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Sono tre milioni e settecentomila persone. Tra i 25 e i 35 anni. Hanno un’istruzione medio-alta. Gli avevano promesso un lavoro flessibile che li avrebbe resi liberi. Oggi producono il 4,5 per cento del Pil ma se ne dividono le briciole facendo ricchi i nuovi padroni. Sono rider, operatori di call center, trasportatori, edili. E non sono più solo “gli altri”. Sono “noi”
Articolo 600 del codice penale: “Chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento compie il reato di riduzione in schiavitù. La riduzione nello stato di soggezione ha luogo quando ci si approfitta di una situazione di vulnerabilità o di una situazione di necessità”.

Esistono gli schiavi in Italia? E Chi sono?

Se dimentichiamo per un attimo le campagne di Rosarno, il ghetto di Borgo Mezzanone, e quegli angoli d’Italia dove l’uomo bianco ha la faccia del caporale o del capomastro e l’uomo nero quella del migrante piegato nella raccolta dei pomodori o nei cantieri dell’edilizia abusiva, scopriamo quello che non vogliamo vedere. I 3 milioni e 700 mila italiani – per lo più ragazze e ragazzi tra i 25 e i 35 anni – che lavorano senza tutele, fuori dalle norme, o, tutt’al più al riparo di contratti che chiamare tali è un eufemismo. Contano per il 4,5 per cento del nostro Pil (79 miliardi di euro).

Hanno un’istruzione media o medio-alta. Sono figli della generazione cui era stato promesso dal capitalismo della piattaforma digitale, dalla “sharing economy”, dalla corsa all’outbound un futuro di affrancamento e flessibilità liberi dal modello fordista novecentesco e dalle sue varianti. Sono quelli che, oggi, si contendono le briciole dell’economia dei lavoretti.

Faticano nel commercio, nell’edilizia, nel terziario, gomito a gomito con richiedenti asilo che arrivano dai conflitti e dalle carestie dell’Africa subsahariana. In sella a una bicicletta che consegna cibo a domicilio, in un call center o nell’abitacolo di un furgone per le consegne. Vivono esistenze in cui la parola “futuro” è sconosciuta. Sanno di essere schiavi, ma sanno anche di non avere alternative.

Siamo andati a cercarli. Partendo dalla città più europea d’Italia. La sua locomotiva economica e civile, Milano. Dove abbiamo avuto accesso anche ad atti ed intercettazioni telefoniche inedite disposte dalla Procura nell’inchiesta su una delle più importanti società di delivery del Paese. Abbiamo fatto tappa a Roma, per arrivare infine nell’abisso della Calabria.

ATTO I

Rider
Una “App” ti renderà libero

Un giorno speciale
Milano, inverno 2020

Andrea era convinto che quello che stava per cominciare sarebbe stato un giorno speciale. “Sarà dura”, gli avevano detto. Ma intanto sarebbe stato qualcosa. Un contratto di lavoro, di quelli piccoli piccoli, ma comunque un contratto. Uno di quelli che alla fine dell’anno ti “mette i contributi”, ti fa “provare l’ebbrezza di ricevere una certificazione unica” per il Fisco, che, insomma, “ti dice che da qualche parte esisti. Magari fai un lavoro un po’ di merda. Ma comunque esisti”.

Andrea ha 25 anni. Un percorso scolastico sfortunato – geometra, su costrizione dei genitori – e un ingresso nel mercato del lavoro altrettanto infelice: una serie di lavori a nero uno più sbagliato dell’altro, uno dopo l’altro. Prima un importante studio professionale, dove lo tenevano a fare le fotocopie. Poi, lavapiatti, quindi cameriere, allestitore per il salone del mobile, infine parcheggiatore in un garage.

Andrea cercava qualcosa di vero. “Qualcosa che si tocca, che non ti fa tornare soltanto stanco a casa. Qualcosa che ti fa dire: “Io lavoro per” e non ti fa vergognare tutte le volte che ti chiedono: “Ma tu che lavoro fai?”. Perché è quella la prima domanda che si fa – e a Milano, poi, più che altrove – “Tu che lavoro fai?”.

La sera prima, Andrea aveva oliato e pulito la sua bicicletta, una vecchia Atala grigia che Peppino, il gommista di corso Lodi, gli aveva assicurato andasse come nuova. Sulla sedia di legno della sua stanza era invece il suo futuro, pronto per essere riempito: l’enorme zaino giallo di “Uber Eats”.

Andrea era un fattorino, anche se ora si dice “rider”. Che suona meglio, forse. E, chi sa perché, dà un’idea di libertà. Il “rider” corre. Il “rider” gira. Il “rider” è libero. Ecco perché Andrea era convinto che la sua prima giornata di lavoro sarebbe presto diventata un trionfo.

“Cercare le ore”

Francesco T. ha 36 anni, lavora per Just Eat ma in passato ha fatto il rider per altre compagnie. Il suo cognome è puntato per proteggerne l’identità completa, perché le società di delivery possono “licenziare” questi liberi professionisti – che non sono liberi e neanche professionisti, visto che basta un nulla per imparare il mestiere – con un clic. Ti viene tolto l’accesso alla “app” che, di fatto, è il tuo datore di lavoro. E finisce lì. Parlare con i giornalisti è peggio che parlare con gli sbirri. Un peccato capitale per il quale è prevista una condanna senza appello: tu prova a fiatare e la disconnessione sarà perenne.

“Per carità – racconta Francesco – non la mettono giù come un ricatto. Anzi, finisce che ti convincono che sia giusto così. Il sistema è pensato per spingerti a fare sempre di più, a superare i tuoi limiti e la soglia della fatica per portare a casa qualche euro in più, a competere coi tuoi colleghi”. Il sistema prevede che tu debba passare il tempo morto di “inattività” davanti alla app sullo schermo del tuo smartphone o tablet “cercando le ore”.

Sì, “cercare le ore”, che “significa aggiudicarsi al volo con clic uno slot di tempo utile per fare più consegne, cioè pranzo e cena. Ogni consegna sono soldi. Ogni consegna è il nostro lavoro. Il mio concorrente è il mio collega, incollato come me davanti a un telefono a cercare le ore. O, almeno, così ci formano e così ci hanno spiegato”.

Quando si diventa rider si viene catapultati in una realtà alternativa, in qualche modo smaterializzata. Impersonale. Dove le dinamiche di interazione tipiche del rapporto di lavoro si trasformano in altro. In un rapporto con la “app” che sembra avere quale unico scopo quello di mantenere sul fattorino – pardon, “rider” – una pressione continua. Uno stato d’ansia da competizione continuo, dove il tuo concorrente è il click di chi ti ha bruciato mentre “cercavi le ore”. Lo schermo nero della tua app.

C’è modo e modo di essere “rider”. In bicicletta, o in scooter o in automobile. “In bici spendi zero di benzina e poco di manutenzione ma non riesci a fare più di 3-4 consegne per pranzo o cena. Lo scooter velocizza le cose, però costa mantenerlo, c’è la benzina che ti devi pagare e devi avere un meccanico amico pronto a intervenire a qualsiasi ora. Infatti, qualcuno preferisce affittare il motorino, 200 euro al mese con qualche compagnia, e hai meno pensieri”.

“La macchina è per chi consegna in zona periferiche. E’ comoda, veloce, ma costosa e con molti rischi multa”, spiega Francesco. Lui usa la bici. E la prima cosa che ha imparato è che la “libertà di scelta del mezzo” è la prima regola della competizione.È – soprattutto – l’ostacolo che impedisce di “fare sistema” con i colleghi. Ognuno per sé, insomma.

Il “rider” non ha uno stipendio fisso. Ogni compagnia dà un compenso a consegna diverso: un fisso di 4-5 euro, più un’altra somma parametrata sui chilometri percorsi. Solo che anche qui nulla è scritto nella pietra. C’è chi calcola il tragitto effettivamente percorso, chi conteggia le distanze in linea d’aria e chi calcolando il percorso teorico di Google Maps. Cifre e parametri che comunque la compagnia può cambiare a proprio piacimento e senza avvertire i rider.

Irfan è un rider da due anni. Durante il coronavirus ha avuto molta paura di essere contagiato. Lui e i suoi colleghi sono stati costretti a lavorare in condizioni rischiose. Irfan non ha mai potuto sottrarsi perché deve continuare a mandare i soldi alla sua famiglia rimasta in Pakistan
© Vanessa Vettorello/Parallelozero per Cortona On The Move

“Detto questo – prosegue Francesco – bisogna vedere che tipo di consegne ottieni quel giorno: se ad esempio becchi il ristoratore che ti fa aspettare tempo fuori parti già male…”. Una volta dentro il sistema, si cominciano a conoscere i ristoranti e le pizzerie dove ritirare il cibo da consegnare. Quelli noti per non essere rapidi vengono evitati sperando in una chiamata migliore. E poi, come in una puntata della serie “Black Mirror”, ogni rider ha un suo punteggio da 1 a 100 e grazie a quello può ottenere dalla app più fiducia.

Proprio così: se l’app ti dà più fiducia, tu fai più ore di lavoro posizionate meglio nell’arco della giornata. I punti si ottengono dando disponibilità nei giorni di weekend e festivi, se i clienti valutano bene il servizio del rider sulla app, se si passa più tempo nell’applicazione a cercare le ore. Il meccanismo manda facilmente in pappa il cervello. Dice Francesco: “La fiducia data o negata dalla app può essere devastante. Se una sera te la prendi libera per stare con la tua ragazza hai il terrore di perdere punti e quindi consegne e quindi reddito. Non stacchi mai“.

Si va con la partita Iva, se questo lavoro viene fatto a tempo pieno, cioè sei giorni su sette. E si possono portare a casa tra i 1.000 e 1.300 euro, lordi naturalmente. In scooter magari si arriva a 1.700, ma poi bisogna togliere le spese per il mezzo. Lo stesso vale per l’automobile.

Naturalmente anche la app ha una sua vulnerabilità. E il doppio lavoro è possibile. Ogni numero di telefono di rider ha accesso ad una sola app di delivery. “Ma basta avere un secondo account… Qualcuno poi si fa addirittura il terzo account e magari lo affitta chiedendo una percentuale media del 20 per cento a chi ad esempio è stato fatto fuori dal sistema”.
E così lo schiavo diventa caporale.

“Attenzione: gli importi presenti sull’applicazione sono errati”

Il primo giorno di lavoro di Andrea cominciò in maniera diversa rispetto a quello che, legittimamente, si aspettava. Aveva fatto il primo chilometro sulla sua “Atala” rimessa a nuovo con grande scioltezza, senza avvertire un minimo di fatica. Arrivò all’appuntamento e trovò in fila i suoi colleghi. Avevano gli zaini per terra e telefonini nelle mani. Uno di loro gli spiegò come funzionava.

“Noi lavoriamo per Uber eats – gli disse uno dei ragazzi – Sei mai stato all’estero? Avrai preso probabilmente una macchina Uber. Ecco, noi lavoriamo per loro”. Già, nell’estate del 2016, Uber, abbandonato il servizio di trasporto auto privato in Italia, aveva deciso di inaugurare un nuovo servizio di consegna di pasti a domicilio tramite un’applicazione dedicata: “UberEats”. Era partita da Milano. Per arrivare a Rimini, Torino, Reggio Emilia. Bologna, Firenze e Roma.

“Non siamo però i più grandi. Per il momento, almeno”, aveva aggiunto il tipo. Andrea questo lo sapeva. Aveva studiato in rete. Tra le società di food delivery (Just Eat, Uber Eats, My Menu, Deliveroo e Glovo), Uber, in realtà, non occupava una posizione di testa. Just Eat consegnava in tutto il territorio nazionale. Glovo anche. Deliveroo in 15 città, ma era presente da molto tempo. My Menu in sei.

“Il rapporto – gli continuò a spiegare quel ragazzo – è fra ristorante e corriere, con Uber che mette a disposizione la piattaforma e tiene per sé una percentuale (dal ristoratore). All’inizio, quando io ho cominciato – tenne a precisare il ragazzo, facendo capire, dunque, che lui era un veterano – c’era un canale diretto dove il singolo corriere si iscriveva e, dopo una banale verifica dei documenti, gli veniva abilitato l’account per poter lavorare e fare consegne. Dalla fine 2017, inizio 2018 le cose sono cambiate. Ed è cominciata una collaborazione con una società che fornisce il servizio a Uber. Noi lavoriamo per loro”.

La società si chiama Flash Road City e il “capo” si chiama Giuseppe. Mentre Andrea continuava a parlare con il collega esperto si fece avanti uno della società. Per spiegargli come avrebbe funzionato. “Vedo che hai la bicicletta”, gli disse, indicando l’Atala.
“Sì”.

“Bene, quindi la tua è una formula bike. Il compenso lordo è di 3,75 euro lordo a consegna. Quindi sono 3 netti. Con il motore saremmo andati a 4,37, ovvero 3,50 netti. Il primo pagamento avverrà dopo la terza settimana di lavoro. Vi paghiamo ogni quindici giorni, se ci sono mance le tratteniamo e poi ve le consegniamo. Sull’applicazione ci sono dei calcoli diversi, ma sono sbagliati. Capito? Sbagliati. Chiaro? SBAGLIATI!”.Era chiaro.“Il calcolo avviene sulle consegne effettuate: 3 euro l’uno”.
Ad Andrea fu messo sotto il naso un fogliettino dove era spiegato, chiaramente, quello che gli era stato appena detto.

E ora, firma qui

Ad Andrea fu messo sotto il naso un altro foglietto. Bianco e con in calce una data e un’intestazione in stampatello maiuscolo.

“Accordo di collaborazione occasionale3 euro netti x consegna.
Pagamento ogni 2 settimane”.

“Firma”.

Andrea firmò.
C’era anche da siglare un altro accordo.

“Ricevo borsa di lavoro. In caso di perdita o rottura verranno addebitati 80 euro (valore materiale)”.

Andrea firmò.

“Dovete essere disponibili nelle ore cruciali, cioè quelle delle ore pasti. Sia a pranzo sia la sera”.
Tre euro vale per qualsiasi consegna?”, chiese Andrea al “capo”.
“Sì. Ovunque andiate. Tre euro a consegna”.

In mano, il ragazzo della Flash Road teneva un foglio con il computo del mese di tutti gli altri rider. Colonna con il numero delle consegne, paga settimanale: 68-179 euro. 75-225. 13-33,50.
C’erano anche altre due colonne nella tabella.
Quella “bonus”, vuota. E quella “malus”.

Il malus – spiegò – si calcola come cifra da sottrarre alla paga. Venite puniti se non vi attenete ad alcune disposizioni: per esempio se rifiutate gli ordini o se non le consegnate in tempo. Il tuo numero ce l’ho?”.
“Sì”.
“Eccolo, ti mando un messaggio per capire come funziona”.

Il messaggio arrivò immediatamente.
“Le percentuali di accettazione e di cancellazione settimanali delle consegne incideranno sul pagamento in questo modo:
– verrà applicata una penalità di 0,50 € per ogni consegna se la percentuale di accettazione è inferiore al 95%;
– verrà applicata un’ulteriore penalità di 0,50 € per ogni consegna se la percentuale di cancellazione è superiore al 5%.
Le percentuali che vengono tenute in considerazione sono quelle della settimana intera.

Esempio: cosa succede se completate 10 consegne tenendo una percentuale di accettazione dell’80% e una percentuale di cancellazione del 20%? Normalmente dovreste guadagnare 30,00 € (10 consegne x 3,00 €), ma in questo caso riceverete una penalità di 5,00 € per l’accettazione troppo bassa (0,50 € x 10 consegne = 5,00 €) e un’altra penalità di 5,00 € per la cancellazione troppo alta (0,50 € x 10 consegne = 5,00 €). Quindi guadagnerete solo 20,00 € (cioè 30,00 € – 5,00 € – 5,00 €)”.

“Quindi mi pagate 3 euro a consegna, ed eventualmente mi togliete anche dei soldi?”, chiese Andrea.
“Esatto”.
“C’è altro da sapere?”.
“No”.
Sul telefono di Andrea, arrivò il primo messaggio. C’era da andare a prendere una consegna da McDonald, a tre chilometri dal punto in cui si trovava. Per portarla, sempre in bici, in un appartamento distante altri quattro chilometri.
Saltò sulla bici e cominciò a pedalare, verso un Big Mac ma in realtà verso una nuova vita. Il telefono cominciò a vibrare.

Andrea fissò il display.
 “MESSAGGIO IMPORTANTE!!! Da oggi chi non risponderà ai messaggi di Michael per le disponibilità o per qualsiasi altro motivo Non lavorerà mai più con Uber!.
Tutti coloro che
– non rispettano l’orario di lavoro che comunicano;
– si inventano delle scuse false per non andare a lavorare;
– si mettono online in una zona lontana da dove si svolge il lavoro;
– non rispondono ai messaggi e in generale non sono collaborativi nella organizzazione del lavoro;
– non rispettano le percentuali richieste da Uber: accettazione superiore al 95% e cancellazione inferiore al 5%;
– non hanno capito, dopo moltissime spiegazioni, come funzionano i pagamenti (siamo stanchi di essere infastiditi dai messaggi di chi sostiene falsamente di non avere ricevuto i soldi), non potrà continuare a lavorare”.

Andrea rilesse il messaggio almeno per altre due volte. Fermò la bicicletta. Entrò in un bar, con lo zaino a tracolla, per mangiare qualcosa. Tutti lo scansavano, il corridoio era stretto e quel baule Uber Eats occupava tutto lo spazio. Il barista gli disse: «Guarda che non c’è nessuna consegna da fare”.

“Un cappuccino», rispose. “Per me”.

Il ragazzo dietro il bancone gli voltò le spalle, azionando la macchina del caffè.
Andrea prese il telefono in mano. E non ci pensò molto. Venne tutto abbastanza naturale. Cercò in rubrica il numero di quello che lo aveva reclutato per quel lavoro, il “capo”, quello che gli aveva fatto firmare quei pezzi di carta, e gli scrisse. Sorrise, bevve il cappuccino con molta calma. Lasciò una moneta da due euro sul tavolo e, senza prendere nemmeno il resto, si avviò verso l’uscita. Il telefono gli squillò ancora. Lesse con soddisfazione tutta la conversazione.

“Ciao sono Andrea, volevo dirti che sei uno schiavista e un ladro. Vai a fare in culo”.
“Ti vengo a prendere a sberle, ti rompo il culo. Da noi non lavorerai perché ho bloccato il tuo account. Non ti farò mai più lavorare, questo è quanto”.
Andrea rimise il telefono in tasca. Salì sulla bicicletta e andò via, salendo sui pedali.

Oriana ha 40 anni e fa l’educatrice in un progetto di assistenza domiciliare ai disabili, oltre che la baby sitter per arrotondare. “Appena è scattato il lockdown non era chiaro se il mio lavoro fosse tra quelli sospesi, perché un’educatrice domiciliare ha un rapporto diverso con la persona che segue. Poi ho appreso che il decreto stabiliva che sarebbe dipeso solo dalla mia volontà e ho deciso di non sospendere per non causare traumi psicologici alla ragazza. Ma ho avuto tanta paura di poter essere un vettore di contagio per lei e per il bimbo che seguo alla mattina. In entrambi i casi è impossibile mantenere le distanze”
© Vanessa Vettorello/Parallelozero per Cortona On The Move

Stazione Porta Genova

Lo zaino a cubo col marchio era meglio di qualsiasi lasciapassare. Milano, come il resto del Paese era in lockdown. Un deserto da percorrere per raggiungere chi, in casa, aveva solo loro come contatto con il mondo esterno: i rider. Pedalare, dunque. Come se non fosse mai cambiato nulla: pedalare-pedalare. Prigionieri di un doppio incantesimo. Quello della app col suo algoritmo della fiducia e quello di una città irreale.

La stazione ferroviaria di Porta Genova a Milano è a due passi dai Navigli. E, ogni giorno in quei due mesi di quarantena, da una finestra della loro casa che dà sulla piazza, intorno alla mezzanotte, Alberto Piccione e la sua compagna avevano assistito a un identico spettacolo. Trenta, quaranta, anche cinquanta rider che dopo una intera giornata di consegne attendevano i pullman sostitutivi dei treni per rientrare a casa. Cioè nei paesi e nelle frazioni dell’hinterland, avamposti dormitorio dove affittare una stanza o un posto letto costa la metà rispetto alla scintillante, velocissima e ormai proibitiva Milano.


Il covid e il necessario distanziamento sociale impedivano di garantire a quei ragazzi in attesa spazio per tutti dentro il pullman. “Allora regolarmente scoppiava la ressa per entrare prima degli altri”, racconta oggi Piccione. Battagliare per conquistarsi il diritto di tornare a dormire in un letto normale piuttosto che accomodarsi in stazione. Ogni notte la stessa storia: gli autisti dei pullman provavano a dividere i rider, quindi l’arrivo delle volanti, i cittadini della zona esasperati dagli schiamazzi, i tassisti nei paraggi per provare a raccogliere qualche corsa dei rimasti a piedi.

“Questo – ragiona Angelo A., che si dà da fare nel collettivo di mutuo soccorso Deliverance – è quello che si muove dietro le quinte di un intero sistema dove, alla fine, i più fragili pagano pegno due volte. Sono necessari, anzi indispensabili, per soddisfare esigenze considerate ormai parte essenziale della nostra quotidianità. Ma spesso senza neanche i diritti basilari”.

“Nel frattempo, il lockdown è finito, i treni sono tornati a circolare con regolarità, eppure per gli operai a cottimo delle consegne la vita rimane complicata. I pendolari si lamentavano della loro presenza ingombrante e fissa – bici e zaino – che per forza di cose gli toglieva il già non molto spazio vitale, così Trenord ha tagliato la testa al toro vietando il trasporto di biciclette sui vagoni. Ed ecco quindi come tutto si lega e si tiene insieme: speculazioni immobiliari che fanno schizzare i prezzi di case e affitti alle stelle; allora vai a vivere fuori ma i tagli al trasporto pubblico locale trasformano un viaggio in treno verso la città in una conquista, in una battaglia coi tuoi simili; e quando arriva il momento di lavorare, beh, eccolo qui il momento”.

Palazzo di giustizia

Una sera, in birreria, Andrea aveva raccontato quell’esperienza da fattorino di Uber a un tavolo di amici, dopo una partita di calcetto. In fondo ora un lavoro decente lo aveva trovato – dietro il banco di un ferramenta – e il senso di umiliazione se n’era andato, lasciando giusto un po’ di rabbia.

“Lo zaino non l’ho mai più riconsegnato. Lo tengo come fosse una reliquia”, diceva.
E chi lo ascoltava aveva riso molto.

Qualche tempo dopo, gli era arrivato un messaggio da un numero che non conosceva.
“Ciao Andrea, sono Marco, quello del calcetto. Ci vediamo un attimo? Devo parlarti di una cosa”.
Rimase sorpreso ma in pausa pranzo lo raggiunse. L’incontro durò poco, giusto il tempo di consegnarli un plico di 60 pagine.
“Tribunale di Milano, sezione autonoma misura di prevenzione”, diceva l’intestazione.

“Non te l’ho mai detto, Andrea, ma io sono un carabiniere. Ci vediamo sul campo”.
Andrea si mise a leggere.
“Procedimento di prevenzione nei confronti di Uber Italy srl”, era l’intestazione.
Poi continuò.

“Nell’ambito del procedimento penale n. 41492/19 sono stati svolti accertamenti in ordine alla possibile perpetrazione del reato ex art. 603 bis c.p. (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) in danno dei c.d. ‘riders’ da parte delle imprese che ne gestiscono le consegne. Caratteristica peculiare del lavoro disimpegnato dai riders per conto della FLASH ROAD CITY è risultata la modalità di retribuzione: in tal senso è emerso come essi sarebbero stati pagati ‘a cottimo’, 3 euro per ogni consegna effettuata, indipendentemente dalla distanza percorsa (ritiro presso il ristoratore e consegna al cliente finale), dalla fascia oraria (diurna o notturna e giorni festivi) e delle condizioni metereologiche”.

Made with Flourish

“La modalità di retribuzione, tra l’altro, non terrebbe nemmeno conto del valore che la stessa ‘app’ di UBER attribuisce alla singola consegna. In altri termini, ogni rider, attraverso la propria ‘app’, visualizza preliminarmente l’importo che UBER riconosce per la corsa portata a termine (ritiro/consegna) ma, ciononostante, il rider verrebbe pagato sempre e solo 3 euro a consegna. Il monitoraggio delle comunicazioni telefoniche e delle conversazioni intercettate ha consentito di delineare una struttura organizzativa palesemente illecita sia nei rapporti lavorativi con il personale mai regolarmente assunto sia nei rapporti di collaborazione con una vasta schiera di fattorini, operanti in diverse città italiane, in nome e per conto di Uber”.

“Gli indici di sfruttamento previsti dalla normativa in esame sono sostanzialmente due: lo sfruttamento lavorativo e l’approfittamento dello stato di bisogno. Le articolate attività d’indagine, volte ad accertare il collegamento tra l’intermediario e l’utilizzatore, hanno consentito di delineare in maniera puntuale il numero di lavoratori reclutati, le reali condizioni di lavoro, i metodi di sorveglianza e il mancato versamento delle ritenute d’acconto operate (ma non certificate) e non versate”.
“La veste di apparente legalità che caratterizzava, infatti, la Flash Road City le ha permesso, nell’arco temporale giugno 2018 – febbraio 2020, di reclutare una crescente manodopera costituita da numerosi migranti richiedenti asilo, per lo più dimoranti presso centri di accoglienza straordinaria, che si trovano in condizioni di vulnerabilità sociale tale da poter richiedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari: infatti, la maggior parte dei soggetti escussi a sommarie informazioni era in possesso di permessi di soggiorno a tempo in attesa di conoscere l’esito da parte delle Autorità nazionali delle loro richieste finalizzate ad ottenere lo status di rifugiato politico”.

“Basti pensare che una ricerca effettuata su parte dei nominativi emersi dalle indagini effettuate ha evidenziato che buona parte dei riders reclutati dalla Flash Road City proveniva da zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri), la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare e lontananza dai propri familiari”.

“Il forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori immigrati offre l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo poiché si tratta di persone disposte a tutto per avere i soldi per sopravvivere, sfruttate e discriminate da datori di lavoro senza scrupoli che avvertono in loro il senso del sentirsi costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e quindi disposti a fare non solo i lavori meno qualificati e più pesanti ma anche ad essere pagati poco e male”.

“L’analisi appena esposta chiarisce, indubbiamente, le motivazioni che hanno indotto i riders reclutati dagli indagati ad accettare le condizioni previste nei documenti che sono stati rinvenuti in sede di perquisizione e sequestro nonché dall’analisi dei documenti estratti dai dispositivi informatici analizzati”.

Nel fascicolo c’erano i nomi dei riders: stranieri, italiani. C’era anche il suo, Andrea. C’erano i loro messaggi. Le loro fotografie.
C’erano anche dei numeri.

Alpha, 26 anni, originario della Costa D’avorio, ha perso il lavoro all’inizio della pandemia. Lavorava da qualche mese in un ristorante come lavapiatti. Dopo essere stato per un anno in un Centro di Accoglienza Straordinario era riuscito a permettersi una casa in periferia. “Ora non so più come pagare l’affitto. Devo trovare qualcosa di nuovo ma è difficile, c’è troppa crisi”
© Vanessa Vettorello/Parallelozero per Cortona On The Move

“Sono stati sottratti 21mila euro ai fattorini di mance. E trovati 547.400 euro da ritenersi profitto dei reati di appropriazione indebita in relazione all’omesso versamento delle ritenute d’acconto effettuate e di sfruttamento del lavoro (Euro 242.200 oltre ad Euro 305.200 occultati in una cassetta di sicurezza sita presso l’istituto di credito Intesa San Paolo di Milano via Lorenteggio 70)”.

Il telefono gli squillò di nuovo. Era un messaggio di Marco, il carabiniere.
“Sai la cosa più divertente? Quando hanno saputo dell’indagine sono corsi in banca per svuotare la cassetta di sicurezza piena di contanti. I soldi rubati ai riders. Noi li aspettavamo fuori”.

ATTO II

Il capitalismo della piattaforma

La differenza tra lavoratori e schiavi è che i secondi non hanno alcun potere di contrattazione. Prendere o lasciare. I datori di lavoro li spremono finché vogliono e poi li buttano. Avanti un altro, come nelle “Vite di scarto” raccontate dal sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman.

Fino a poco tempo fa, però, gli schiavi assicuravano una cattiva reputazione a chi li sfruttava. Adesso – e le storie di Andrea e Francesco lo dimostrano – non più. Perché la frontiera della spoliazione dei diritti dei lavoratori è, appunto, sempre più spesso digitale. I 3 euro a consegna di Uber Eats raccontano il paradosso evidente di uno dei campioni della cosiddetta sharing economy (impostura linguistica a ben vedere): il massimo della tecnologia (con una app che smista le consegne tra i fattorini, indica loro il percorso, decide il prezzo della loro prestazione, alla faccia dell’autonomia), con il minimo dei diritti.

È il paradosso fondativo del “platform capitalism”, per cui chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione. E’ così che il patrimonio personale di Travis Kalanick, il giovane fondatore di Uber, in poco più di un lustro, passa da zero a sette miliardi, mentre sempre più autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione alle tariffe, dormono nei parcheggi dell’aeroporto di San Francisco per essere i primi ad aggiudicarsi le corse buone. O, lo abbiamo visto, i riders di UberEats si azzuffano nella notte in Porta Genova.

L’Economia delle briciole

Insomma, altro che economia della condivisione. Semmai “Share the scraps economy”, come l’ha ribattezzata l’economista Robert Reich, dove i lavoratori si spartiscono giusto le briciole mentre il grosso dei guadagni, talvolta esentasse per sofisticate triangolazioni fiscali, resta nelle mani dei padroni delle piattaforma. Vale per Uber, parzialmente per Airbnb e in maniera ancora diverse per Glovo, Deliveroo, JustEat.

I lavoratori dell’economia dei lavoretti, sono una minoranza (intorno al 10% della manodopera negli Stati uniti, il 3% in Gran bretagna e sui 700 mila in Italia, stando al primo censimento voluto da Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo DeBenedetti, mentre altre indagini danno cifre decisamente più basse) ma è importante occupercene oggi per evitare che quella mediata dall’algoritmo non diventi la modalità standard dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

D’altronde cosa vieta, tanto più adesso che il tabù del lavoro a distanza è stato definitivamente infranto, che un medico, un architetto o un giornalista non si mettano all’asta online, a quel punto in competizione con colleghi albanesi o in qualsiasi altra parte del mondo a patto che parlino la nostra lingua?

Made with Flourish

Le prime vittime della globalizzazione sono state le tute blu. Le seconde si candidano a diventare i colletti bianchi. Nel frattempo, i riders, ormai servizio pubblico de facto in quanto tra i pochissimi, con autisti di bus e tassisti, autorizzati a sfrecciare sulle strade italiane desertificate dal lockdown per consegnarci la cena a domicilio, continuano a prendere una miseria. E a contare niente.

Tra le varie misure di sostegno annunciate per chi perde il lavoro o lo mantiene pesantemente decurtato ci sarebbero anche loro. In teoria. Ancora un mese fa, una rassegna tra i ciclofattorini del capoluogo emiliano, quartier generale del sindacato sociale Riders Union Bologna, mostrava che a lavorare erano rimasti quasi solo gli immigrati. Gli italiani chiedevano un reddito di quarantena al grido di “una pizza non vale il rischio”.

Gabriel De Paris era tra i pochi superstiti autoctoni: “Il perché è semplice: non ho alternative e mi servono i 500 euro che, in media, porto a casa al mese”. Nella sfortuna, era meno sfortunato di altri, lavorando per MyMenu, un’azienda italiana di consegne che ha sottoscritto la Carta dei diritti dei lavoratori digitali fortemente voluta dal Comune e che offre tutele basilari.

Mentre Saeed, ventottenne afgano che lavora per la multinazionale Deliveroo e ha provveduto in autonomia per le mascherine tagliando un berretto e trasformandolo in scaldacollo che tiene davanti alla bocca, ha visto sprofondare i suoi non disprezzabili incassi di prima a circa 300 euro al mese, lavorando sette ore nei feriali e anche più di 10 nei festivi (McDonald’s aveva chiuso e gli stessi riders erano costretti a spartirsi le corse rimaste dopo la defezione del principale cliente).

A fine 2019, dopo una lunga serie di false partenze, è diventato legge un decreto che li riguarda. Scoraggia il cottimo. Fissa compensi minimi. Dà la protezione Inail per tutti in caso di incidenti sul lavoro (le aziende però hanno un anno per mettersi in regola e quindi, oggi, per molti le protezioni restano sulla carta). Passi avanti, tra tante disposizioni ancora discutibili. Ma i riders, testimonial ideali del nuovo precariato perché lavorano in strada, hanno divise vistose che è impossibile non notare, con i loro cubi frigo sulle spalle sono la rappresentazione plastica di nuovi Sisifo nell’atto di uno sforzo abbastanza vano, stanno simpatici a tutti.

Made with Flourish

Destra e sinistra. È facile empatizzare con loro. Potrebbero essere i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri fratelli sgobboni. Sono generalmente assai istruiti (il 6% di chi campa con le piattaforme ha master o dottorato, sempre da solito censimento) e quindi sanno raccontarsi molto meglio di altri. Nonostante tutto questo, e lo sanno benissimo anche loro, sono solo una piccola provincia della grande nazione dello sfruttamento.

Se infatti da Milano si scende verso Bologna, Roma, per poi spingersi in Calabria, si incontrano i ricattati di “Mondo Convenienza”, gli edili che volteggiano sui ponteggi senza protezione, i forzati dei call center. Decisamente più invisibili dei rider, ma non meno abusati.

Un Mondo di Convenienza
Bologna

Succede spesso che i contratti ci siano, e ci siano le buste paga, ma la realtà non è quella scritta nei documenti. Milleduecento euro al mese per trasportare e montare mobili. Lo stipendio è nella norma e per tanti lavoratori che provengono dai Paesi dell’Est, quel compenso può sembrare un colpo di fortuna. Tanto più se la ditta che lo offre usa un marchio conosciuto.

I dipendenti delle srl e cooperative che lavorano per Mondo Convenienza, contratto multiservizi, guadagnano proprio quella cifra. Solo che nei 1.200 euro tutto è compreso. Anche se la giornata di lavoro è di 12 ore, 7 giorni su 7. “La cifra attira molti lavoratori rumeni contattati direttamente nel loro Paese d’origine, o portati in ditta da conoscenti che già vi lavorano – spiega Susanna Sandri, segretaria della Filt Cgil di Bologna, sindacato che con le cooperative e le srl fornitrici del marchio Mondo Convenienza ha dal 2017 una causa in corso per attività antisindacale e differenze retributive fra busta paga e orario effettivo –  I nostri delegati, che nel frattempo sono stati tutti licenziati, ci raccontavano di come, una volta caricati i camion alle 6 del mattino, il lavoro finisse solo a consegna effettuata. Allora, in azienda, si usava una specie di promemoria che segnava i tempi di scarico merce e il nominativo del cliente. Ciò ci permetteva di ricostruire l’orario di lavoro, che era in media di 12 ore al giorno. Ora quel foglio non si usa più. C’è solo il nome di chi riceve la merce. Non abbiamo più rappresentanza sindacale, ma sappiamo che le condizioni di lavoro sono peggiorate”.

Lo racconta l’ex dipendente Cristian P.: “Sono rimasti in pochi e chi c’è corre di più”. Lo conferma Doru che per Mondo Convenienza ci lavora ancora: “Sono pagato a giornata. Riesco a guadagnare fino a 80 euro al giorno. Ma di ore ne faccio anche più di 14, sabato compreso. E c’è chi sta peggio di me. Sopra agli uffici di Bologna ci sono delle stanzette: ci dorme chi arriva direttamente dalla Romania e non ha casa.

Fino a 6 dipendenti per stanza. Per quel letto pagano sui 130 euro al mese trattenuti dallo stipendio”. Una circostanza che Mondo Convenienza smentisce, assicurando “di avere tutto l’interesse a prendere provvedimenti nei confronti di chi non rispetta i diritti dei lavoratori”, di “non affittare a nessun dipendente proprie stanze”, “di non chiedere a nessun dipendente soldi”, “di non avere cause in corso con il sindacato”. Il sindacato, invece, conferma le accuse e, con loro, le cause in corso.

Paolo, 40 anni, lavora per una multinazionale della logistica. Le consegne si basano su un algoritmo: durante il periodo del Covid-19, il carico è aumentato considerevolmente e i tempi per le consegne si sono sempre più ristretti (in un giorno possono arrivare anche a 170 in 8 ore e 45 minuti). “Manca umanità, un sistema informatico decide tutto, questa è l’unica cosa che mi dispiace davvero dell’ambiente in cui lavoro”
© Vanessa Vettorello/Parallelozero per Cortona On The Move

Dallo “smorzo” ai colletti bianchi
Roma…

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Sorgente: Se lo schiavo sei tu: inchiesta sui giovani e sulla Gig Economy | Rep

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