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Coronavirus, quando finirà? La lezione (possibile) di un'oscura «influenza russa»

Chi dovesse chiedere alla scienza la certezza di un oracolo, si sbaglierebbe. Ma in queste ore, mentre le domande sul virus (e la sua fine) si accumulano, è bene capire le origini e il funzionamento dell’epidemiologia. E guardare a quello che potrebbe essere l’unico precedente di una pandemia da coronavirus: scoppiata 130 anni fa

di Sandro Modeo

Inutile girarci intorno. La domanda è una, pur ramificata in tante sotto-domande: quando Covid-19 uscirà davvero dai nostri corpi e dalle nostre menti — dal nostro paesaggio sociale? Quando sarà possibile (ri) programmare-progettare le nostre vite in scenari che non siano slogati in asincronie e asimmetrie esasperanti (tra nazioni o tra regioni; tra generazioni; tra categorie di ogni ordine e grado)? Quando potremo muoverci con un minimo di riacquista naturalezza, fuori dalla rete di coreografie goffe e incerte tratteggiate per noi dall’impatto del patogeno sulle spiagge, nei ristoranti, negli uffici, nelle scuole, sui campi da calcio, con rintocchi da Nuovo mondo huxleyano?

Com’è noto, la risposta univoca e liberatoria (una data, anche sommaria, che segni un dopo vero, non l’ennesima stazione di questo massacrante «non più-non ancora») non c’è. Ci sono «indicazioni», anche marcate, dovute a feedback più o meno positivi: l’afflosciarsi della curva per contagi e decessi (con alcuni attriti residui, Lombardia in primis) e la minor virulenza non tanto del patogeno (la questione è controversa) quanto della patologia, dovuta al lockdown, al decongestionamento ospedaliero, a (tardive) profilassi di molte RSA…

Ma queste «indicazioni» (che pure sono state sufficienti a sdoganare forme di riapertura auto-organizzata e auto-legittimata, vedi le varie movide) a molti non bastano. Troppe ombre si allungano ancora sul percorso e all’orizzonte: sul breve periodo (gli spettri di recidive e nuovi focolai, come in Corea del Sud) e soprattutto sul lungo: le eventuali nuove ondate nell’autunno-inverno di quest’anno, in stile simil-spagnola (quindi, in teoria, più aggressive); o, peggio ancora, il ripresentarsi di queste ondate su cicli pluriennali, fino al 2024, come indica uno studio-chiave uscito su Science. Fino alla prefigurazione (Washington Post del 27 maggio) che inquadra il Covid-19 in coabitazione con gli umani «per decadi», anche dopo l’eventuale messa a punto e diffusione di un vaccino. Il che — per inciso — non sarebbe necessariamente una «cattiva notizia», per echeggiare il famoso adagio del biologo-Nobel Peter Medawar, che definiva i virus «cattive notizie avvolte in una proteina». Il punto è che questi deficit previsionali non vengono visti come limiti intrinseci al set di scienze che cerca di contenerli, ma come colpe di quelle stesse scienze. O meglio, nello specifico, di quelle branche o discipline direttamente coinvolte in una pandemia: la virologia, colpevole di non saper decifrare con nitidezza cambiamenti di virulenza ovvero letalità del patogeno; l’immunologia, incapace di identificare la durata di immunità dei guariti e di produrre test sierologici efficaci; e — soprattutto — l’epidemiologia, la vera Cenerentola di questi mesi, l’oggetto prediletto dell’irrisione non solo popolar-populista, in quanto la «montagna» del suo apparato metodologico-operativo (la sovrabbondanza di imponenti e impotenti simulazioni algoritmiche) avrebbe prodotto il «topolino» di una profilassi a base di quarantene «medievali», distanziamento sociale, mascherina e lavaggio delle mani. È davvero così? O forse è il momento giusto — in questa dimensione limbica della pandemia — per andare a «vedere le carte» dell’epidemiologia (la sua storia ed evoluzione, la sua filosofia, i suoi stessi metodi)? Nella peggiore delle ipotesi, una simile verifica — su acquisizioni e fallimenti, punti di forza e debolezza — potrebbe portare alle stesse conclusioni del credo scettico, ma almeno con cognizione di causa. Nella migliore, a contemplare paesaggi nuovi o a vedere quelli consueti sotto una luce nuova, magari con qualche sorpresa proprio sulle possibili dinamiche di Covid-19 nei prossimi mesi e anni.

L’anno dei sentieri che si biforcano

Uno dei momenti decisivi nell’evolversi dell’epidemiologia è il 1906, quando i sentieri si biforcano come nel giardino del racconto di Borges. A svolta microbiologica appena avvenuta (con la riconduzione delle malattie infettive — grazie a scienziati come Pasteur, Koch, Lister — a specifici agenti patogeni), emergono due posizioni o visioni in parte contrapposte.

Da un lato, quella del medico inglese William Heaton Hamer del Royal College, che vede nelle epidemie uno «schema ciclico» (per esempio le ondate «ogni 18 mesi» del morbillo) ed è il primo a individuare nel numero di suscettibili (contagiabili) una «soglia» sopra o sotto la quale un episodio epidemico può esplodere o implodere. Non solo: nella sua ottica «puramente matematica», Hamer pensa che in una comunità la chiave sia il cosiddetto «principio dell’azione di massa», cioè la densità degli stessi suscettibili moltiplicata per quella degli infettivi; conta solo il loro potenziale contatto/contagio, con guariti e/o immuni sullo sfondo, come fattore non primario nel frenare la propagazione.

Dall’altro, abbiamo il medico scozzese John Brownlee (ospedale di Glasgow), che redige per la Royal Society di Edimburgo un impressionante regesto comparativo su oltre due secoli di patologie «locali» (dalla peste di Londra del 1665 — quella descritta da Defoe — alla scarlattina di Halifax del 1880). Anche lui studia le curve matematiche, adottando in più il metodo statistico del suo maestro Karl Pearson; ma — a differenza di Hamer— è convinto che quelle curve dipendano soprattutto dalle «condizioni del germe», da un «grado di infettività» che lo rende aggressivo in certe fasi (nel «period of energy» o «germinal vitality») e tenue o innocuo in altre, quando si affloscia come «un palloncino sgonfio».

Ora, è vero che il termine «infettività» è usato in molto ambiguo (si tratta della carica vitale? dell’efficienza di trasmissione? di un loro mix?) e che Brownlee esagera nel sostenere l’irrilevanza dell’interazione tra infettivi e suscettibili. Ma l’enfasi posta sull’agente patogeno ha il merito di ricordarci il legame tra la specificità molecolare dello stesso, la sua modalità di trasmissione e le relative implicazioni epidemiologiche e di trattamento «profilattico». È un legame che osserviamo bene nel caso del colera, a lungo combattuto — come nella pandemia all’inizio degli Anni ’30 dell’800 — con severe quarantene, ad esempio quella che abbiamo descritto nella ricostruzione del «caso svedese». Quarantene — a posteriori — totalmente inutili, dato che la geniale ricostruzione medico-investigativa di John Snow nella Londra del 1854 (che individua il fattore di contagio nelle acque fognarie contaminate da escrementi) e l’isolamento dell’agente patogeno da parte di Koch nel 1882 (il vibrione già osservato da Filippo Pacini nel ’53, l’anno prima della scoperta di Snow) ne dimostrano la non-trasmissibilità «da uomo a uomo».

Eppure, il sentiero «biologico» di Brownlee resterà interrotto (o nascosto in una foresta) per lungo tempo, tanto che dobbiamo metterlo in stand-by e ricordarcene più avanti. Quello prevalentemente «matematico» di Hamer, invece, si dilaterà nella via maestra dell’epidemiologia. Con un piccolo paradosso. Gli «antefatti» di quel sentiero sono altrove: gli studi statistici di Bernoulli sul rapporto costi-benefici nel vaccino del vaiolo (poco dopo metà ‘700); o la prima applicazione alle curve epidemiche delle «catene o distribuzioni binomiali» (le stesse che interpretano le serie di lanci di monete o le estrazioni del lotto) da parte del misconosciuto medico russo Petr Dimitrovich En’ko (1889). Ma il primo, lungo e decisivo tratto è scavato da scienziati /medici tutti scozzesi, proprio come Brownlee.

L’origine del «fattore R»

Scozzese è infatti il Nobel Ronald Ross, che attraverso i suoi studi rivoluzionari sulla malaria arriva a formulare intorno al 1916 una complessa «teoria degli eventi». Intendendo con «evento» ogni fenomeno in grado di tramettersi da individuo a individuo entro una popolazione, si tratti di pettegolezzi, panico o virus (così come Bernoulli applicava i suoi «calcoli del rischio», oltre che al vaccino del vaiolo, al moto dei fluidi o alle assicurazioni), Ross perfeziona con le sue equazioni differenziali il concetto di «soglia» di Hamer, ribaltando Brownlee e sostenendo che ogni epidemia (colera, influenza, peste…) flette la sua curva non per la «perdita d’infettività del patogeno», ma per la discesa del numero di suscettibili sotto un certo numero.

Scozzesi sono poi il medico William O. Kermack e il biochimico Anderson G. McKendrick: il primo dalla biografia più tormentata (un passaggio nella RAF e la cecità a 26 anni per un’esplosione in viso di soda caustica, che lo costringerà a farsi leggere i testi dagli studenti), il secondo dall’iter più regolare (capo di Kermack al Royal College di Edimburgo, lo stesso di Brownlee). In uno studio-spartiacque del 1927, i due porteranno a un perfezionamento definitivo sia il concetto di «densità di soglia» (il minimum numerico di innesco epidemico in una comunità) sia la dinamica d’implosione, dimostrando come un’epidemia possa finire anche mantenendo un numero di suscettibili, nel momento in cui «scatta un certo meccanismo nel delicato gioco tra infezioni, morti e guarigioni (con immunizzazione)». Nel cercare di decifrare quel meccanismo, formulano il famoso modello-SIR (Suscettibili – Infettivi- guariti o Recovered) e paragonano più in generale un’epidemia a un incendio potenziale, con le equazioni che cercano di leggere la curva come un fuoco che possa «accendersi, restare acceso e alla fine spegnersi». E con un corollario non da poco: quello per cui «piccoli incrementi del tasso di infezione possono causare gravi epidemie»: il primo richiamo, di fatto, su «focolai» da spegnere sul nascere e sulla necessità delle «zone rosse».

Scozzese, infine, è il malariologo George MacDonald del Ross Institute, che nel 1934-35 si trova a Ceylon per affrontare un’atipica esplosione di malaria (un terzo della popolazione contagiata e 80.000 morti): atipica perché la patologia — di casa nell’isola — si è sempre manifestata in piccoli focolai periodici, soprattutto nei bambini, immunologicamente più esposti. Vent’anni dopo, rientrato a Londra, MacDonald cercherà di risolvere l’enigma incrociando decine di variabili sugli umani e sui vettori (le zanzare) per scovare quei minimi, ma decisivi cambiamenti «nei fattori fondamentali di trasmissione»; ovvero quei «piccoli eventi dalle grandi conseguenze» rimarcati da Kermack-McKendrick. Riuscirà a trovarli: un aumento di densità di Anopheles cinque volte il normale (conseguenza di una lunga siccità) e la loro accresciuta longevità, che permette di pungere-infettarsi-ripungere. Ma, soprattutto, sarà proprio quello studio a fargli trovare il parametro-chiave delle sue ricerche: il «numero riproduttivo di base» ovvero il numero di infezioni che coinvolgono una comunità come conseguenza della presenza di un singolo caso primario non immune». Si tratta dell’ormai arcinoto R (dove R sta per reprodution rate, tasso di riproduzione, da non confondere con l’R del SIR, recovered=guarito), scandito dalla sua algebra tirannica (qui raccontata da Paolo Giordano): se è < a 1,0, l’epidemia si insabbia; se è di poco >, si espande; se è di molto >, esplode.

Con MacDonald, l’epidemiologia si avvicina al suo Graal matematico; per arrivarci, la leadership della disciplina dovrà passare dalla Scozia all’Australia.

Il serpente nell’erba matematica

Poco più di un mese fa, il 28 aprile, è scomparso a 84 anni — dopo una lunga convivenza con l’Alzheimer — Robert May. È un altro paradosso: May esce di scena in un sostanziale silenzio mediatico proprio nel momento in cui il pianeta sta lottando contra la prima pandemia del millennio anche — se non soprattutto — grazie a certe sue intuizioni/acquisizioni.

Origini nordirlandesi da parte di padre e scozzesi (manco a dirlo) da parte di madre, May è australiano come due altre figure-chiave nello studio dei patogeni: Frank Mcfarlane Burnet (Nobel per gli studi sulla selezione clonale con cui i linfociti rispondono agli «invasori») e Frank Fenner, virologo autore di un capitale studio sulla mixomatosi, che troveremo più avanti. Figlio di un brillante penalista, May si laurea in fisica teorica a Sydney per poi studiare matematica applicata a Harvard, disciplina che approfondisce (dal ’71) a Princeton, dove comincia a dialogare con biologi e ecologi sulla dinamica delle popolazioni, in particolare col geniale Robert MacArthur, che morirà prematuramente lasciando proprio a May la cattedra di zoologia. In quel contesto, May torna a una (alla) sua antica ossessione, già «scolpita» sul retro di una lavagna in un corridoio di Sydney come «problema per gli studenti»: «che cosa cavolo succede quando lambda diventa maggiore del punto di accumulazione?». Traduzione: cosa succede quado il tasso di incremento di una popolazione, poniamo di pesci — la sua tendenza ad aumentare e poi a esplodere — supera un certo punto critico?

May nota infatti che al variare del parametro di crescita, il «sistema» muta (si deforma) in modo inspiegabile. A parametro basso, lo stato è stazionario: alzandolo, comincia a oscillare tra due e poi quattro valori; alzandolo ancora, diventa imprevedibile e caotico, introducendo «un’inattesa irregolarità». Perché quel caos da una semplicissima equazione deterministica, la cosiddetta «equazione logistica delle differenze finite»? Trasferendo il problema su un grafico — secondo il suggerimento di Edward Lorenz, lo scopritore dell’«effetto farfalla» e uno dei padri della «teoria del caos» — May si imbatte in una sorpresa ulteriore: oltre il «punto di accumulazione» — quando la periodicità cede al caos — si aprono comunque delle «finestre di regolarità», «cicli stabili» , col modello di variazione della popolazione che si ripete per lo più in periodi dispari (tipo ogni 3 o 7 anni). È quello che May chiamerà «il serpente nell’erba matematica», dove l’erba sta a indicare il «rumore» entro cui si isola una figura riconoscibile. Tutti quegli studi torneranno utili quando May incontrerà nel 1975 a York — durante un convegno sulla «stabilità ecologica» — Roy M. Anderson, allora responsabile di «epidemiologia delle malattie infettive» all’Imperial College di Londra (passerà poi a Oxford). È un fortunato crossing over: May — fisico-matematico con la passione biologico-ecologica — si imbatte in un parassitologo con vocazione matematica: tanto che i due — da lì in poi inseparabili per un ventennio — porteranno l’epidemiologia all’ultimo «salto», con decine di contributi che andranno a confluire nel monumentale Infectious Diseases of Humansdel 1991.

Le tante novità introdotte da Anderson-May sono riconducibili a due, decisive. In tutti i modelli epidemiologici che abbiamo visto (Hamer 1906; Ross 1916; Kermack-McKendrick 1927; MacDonald 1956) la popolazione-ospite è ritenuta stabile, costante: se si diffonde un’epidemia di morbillo in una città di 200.000 abitanti, l’evolversi dello schema SIR (suscettibili, infettivi, guariti) non muterà quel numero, con un’ipotetica compensazione, per esempio tra morti e nascite. In Anderson-May, quel numero diventa invece una «variabile dinamica»: nel corso di un’epidemia troppi fattori lo alterano: le vittime stesse; una possibile riduzione della natalità; le emergenze sanitarie (gli «ospedali sovraffollati», proprio come con Covid- 19), e molto altro. Tra quei fattori di alterazione — chiave nella chiave — viene considerata per la prima volta anche la «coevoluzione» tra ospite e parassita, base per le prime 2 variabili (su 5) del loro modello finale: il «tasso di trasmissione» del patogeno e «il tempo di recupero degli ospiti che non soccombono all’infezione». Intrecciandosi alle altre 3 (mortalità legata allo specifico del patogeno, mortalità legata ad altre cause, consistenza — cangiante— della popolazione ospite) vanno a comporre il citato Graal epidemiologico, la cui sintesi matematica e simbolica è l’aggiornamento del «numero riproduttivo di base» di Mac Donald mutato da R in R0, ormai noto come una rockstar.

Ma la metafora del Graal, perfetta per la mistica, è evanescente nella scienza, in cui ogni teoria è falsificabile, o almeno passibile di revisioni e/o integrazioni.

La collina dei conigli

Una delle acquisizioni più notevoli nella visione di Anderson-May è la smentita della «sciocchezza» secondo cui «un parassita si evolve fino a diventare innocuo per il suo ospite».

Per consolidarla, i due mostrano la perfetta aderenza del loro modello epidemiologico alla «smentita delle smentite» sul campo, il caso straziante del mixomavirus nei conigli, oggetto di uno studio ormai classico del citato virologo Frank Fenner.

In breve: nel 1859 (anno di uscita dell’Origine delle specie di Darwin) il proprietario terriero australiano Thomas Austin importa nella sua immane tenuta 24 conigli selvatici europei, che in un contesto ecologico favorevole si moltiplicano all’impazzata in tutto il continente, arrivando in meno di un secolo — nonostante il «contrappeso» della caccia — a ben 600 milioni di esemplari, via via più nocivi nel loro competere (per erba e acqua) coi conigli locali e il bestiame. Il governo autorizza allora l’importazione dal Brasile di un poxvirus, il mixoma, che nei conigli sudamericani produce solo piccole ulcere, ma che impatta su quelli europei/australiani — cioè su un’altra specie e in un altro contesto ecologico — con una letalità iniziale del 99,6%, producendo ulcere estese e la morte in 2 settimane.

Seguendo per 30 anni (1950-1980) l’evolversi del virus e della malattia, Fenner scopre come nel tempo si diversifichino numerosi ceppi, raggruppati in 5 principali, e come la selezione naturale estingua o quasi l’I e il II (più aggressivi) e il IV e il V (più innocui), favorendo (in ben due terzi dei casi) il III, ovvero un ceppo sempre ad alta letalità (67%), ma più efficiente degli altri nel rapporto letalità-trasmissibilità. E cioè: dato che il mixoma è un virus vettoriale (con la zanzara che lo preleva dalle ulcere), il ceppo più efficiente è quello che produce nei conigli lesioni abbastanza estese e abbastanza durature da consentire il prelievo più consistente per il maggior tempo possibile. I ceppi I e II uccidono troppo in fretta; il IV e il V fanno guarire troppo in fretta le lesioni; «solo i virus del ceppo III» — scrive Fenner — «rimanevano altamente infetti per tutto il periodo di sopravvivenza negli animali desinati a morire e per un tempo più lungo della media in quelli destinati a guarire»:

Prima morale: nella competizione tra ceppi virali viene sempre selezionato quello col livello di virulenza che massimizza la trasmissione (e quindi la riproduzione). Che quel livello risulti — per noi — più o meno aggressivo o letale è irrilevante nella neutralità del processo evolutivo.

Seconda morale — riassunta da Quammen in Spillover —: la regola aurea per un virus di successo non è quindi «non uccidere il tuo ospite», ma «non tagliare i ponti prima di averli attraversati». A cui va aggiunta una postilla non trascurabile.

Come non c’è un’evoluzione verso la «benignità», non c’è — tra virus e umani— nemmeno l’approdo a forme di simbiosi o mutualismo (come succede invece con i batteri, vedi quelli della nostra flora intestinale). I virologi parlano, semmai, di «armistizio», legato a diversi fattori, tra cui i mutamenti contestuali (ecologici) o la durata dell’immunità.

Anticipata in uno studio pionieristico dallo zoologo Gordon Ball (nel lontano ’43), la smentita di quell’assunto è uno dei tratti-chiave anche di un libro-spartiacque del biologo evoluzionista americano Paul Ewald, Evolution of Infectious Disease (Oxford, 1994). È un testo che ha il merito di provare a integrare nell’epidemiologia il pensiero evoluzionistico e quegli aspetti «qualitativi» delle scienze biologiche (genetica e ora genomica, immunologia, zoologia) trattati per lungo tempo come semplici variabili matematico-statistiche, prettamente quantitative.

Da Bernoulli a Ross e persino alle «teorie del caos» che hanno ispirato il lavoro di May, le «curve epidemiologiche» sono state indagate attraverso quella che si definisce in gergo «indifferenza al substrato», cioè a prescindere dalla materia (organica o no), dalle proprietà e dalle dinamiche degli oggetti in questione: cicli economici o tornadi, dicerie o — appunto — sciami virali. Invece i virus andrebbero indagati — anche sul piano epidemiologico — non solo nella loro specificità rispetto ad altri oggetti, ma anche rispetto ad altri patogeni (funghi o batteri) e nella loro unicità molecolare (genetico-genomica, di tipologia di trasmissione, di relazione col sistema immunitario dell’ospite, e così via) a livello di specie e di ceppi, che ne determinano il «comportamento» al punto da indirizzare le valutazioni predittive e le relative profilassi. Come abbiamo già visto per le «inutili» quarantene applicate a un virus non trasmissibile da uomo a uomo come il colera. È il riaffiorare dalla foresta del sentiero «biologico» avviato — pur nella sua ingenuità — da più di un secolo fa da John Brownlee. Un sentiero che in tutte le sue branche (virologia, immunologia, zoologia, genetica-genomica) va ormai definitivamente ricongiungendosi a quello matematico-statistico, che pure sta acquisendo (si legga L’algoritmo e l’oracolo di Alessandro Vespignani e Rosita Rijtano) straordinari strumenti di calcolo-computazione, e ulteriori ne acquisirà coi computer quantistici.

Sentieri che (ri)convergono: Covid 19 dalla «spagnola» alla «russa»

Tutti vorremmo sapere.

Se davvero il patogeno stia esaurendo la sua spinta, secondo l’ingenuo dettato di Brownlee (che qualche clinico o virologo sembra — troppo disinvoltamente — assecondare); se almeno — in coerenza coi passaggi appena svolti — la selezione stia favorendo ceppi più funzionali alla trasmissione ma meno virulenti (argomento, al momento, a dir poco controverso); se infine — come si accennava in apertura —, simili mutazioni caratterizzeranno eventuali nuove «ondate» autunnali- invernali o negli anni a venire.

Alla ricercata disperata di «invarianze» epidemiologiche, fino adesso è stata evocata soprattutto la «spagnola», con esiti sfocati e frustranti per vari motivi, a partire dallo iato che separa un ortomyxovirus influenzale (H1N1) da un betacoronavirus come Sars-CoV-2.

Non a caso il citato studio di Science (14 aprile; revisione 22 maggio) svolge la sua proiezione sull’andamento di Sars-CoV-2 prendendo come modelli — per maggiore prossimità molecolare — proprio due betacorovirus umani «del raffreddore»: HCoV-HKU1 e — soprattutto —HCoV-OC 43. Quel «soprattutto» è legato a un suo possibile risvolto virologico-evoluzionistico poco noto, che potrebbe rivelarsi di un certo peso.

A rigore, non sono infatti conosciuti precedenti pandemici di coronavirus: gli unici ad aver solo «abbozzato» un outbreak in quella direzione (subito troncato) sono stati, com’è noto, Sars-CoV (2003-04: il virus «della Sars») e Mers-CoV (2012). Eppure, nel 2005 — nel corso del suo PhD sui coronavirus, uno dei tanti sull’onda dei sequenziamenti genici di Sars-CoV — la biologa belga Leen Vijgen studia coi colleghi proprio il virus umano di OC43, scoprendone le similarità con quello bovino (BCoV); e risalendo lungo l’albero comune — attraverso i calcoli dei tassi di mutazione che diano conto delle divergenze genetiche — trova il loro primo «antenato comune» intorno al 1890, anno del probabile spillover («salto di specie») dalla mucca all’uomo.

Si dà il caso — ecco il punto — che il 1890 (in realtà l’’89) sia l’anno d’esordio di una pandemia durata fino al ’95 e denominata «influenza russa» in quanto a lungo ricondotta a sottotipi di influenza A (H2N2 o H3N8), ma senza mai trovare conferme definitive; e che diversi studiosi riconducono invece ora proprio a HCoV-OC43, eleggendola a prima pandemia da coronavirus.

Anche qui — sia chiaro — siamo ancora nella teoria (manca la «pistola fumante»). Eppure, fatte salve le specificità geo-dinamiche (l’innesco a Bukhara nel maggio ’89 e l’approdo a San Pietroburgo tra ottobre e novembre prima di irradiarsi in Europa e in America) e quelle «storico-vettoriali» (il contagio attraverso la neonata rete ferroviaria), la diversa distribuzione dei decessi (tra 270 e 360.000 del milione complessivo in Europa, a fronte dei 13.000 in Usa), numerose — e a vari livelli — sono le analogie con Covid-19: la cadenza delle ondate (con 5 settimane tra il paziente 1 e il picco); il politropismo virale che coinvolge anche il sistema nervoso, con perdita di gusto e olfatto; la prevalenza, alla lunga, di vittime anziane, specie per complicanze cardiovascolari-renali (a differenza della «spagnola», che colpirà — specie nella seconda ondata — giovani maschi tra 18 e i 30 anni); la pressione sanitaria nelle fasi di picco (vedi, trai tanti esempi nelle capitali europee del tempo, le «baracche» nei cortili degli ospedali francesi). E non dissimile, a ben guardare (anche se condiviso con molte altre epidemie) è il passaggio zoonotico, coi pipistrelli dello Yunnan sostituiti dal bestiame afflitto da pleuropolmoniti in tutto il mondo, e i molti abbattimenti — tra 1870 e 1890 — che espongono allevatori e contadini al contatto con le secrezioni respiratorie.

Se la speculazione fosse esatta, se ne potrebbe cavare una proiezione virologico-epidemiologica favorevole, dato che HCoV-OC43 è oggi (o meglio: al momento) un «banale» virus del raffreddore (con le virgolette a indicare come anche in quella veste rappresenti, per anziani e immunodepressi, comunque una complicanza); nel senso che anche Sars-CoV- 2 — oltre a potersi inabissare come Sars-CoV — potrebbe evolvere, cioè mutare, in quella direzione (come potrebbe diventare, beninteso, più aggressivo).

Nella cornice di queste possibilità, lo studio di Science (esempio tangibile dell’attuale complessità e finezza epidemiologica nell’intrecciare modelli matematico-statistici post-Anderson-May — ne esistono a decine —, scienze biologiche e scienze umane, utili a capire i comportamenti sociali e le loro conseguenze) può dare diverse indicazioni.

In generale, sulla ciclicità: modulandola soprattutto proprio su HCoV-OC43, disegna possibili recidive fino al 2025, con cadenza non dissimile, guarda caso, a quella dell’influenza (che pure Science non cita, limitandosi a trattare OC43 come virus «da raffreddore»). Nel particolare — per cercare di avvicinane durata e intensità — affina un quadro con cui abbiamo familiarizzato.

Dando per acquisite asincronie geografiche (estati e inverni nei vari emisferi) e incidenze climatiche (i possibili picchi negli autunni-inverni), individua le variabili principali sul piano dell’immunità, da valutare (con test sierologici affidabili) sia per estensione nella popolazione che per durata individuale: fattori ambivalenti, in quanto determinanti per diradare-perimetrare i lockdown, ma — se troppo accentuati — a rischio di compromettere la messa a punto del vaccino e quindi la prevenzione di recidive annuali (come per l’influenza): senza dimenticare possibili immunità incrociate (immunità a altri coronavirus «del raffreddore», proprio come OC43 che la estendano a Sars-CoV-2) o la sovrapposizione di eventuali recidive di Covid-19 con l’influenza stagionale.

Altre variabili sono date dal tracciamento, informatico e/o manuale (integrato eventualmente dai tamponi): anche questo un fattore-chiave nel poter diradare- allentare i lockdown, ma la cui scarsa estensione o inefficienza obbliga alla strategia alternativa di potenziare o almeno monitorare i reparti di terapia intensiva, al fine di prevenire i sovraccarichi già visti.

L’algoritmo e l’oracolo

Quello appena scorso è un quadro previsionale — non bisogna dimenticarlo — che sconta due condizionamenti di fondo: il fatto che l’indagine epidemiologica sui coronavirus non abbia precedenti nella metrica degli «intervalli seriali» (che non esistano cicli indicativi come invece per l’influenza, tranne — eventualmente — la pandemia «russa» riconducibile a HCoV-OC43); e la dipendenza di ogni proiezione epidemiologica dai feedback resi via via dall’evolvere dell’epidemia-pandemia: un continuo aggiornamento-ridisegnamento (beninteso non esente da errori; vedi i calcoli di Neil Ferguson dell’Imperial College) scambiato da parte dell’opinione pubblica per incertezza o contraddittorietà, e magari accostata alle «dissonanze cognitive» prodotte dal narcisismo incrociato di certi virologi o infettivologi.

E qui veniamo al nodo decisivo. Quella stessa parte di opinione pubblica — accentuando per l’epidemiologia il pregiudizio e la sbrigatività nutriti per la scienza in genere — dà per scontato (o ridimensiona come «scoperta dell’acqua calda») acquisizioni e procedure che scontate non sono per nulla, lamentando invece (con un mix di fastidio e sarcasmo) l’assenza di certezze e soluzioni sui tanti «fronti aperti» di un oggetto o un processo indagato (in una pandemia, ma non solo).

Prendiamo le «banalità profilattiche» della Fase-1 di cui si diceva in apertura («il topolino» prodotto dalla montagna degli algoritmi epidemiologici). È vero, la quarantena è una pratica «medievale» (nasce a Dubrovnik nel 1377, nella coda della Morte Nera veneziana); ma ora sappiamo quando applicarla e quando no (vedi, di nuovo, il colera) e in che termini di durata e estensione in rapporto all’evolversi di un’epidemia. Lo stesso vale per la «distanza di sicurezza»: ce n’è traccia intuitiva già nell’Antico testamento (Levitico), come antidoto alla lebbra; ma è solo nel 1930 che un giovane ricercatore di Harvard, William Wells, stabilisce in «sei piedi» la distanza anti-contagio per i droplet di tbc; e se in questi mesi aggiornamenti continui l’hanno modulata su Covid-19 (secondo le informazioni che arrivavano su modalità di contagio e carica virale) è stato per aumentare la nostra sicurezza. Persino una protezione «elementare» come la mascherina (riconducibile alle grevi strutture a becco dei «medici della peste» secenteschi) appare nella sua modernità per forma e materiali solo nel 1897 (sul volto del chirurgo francese Paul Berger), per estendersi a uso anti-contagio nel 1911 durante la peste polmonare cinese (nel design di Wu Lien-teh del Chinese Imperial College, poi adottato durante la spagnola). Quanto al lavaggio delle mani, anche i meno avvertiti dovrebbero conoscere la storia sublime e tragica di Ignác Semmelweiss, medico ungherese che — pur tra osteggiamenti «baronali» che lo porteranno al manicomio — riesce a far adottare quella profilassi a medici e studenti di ostetricia, salvando migliaia di vite dalla febbre puerperale. Non a caso, Cèline gli dedicherà la tesi di laurea.

E a cornice di tutto questo, tutt’altro che «scontata» è anche la scelta pro o anti-quarantenista, che in altro articolo abbiamo ricondotto anche all’identità politico-economica e storico-antropologica di ogni Paese. Non era scontato, cioè — davanti alla «coperta corta» del dilemma «health or wealth», salute o economia — «chiudere» o tentare vie più arrischiate come quella della Svezia. Può darsi che il lockdown italiano (del Paese — non scordiamolo – che ha fatto da avamposto occidentale alla pandemia) sia stato eccessivo e «tirannico». Ma nel dubbio, sarà forse utile rileggersi una «microstoria» esemplare della spagnola in America: la chiusura di Saint Louis — sotto la guida di un medico geniale e avveduto come Max C. Starkloff — versus l’«apertura totale» di Philadelphia. Perché è vero che — oltre a subire minori danni economici — alla seconda ondata Philadelphia avrà un po’ di morti meno della città del Missouri (dovuti a una sorta di immunità di gregge); ma l’ecatombe della prima — a fronte del numero basso di decessi dovuti alla strategia di Starkloff — chiuderà il saldo delle vite risparmiate nettamente a favore di Saint Louis.

Ogni critica alla scienza, ai suoi errori, alle sue ambiguità, ai suoi deficit di chiarezza — è persino umiliante ricordarlo — non è solo auspicabile, ma necessaria, specie in una democrazia non vuotamente formale. Ma perché quella critica sia tale occorre un’opinione pubblica informata, all’altezza del compito. Chi invece sbeffeggia gli algoritmi pretendendo ciò che non possono offrire (l’infallibilità dell’oracolo) è meglio guardi altrove; dalla scienza non potrà trovare risposte che lo soddisfino. Non è necessario scomodare Dio; basterà rivolgersi a un Pappalardo qualsiasi.

Fonti

Oltre al fedele compagno di questi mesi — David Quammen, Spillover, Adelphi, 2014-2017 qua e là integrato e corretto — questo articolo ha utilizzato i seguenti testi:
James Gleick, Caos, Rizzoli (ultima edizione BUR, 2018); Alberto Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Bollati Boringhieri, 1999, ultima edizione 2008; Alessandro Vespignani, Rosita Rijtano, L’algoritmo e l’oracolo, Il Saggiatore, 2019; Paul Ewald, Evolution of Infectious Disease, Oxford, 1994; Fred Brauer, Carlos Castillo-Chavez, Zhilan Feng, Mathematical Models in Epidemiology, Springer, 2019.
Il modello previsionale sui prossimi mesi e anni di COVID-19 (Stephen M. Kissler e altri) è uscito su Science il 14 aprile 2020 (versione riveduta il 22 maggio).
Il contributo di Leen Vijgen (e altri) sul coronavirus HCoV-OC43 come possibile agente patogeno dell’«influenza russa» del 1890-95 è uscito sul Journal of Virology del febbraio 2005. Sullo stesso argomento si può leggere l’articolo del fisico-divulgatore Mark Buchanan, The Print, 15 maggio 2020.

Sorgente: corriere.it

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