ricordi).

Ecco il dettaglio dell’immagine precedente. Oggi posso dire che mi ha cambiato la vita. Sembra infatti che solo io abbia colto questo momento, tra tanti fotografi presenti (ma dovrebbe esserci almeno il filmato di Fabrizio Zampa, che si vede in posizione favorevole con una cinepresa Super8).
La foto sarebbe un elemento di prova nelle prevedibili cause legali che seguiranno i fatti del 2 luglio. Il capo archivista la osserva a lungo, insiste, è pronto a pagare profumatamente tutto il servizio, negativi compresi.
Sono disposto a vendere le foto, ma non i negativi. E questo rifiuto segna la fine della mia vagheggiata carriera nel quotidiano di via del Tritone.

Però, se avessi ceduto i negativi, oggi non potrei documentare un fatto di cronaca quasi dimenticato, eppure significativo nella storia del nostro Paese.

Nei giorni che seguono un pezzo d’Italia si mobilita in difesa di Alessandro Perrone e dell’indipendenza del Messaggero. Da subito sembra chiaro (ma non è mai stato provato) che dietro “l’operazione Messaggero” ci sia Amintore Fanfani, ispiratore e guida degli anti-divorzisti: per descrivere la situazione politica si inventa la definizione di “Fanfascismo”.

Marco Pannella si mette alla testa delle manifestazioni pro-Messaggero e la sede del Partito Radicale, in via di Torre Argentina 18, diventa il quartier generale delle iniziative in difesa della libertà del giornale. Nella foto qui a sinistra una riunione, con il famoso giornalista della Rai Ruggero Orlando al microfono. All’altra estremità del tavolo si riconosce l’avvocato Mauro Mellini, fondatore delle LID, Lega italiana per il divorzio.

Pochi giorni dopo i fatti del 2 luglio piazza Navona è gremita, in difesa del Messaggero e dell’indipendenza della stampa. Parlano Marco Pannella, Ruggero Orlando, Lucio Manisco (corrispondente del giornale dagli USA), Loris Fortuna (primo firmatario, con Antonio Baslini, della legge sul divorzio), Aldo Tortorella (PCI) e tanti altri.

È una battaglia perduta. Un anno dopo nella stessa piazza si festeggerà la vittoria del “NO” al referendum, ma Alessandro Perrone dovrà vendere alla Montedison (azienda in mano pubblica) la sua quota del Messaggero.
Si chiuderà un’epoca, un capitolo straordinario della storia del giornalismo italiano.

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Sorgente: 2 luglio 1973. Il Messaggero, il divorzio e i due direttori – Manlio Cammarata reporter

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