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Traduzione Beniamino Benjio Rocchetto

EYAD AL-HALAK: UN’ALTRA CRUDELE ESECUZIONE DI UN PALESTINESE MISTIFICATA DA ISRAELE – GIDEON LEVY

La fatale raffica di proiettili della polizia contro un palestinese autistico evidenzia, ancora una volta, le disuguaglianze grottesche che sono arrivate a definire lo stato israeliano.

Di Gideon Levy – 5 Giugno 2020
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✒️Eyad Al-Halak lasciò la sua casa verso le sei di quella mattina. La sua famiglia dice che era sereno. Il video di una telecamera di sicurezza non lontano da casa sua lo mostra camminare, tenendo in mano un sacco della spazzatura. Portava sempre fuori la spazzatura quando usciva di casa la mattina.

Halak stava andando al centro di cura dove andava ogni mattina negli ultimi sei anni. Entrò nella Città Vecchia di Gerusalemme attraverso la Porta del Leone e procedette lungo King Faisal Road, l’inizio della Via Dolorosa. Era diretto al centro Elwyn El-Quds per persone con disabilità, a poche centinaia di metri dalla Porta del Leone, vicino all’ingresso della piazza Al-Aqsa.

UN’ESISTENZA STRAVOLTA

Halak non è mai arrivato a destinazione sabato scorso. La polizia di frontiera israeliana ha iniziato a inseguirlo, gridando: “Terrorista! Terrorista!” Il motivo non è chiaro. Gli hanno sparato, evidentemente colpendolo alla gamba. Preso dal panico, corse a nascondersi dietro un cassonetto dei rifiuti lungo la strada nel tentativo di nascondersi.

Anche la terapista di Halak, Warda Abu Hadid, mentre anch’essa si recava al centro Elwyn, si è riparata dagli spari della polizia dietro il cassonetto dei rifiuti.

Tre agenti della polizia di frontiera arrivarono rapidamente alla porta del deposito. Halak era sdraiato sulla schiena sul pavimento sporco. La psicologa ha visto che la sua gamba stava sanguinando. I tre poliziotti rimasero lì, con le pistole spianate, urlando ad Halak: “Dov’è l’arma? Dov’è l’arma?”

Warda Abu Hadid, la sua terapista, urlava contro i poliziotti, sia in arabo che in ebraico: “È disabile! È disabile! ” Halak stava urlando: “Sono con lei! Sono con lei!” Questo andò avanti per circa cinque minuti, finché uno degli agenti di polizia sparò con il suo M-16 verso Halak a distanza ravvicinata. Un proiettile lo ha colpito alla schiena colpendo la spina dorsale e danneggiando vari organi interni, uccidendolo sul posto.

Così finì la breve vita di Iyad Al-Halak, un giovane palestinese con autismo il cui volto era quello di un angelo. Aveva 32 anni e gli occhi dei suoi genitori. Si sono presi cura di lui con grande devozione in tutti questi anni, e ora tutto il loro mondo è crollato.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se un palestinese avesse giustiziato, in modo simile, un israeliano con disabilità. Ma quando la vittima è palestinese, quasi tutto è lecito.

GIUSTIZIATO PER ESSERE PALESTINESE

Negli ultimi anni, almeno altri quattro palestinesi con disabilità simili sono stati uccisi da soldati o poliziotti. Un paio di settimane prima della morte di Halak, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso Mustafa Younis, un cittadino palestinese di Israele con una disabilità mentale, all’ingresso del Centro Medico di Sheba, uno dei più grandi ospedali di Israele, dopo che Younis ha accoltellato una guardia di sicurezza.

Younis avrebbe potuto essere arrestato, ma una tattica improntata ai territori occupati da Israele impone che sparare sia la prima opzione preferita dalle forze di sicurezza, piuttosto che l’ultima risorsa.

Ma cerchiamo di essere chiari: il fatto che queste vittime fossero mentalmente disabili non è il punto. Non sono stati uccisi perché disabili, ma perché palestinesi.

Moltissimi palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane nell’ultimo anno, tra l’altro uno dei più tranquilli nella storia di questo sanguinoso conflitto. In quasi tutti i casi, non rappresentavano una minaccia per nessuno; quasi tutti avrebbero potuto essere arrestati, o almeno feriti, piuttosto che uccisi.

Due giorni dopo l’omicidio di Halak, suo padre in lutto mi disse che quando fu informato che suo figlio era stato ferito, sapeva che era stato ucciso. “L’esercito israeliano e la polizia israeliana non si limitano a ferire, uccidono e basta”, ha detto il padre di Halak, nella tenda dove vive, nel quartiere di Wadi Joz.

Tra i palestinesi uccisi nei territori occupati negli ultimi mesi ci sono state giovani donne che hanno tentato di attaccare le forze di sicurezza armate ai posti di blocco con delle forbici; giovani che hanno cercato di accoltellare un soldato ma sono riusciti a malapena a graffiarne uno; persone in auto che hanno danneggiato veicoli militari, forse accidentalmente, forse come attacchi intenzionali; giovani che lanciavano pietre e a volte bombe molotov che non hanno ferito nessuno né causato danni; manifestanti disarmati e persone che cercavano di entrare in Israele, e alcuni che non avevano fatto nulla, né pianificato di fare qualcosa, persone come Eyad Al-Halak, il giovane la cui madre chiamava angelo.

MEDIA COLLABORAZIONISTI

Non è un caso che in Israele, quasi tutte le persone ingiustamente vittime della polizia israeliana, che diventa ogni anno più violenta, sono stati cittadini palestinesi di Israele. A volte sono ebrei etiopi. Ogni volta che un ladro d’auto, un manifestante o qualcuno il cui comportamento è ritenuto sospetto, o qualcun altro è stato ucciso dalla polizia, si scopre quasi sempre che sono arabi.

Non si tratta dell’occupazione, né del terrorismo. Si tratta dell’avere il grilletto facile quando l’obiettivo è un palestinese. Non c’è niente, nell’odierna Israele, con meno valore delle vite dei palestinesi.

I media sono i più spregevoli collaboratori dell’occupazione e del razzismo israeliano. I media israeliani oscurano ogni omicidio illecito, lo mistificano, lo giustificano, purché la vittima sia palestinese. La copertura mediatica di questi eventi è minima. Il messaggio è: un arabo morto, nessuna storia, niente di interessante, o niente di importante, o entrambi.

Anche in un caso così scioccante come l’esecuzione di Halak, la copertura mediatica è insufficiente. La storia è generalmente marginale o semplicemente ignorata. Gli israeliani non vogliono sentirne parlare, e i media preferiscono non disturbarli. Questi stessi media, nel frattempo, volgarmente amplificano ogni caso di lesione ad un israeliano, trasformandolo in un racconto epicamente apocalittico, ingrandito ad un livello inconcepibile.

IMPUNITÀ PER GLI ASSASSINI ISRAELIANI

Poi, naturalmente, viene la questione della punizione. In generale, quando i palestinesi vengono uccisi dalle forze israeliane, l’inchiesta non viene avviata, oppure viene annunciata un’indagine ma successivamente insabbiata o chiusa in modo inconcludente. Il messaggio per soldati e poliziotti è chiaro: uccidili, e non ti accadrà nulla di male

Nel frattempo, c’è il sempre presente lavaggio del cervello in Israele che include la disumanizzazione e la demonizzazione dei palestinesi. Ogni palestinese è un attentato terroristico in attesa di accadere, salvo prova contraria. Ogni palestinese ucciso viene ucciso legittimamente, e tutti i loro carnefici erano in pericolo.

Anche il linguaggio che descrive queste morti nei media israeliani racconta una storia diversa quando la vittima è un israeliano rispetto a un palestinese. Un palestinese non viene mai “assassinato” da un soldato o un colono. Un israeliano ucciso da un palestinese è sempre “assassinato”, anche se è un soldato che sta irrompendo brutalmente nella casa di una famiglia senza giustificazione nel bel mezzo della notte.

Questo scudo fornito dalla cooperazione e dal lavaggio del cervello dei media, insieme ad una punizione inesistente e ai valori razzisti così profondamente impressi nella coscienza israeliana, creano una situazione in cui la vita umana diventa inutile.

NON C’È PACE SENZA UGUAGLIANZA

Se un soldato o un poliziotto israeliano dovesse sparare a un cane domani, il colpevole sarebbe quasi certamente punito più duramente che se avesse sparato a un palestinese. Anche nei media, la morte di un cane randagio è una storia più importante di quella di un palestinese morto.

Sparare a qualsiasi essere vivente è, ovviamente, criminale, Ma quando un cane morto fa più notizia della morte di un palestinese, c’è qualcosa che non va.

Qui, forse, sta la chiave del cambiamento, le cui prospettive si stanno continuamente allontanando: finché le vite dei palestinesi saranno così svalutate dagli israeliani, che allo stesso tempo hanno giurato di proteggere la santità delle vite ebraiche, nessuna soluzione politica avrà seguito, anche se un giorno ci si dovrebbe arrivare.

Dati i principi che svalorizzano la vita, disumanizzano “l’altro” e giustificano ciecamente l’omicidio ignorando la sua vittimizzazione, non può esserci uguaglianza nella coscienza, senza la quale la pace non potrà mai arrivare.

In verità, questa è la cosa fondamentale: Sia loro che noi siamo esseri umani con pari diritti, ma quanto remota e irrealistica sembra oggi questa visione.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il Lipsia Freedom Prize nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio The Association of Human Rights in Israel per il 1996. Il suo nuovo libro, The Punishment of Gaza, è stato appena pubblicato da Verso.

Trad: Beniamino Rocchetto

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