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Sul piano Colao va subito in scena il teatro dell’assurdo: chi lo ha voluto lo rinnega, chi non lo voleva lo loda. È tutto, meravigliosamente italiano, questo viaggio che riporta sempre al punto di partenza

By Alessandro De Angelis

È tutto meravigliosamente italiano, questo viaggio tra le parole, leggere, incoerenti, che fanno dei giri immensi poi ritornano a parti invertite. La parola “Piano”, che evoca tante cose, la politica come programmazione, progetto visione quinquennale, decennale, comunque ambizioso. Piano di ricostruzione, di “Rinascita” dice qualcuno, dimentico di Gelli, ma tanto non se lo ricorda nessuno per fortuna, stavolta è di Colao, stimatissimo manager chiamato da Conte a presiedere una task force in piena emergenza.

Lavoro serio, dettagliato, settimane di approfondimento, decine di call tra esperti. Ecco, consegnato, ti aspetti che il committente lo faccia suo, con pubblico ringraziamento, altrimenti non si capisce perché sia andato a scomodare un manager che, magari, aveva altro da fare e perché, tra i tanti, abbia scelto proprio lui, con le sue competenze, la sua visione, le sue idee. E invece, una volta recepito, il governo, di fatto, lo accantona. Ci sono due formule che, in politica, da che mondo è mondo fanno capire subito quando un qualcosa e un qualcuno vengono messi da parte. Quando si dice “è un contributo, utile alla discussione” e quando si dice “è una risorsa”, che è un po’ come invitare qualcuno a farsi da parte. Si capisce che Colao, presentato il contributo, è già destinato a diventare una risorsa, perché “a ognuno il suo mestiere, e le scelte spettano alla politica”, cioè a coloro, scusate il gioco di parole, che, in assenze di idee, rinunciarono a fare il proprio mestiere, cedendo sovranità ai tecnici.

Chissà se, a questo punto, gli saranno concessi, almeno, gli onori di un passaggio a Villa Pamphili, desiderio mai nascosto dei presidenti del Consiglio nella fase della propria grandeur, lì dove Gheddafi piantò le sue tende per le amazzoni, in piena epopea berlusconiana. Lì dove Renzi fu folgorato dal “Casino del bel respiro”, l’elegante altana che svetta dentro un parco di duecento ettari. Leggenda vuole che, per evitare gli ingorghi del traffico romano, ci dormì alla vigilia di un incontro diplomatico. Niente di nuovo, nella Roma eternamente uguale a se stessa, dove gli stessi simboli hanno sedotto tanti Cesari e tanti Papi. Bettino Craxi, qualche lustro prima, aveva pensato di trasferirci la dimora del presidente del Consiglio, ma fu pressoché respinto dalle petizioni dei romani.

Dicevamo, i giri immensi poi ritornano, a parti invertite. Le parole che non ti aspetti sono quelle di Matteo Salvini, il più critico, solo qualche settimana fa verso le task force che “dimenticano settori”, perdite di tempo di fronte a un paese che rischia la fame. Adesso, invece, apprezza: “Molti punti sono quelli che la Lega già da marzo propose al presidente del Consiglio”. Anzi, carte alla mano, viene spiegato che sul blocco delle tasse, l’eliminazione del limite della spesa in denaro contante, sblocco dei cantieri, modello Genova, taglio delle tasse sul modello flat tax e anche su investimenti su turismo e scuola, di fatto vengono recepiti, nel Piano, gli emendamenti presentati dalla Lega.

Voi capite: ciò che era una cosa seria per gli uni e inutile per gli altri diventa inutile per gli uni e utile per gli altri, chi ha voluto la task force la rinnega, chi non la voleva la loda, nella sublimazione del pirandellismo per cui nulla è come appare e nulla appare come è. Il Piano che, come l’amore che diventa calesse, è un nonsense: non si sa cosa sia, ma non è quello che sarebbe dovuto essere, disvelatore di una politica che fa suo, su larga scala, il precetto dell’Inail ai bagnini: “Puoi salvare le vite umane in acqua, ma non puoi fare la respirazione bocca a bocca”. Una cosa e la sua negazione, in una dimensione dell’assurdo separata dalla realtà. A palazzo Chigi ci si arrovella su come organizzare Villa Pamphili, il Parlamento è bloccato dall’ostruzionismo sulla data del voto, se il 20 o il 27 settembre, voto che sarà alla fine deciso dai presidenti delle Regioni, mentre tutt’attorno succedono cose che con la realtà hanno a che fare. Tra un “bilaterale” e l’altro con all’ordine del giorno questi benedetti Stati Generali, per dirne una, piomba la dichiarazione del ministro delle Finanze tedesco il quale chiede di ridurre il Recovery fund da 750 a 500 miliardi, a conferma che non piovono soldi, ma che c’è una proposta, una battaglia da compiere in Europa e che solo ora inizia una trattativa vera.

E allora ti accorgi che questo teatro, in fondo, con le sue parole in libertà, le sue parti invertite, la sua insostenibile leggerezza, è anche un modo per non parlare d’altro, anche all’interno della maggioranza, perché è assurdo ma anche innocuo litigare su come fare la “campagna d’ascolto”, se di un giorno, tre giorni, tre mesi, certo meno impegnativo rispetto a tutti quei temi su cui tutta questa drammatizzazione non c’è stata: i migranti, la scuola, la cassa integrazione, i decreti che sembrano un labirinto, le semplificazioni che si complicano, eccetera eccetera. È tutto meravigliosamente italiano questo viaggio che riporta sempre al punto di partenza.

Sorgente: Pensavo fosse un piano, invece era un calesse | L’HuffPost

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