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All’interno di Israele cresce il dissenso sul progetto di annessione di parti della Cisgiordania: dalla sentenza della Corte suprema sulla incostituzionalità di una legge sulle colonie alle critiche della sinistra israeliana che parla di rischio di «regime di apartheid»

Alla vigilia del percorso legale per l’annessione di parti della Cisgiordania a Israele fissato al 1° luglio, e sostenuta dall’“affare del secolo” di Trump (sulla Valle del Giordano v. Chiara Cruciati su Left del 5 giugno), la contemporaneità, casuale, tra proclami di annessione, l’assassinio da parte della polizia negli Stati Uniti di un nero, George Floyd, e quello di un giovane palestinese disabile, Eyad al Hallaq a Gerusalemme, per mano della polizia israeliana (v. Roberto Prinzi su Left del 12 giugno), è stata l’occasione che sembra aver rimesso in movimento anche il panorama sociale e politico israeliano.

Una prova è la grande manifestazione, a Tel Aviv, con cartelli raffiguranti le due vittime della violenza razzista, e slogans mai sentiti in piazza Rabin, come Palestinian lives matter e bandiere palestinesi al vento, tanto da far dire alla destra che Rabin se ne sarebbe vergognato. Anche se buona parte di quella piazza era costituita da palestinesi di Israele, la presenza israeliana era significativa.

Poi è successo che la Corte suprema di Israele, ha sentenziato la cancellazione della legge del 2017 sulla legalizzazione di insediamenti israeliani in quanto, ha dichiarato il giudice che la presiede, Esther Hayut, «viola in modo ineguale i diritti di proprietà dei residenti palestinesi, privilegiando gli interessi proprietari dei coloni israeliani»(Rami Ayyub, Reuters, 9 giugno).

Si tratta di una decisione con valore simbolico, data l’esiguità del numero di coloni interessati (4mila su circa 600mila). Ma i simboli parlano: in questo caso mostrano la preoccupazione israeliana, forse dovuta anche alle dichiarazioni di vari Stati contrarie all’annessione. La più recente quella della Germania, alleata di ferro di Israele, durante il recente incontro del suo ministro degli esteri con l’omologo israeliano. Solo chiacchiere, come scrive l’israeliano Gideon Levy, e come sostengono molti tra i palestinesi? Su Electronicintifada (7 giugno), notiziario indipendente online sulla Palestina diretto da Ali Abunimah, Omar Karmi scrive «… molti Paesi, politici e attori internazionali hanno protestato formalmente. La Gran Bretagna “non sosterrà” l’annessione, e Francia, Belgio, Lussemburgo e Irlanda hanno preso in considerazione come risposta provvedimenti economici punitivi. Joe Biden, presumibile candidato del partito Democratico alla presidenza Usa, intende far pressioni su Israele affinché non adotti alcuna misura «che renda la soluzione a due stati impossibile».

La Giordania ha protestato a gran voce e anche i Paesi del Golfo hanno lanciato l’allarme. Secondo il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash, l’annessione rappresenterebbe «un grave passo indietro per il processo di pace». L’Arabia Saudita ha fatto dichiarazioni simili. Il coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha esortato Israele ad «abbandonare le minacce di annessione», che, ha avvertito, se andassero in porto rappresenterebbero una grave violazione del diritto internazionale. La Cina si è dichiarata «profondamente preoccupata», la Russia ha espresso molte obiezioni, e persino il Vaticano ha lanciato un monito contro l’annessione. In Italia 70 parlamentari Pd e 5 stelle hanno scritto al presidente del Consiglio chiedendo di condannare l’annessione e di agire concretamente per evitarla. Ma è noto che Paesi alleati di Israele come l’Ungheria e la Repubblica Ceca potrebbero anche bloccare le discussioni preparatorie sulle sanzioni, risparmiando alla Germania – che afferma di sostenere il diritto internazionale – qualsiasi imbarazzo.

I palestinesi se la dovranno cavare da soli? O forse una mano può venire dall’interno di Israele? La sinistra israeliana, ridotta ai minimi termini – nelle ultime elezioni Meretz e Labor hanno messo insieme solo 7 seggi – sembra muoversi. Non si tratta solo della manifestazione a Tel Aviv. Stando a quanto riferisce l’israeliano Meron Rapoport (+ 972 magazine, 9 giugno) al posto della vecchia sinistra sionista, una nuova sinistra sta crescendo, più vicina ai politici palestinesi come Ayman Odeh, Aida Touma-Sliman, Mtanes Shehadeh e Heba Yazbak, di quanto non lo siano figure come Rachel Azaria, Amit Segal e Benny Gantz. Del resto la Joint List ha ottenuto con le ultime elezioni ben 15 seggi, e il suo capolista Ayman Odeh, per la prima volta, si è esplicitamente rivolto agli ebrei nella campagna elettorale.

Da Ramallah, sede dell’Autorità Palestinese, sono arrivati diversi pronunciamenti, sia dal presidente dell’AP Mahmoud Abbas, che ha dichiarato ufficialmente la fine degli Accordi di Oslo, che da altri autorevoli dirigenti. Il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat, seguendo un appello di numerose associazioni palestinesi, ha chiesto sanzioni per Israele: «La comunità internazionale può fermare l’annessione, ma solo se applica quelle stesse misure concrete che ha sempre rifiutato di adottare. La fine dell’annessione inizia con l’imposizione di sanzioni nei confronti di un Paese che non ha mai rispettato i suoi obblighi fondamentali in base alle risoluzioni delle Nazioni Unite, agli accordi firmati e ai trattati internazionali» (Haaretz, 5 giugno). Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha dichiarato che verrà proclamato lo Stato Palestinese sui confini pre-guerra del 1967: «Ne chiederemo il riconoscimento internazionale: che il mondo – ha detto – scelga allora tra il diritto internazionale e l’annessione» (Ansamed, 10 giugno).

Anche queste prese di posizione, oltre alla protesta di piazza Rabin, sollecitano qualche novità, come il fatto che la sinistra ebrea israeliana stia abbandonando il termine “occupazione” per descrivere la realtà in Israele -Palestina, e adottando quello di “apartheid”: termine fino ad oggi considerato irrealistico e impronunciabile. Eppure, gli oratori di sabato sera, inclusi Nitzan Horowitz, deputato e capo del Meretz, e Tamar Zandberg, lo hanno usato. Solo la laburista Merav Michaeli non lo ha fatto (il che non meraviglia dato che, vergognosamente, il Labor è entrato nel Governo “dell’annessione”).

Si può dire, come ha rilevato la dirigente palestinese Hanan Ashrawi, che in realtà l’annessione è già de facto avvenuta dal 1967 e che l’annessione proclamata da Netanyahu è de jure. Vero, e tuttavia questo passaggio non preoccupa solo i palestinesi, per le sue conseguenze, anche materiali. La società e la politica israeliana ne sono coinvolte. Infatti, sarebbe impossibile per Israele continuare ad essere considerato uno Stato democratico. Uno Stato in cui i cittadini/e hanno una diversa condizione giuridica – Netanyahu ha già dichiarato infatti che chi risiede nelle aree annesse, non avrà la cittadinanza israeliana – risulta agli occhi del mondo uno Stato di apartheid, anche formalmente.

Nel momento in cui il regime israeliano diventa un regime di apartheid, la fine di quel regime esige un cambiamento sostanziale della sua stessa struttura. Ciò va oltre il ritiro delle truppe israeliane e l’evacuazione degli insediamenti dalla Cisgiordania, sostenuti per anni dalla sinistra sionista.
L’apartheid può essere eliminato solo realizzando l’uguaglianza dei diritti, quindi la fine della supremazia di un gruppo sugli altri. Nel caso di Israele, la fine della supremazia ebraica. È un’opzione che non è mai stata presa in considerazione, ma è il momento di farci i conti. «L’apartheid, d’altra parte, è una chiara ingiustizia morale, anche ai sensi del diritto internazionale, che lo considera un crimine contro l’umanità. Nel momento in cui Israele è considerato un regime di apartheid, non c’è altra scelta morale se non quella di combatterlo», ha affermato Meron Rapoport.
La società israeliana è pronta a questo?

Libertà e giustizia per la Palestina. Sabato 27 giugno (ore 16) a Roma, Piazza del Campidoglio si terrà la manifestazione promossa dalla Comunità palestinese a Roma e nel Lazio contro l’annessione israeliana illegale dei territori palestinesi e per il riconoscimento dello Stato di Palestina

Sorgente: Annessione della Valle del Giordano, (quasi) tutti contro Netanyahu | Left

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