La corsa dei giganti feriti | Rep
Stati Uniti e Cina sono i protagonisti della nuova guerra fredda: la lotta per aggiudicarsi il primato della ripartenzadi PAOLO GARIMBERTI
Lo scontro di inusitata violenza diplomatica, che si è svolto all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità, è stato la plateale conferma che la nuova guerra fredda ha come attori protagonisti gli Stati Uniti e la Cina. La Russia, ormai, è un comprimario.
Tanto è vero che in un opuscolo di 57 pagine, che indica agli attivisti del partito repubblicano le linee guida della campagna per le elezioni presidenziali di novembre, il focus internazionale è sulla Cina, il “Chinese virus” o il “Wuhan lab”. E l’accusa ai democratici è la debolezza verso la Cina. Trump ha già tacciato Joe Biden di essere soft, morbido, con la Cina. E Biden ha replicato che Trump, fino a poco tempo fa, “scodinzolava” per Xi Jinping. Biden non ha tutti i torti. Secondo un articolo di Susan Rice pubblicato dal New York Times, tra gennaio e febbraio il presidente Usa ha lodato per 15 volte la gestione del coronavirus da parte di Xi (per poi cambiare radicalmente tono) e prima aveva dichiarato che il suo «rispetto e amicizia» per il presidente cinese erano «illimitati».
La pandemia sembra aver aperto gli occhi a Trump. La vera minaccia alla supremazia americana nel mondo viene dalla Cina. La Russia ha ancora la forza militare e l’abilità nello spionaggio. Ma arsenali e spie sono strumenti della vecchia guerra fredda. Oggi ne servono altri, forza economica e sofisticazione tecnologica, che la Russia non ha e la Cina invece sì.
Un grande maestro della Realpolitik, Henry Kissinger, lo ha capito da tempo. Anche perché nel 1972 era stato lui a suggerire a Richard Nixon di usare la Cina come specchietto per le allodole per ammorbidire i sovietici. Nixon doveva andare a Mosca a maggio per la prima visita di un presidente americano in Urss. Ma Kissinger lo convinse ad andare prima a Pechino (aveva preparato la visita in gran segreto un anno prima con un capolavoro diplomatico). I sovietici furono annichiliti dalla sorpresa e dalla rabbia e a maggio, quando Nixon si recò a Mosca, Breznev fu convinto da Kissinger a firmare il primo trattato per la limitazione delle armi strategiche.
Ma allora, appunto, la Cina era solo un comprimario sulla scena mondiale: non aveva né potenza militare, né forza economica, né penetrazione internazionale. Le superpotenze erano le altre due e si spartivano le sfere di influenza nel mondo. Ancora nel 1990 l’economia cinese era il 40 per cento di quella sovietica. Oggi è otto volte quella russa. Pechino spende 38 miliardi di dollari l’anno per aiuti all’estero: nessun altro Paese al mondo investe altrettanto. La “Belt and Road Initiative”, la nuova Via della seta che piace tanto ad alcuni nostri politici, vale dieci volte il Piano Marshall. La Cina destina ogni anno 10 miliardi di dollari in propaganda, ha creato 525 Confucius Institute e l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha 180 uffici sparsi in cinque continenti, mentre la televisione di Stato di Pechino ha aperto in Inghilterra un quartier generale megagalattico per le sue edizioni internazionali.
Una macchina propagandistica che consente alla Cina di combinare soft power (il potere di persuasione) con lo sharp power (il potere di incisione con una miscela di fake news e attacchi cibernetici) scalzando la Russia nel ruolo di influencer sulla scena internazionale. Vladimir Putin lo ha indirettamente riconosciuto quando ha invitato Xi a Mosca, nel giugno dello scorso anno, per una pomposa visita di tre giorni che doveva sancire l’alleanza contro l’America di Trump, “colpevole” delle sanzioni a Mosca e della guerra commerciale a Pechino.
Ma il patto non ha funzionato come doveva e il coronavirus lo ha ancor più indebolito. Putin sta perdendo colpi, per la prima volta in vent’anni di potere, affossato dalla tragica contabilità della pandemia, da un’economia in picchiata che ha fatto precipitare la sua popolarità ai minimi storici. Chiuso in quarantena volontaria nella sua dacia fuori Mosca ha dovuto rinviare anche l’agognato progetto di riforma costituzionale che lo avrebbe proclamato di fatto un presidente a vita, proprio come Xi. Il presidente cinese, invece, sembra essere uscito indenne dalla crisi sanitaria. È vero che l’economia ha subìto la prima contrazione dal 1976, l’anno della fine della Rivoluzione culturale, ma la popolarità di Xi e soprattutto il suo controllo sul partito non sembrano averne risentito. E la sua risposta alla sfida di Trump, sul grande palcoscenico dell’assemblea dell’Oms, è stata quella di chi si sente ormai allo stesso livello: una donazione di due miliardi di dollari.
Janan Ganesh ha scritto sul Financial Times che la prima guerra fredda non era stata soltanto un corsa agli armamenti ma anche un popularity contest, una gara di popolarità nel mondo. Gli Stati Uniti l’avevano vinta sull’Unione Sovietica grazie a quattro strumenti: l’attrazione culturale (il modello di vita americano), gli incentivi economici (dal Piano Marshall in poi), la finezza diplomatica e la protezione militare (attraverso la Nato e non solo). Trump sembra incapace di usarli. Peggio, li rifiuta. La seconda guerra fredda è piena di incognite. Soprattutto per quell’Alleanza occidentale (che non significa solo Nato, ma un bouquet di valori) nella quale il presidente americano pare non credere più.
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